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Autore: ____sapphire____24    16/09/2021    0 recensioni
[The Boyz]
Post 2° Round di Kingdom Legendary War.
Un salto nella testa di un Hyunjae amareggiato per la classifica dei The Boyz.
Dalla storia:
"Tutto quello che venne dopo la lettura di quella classifica nefasta, nemmeno lo ascoltai. Ogni suono in quello studio enorme – reso uno scenario irreale, data la mancanza del pubblico – arrivava alle mie orecchie come un ronzio ovattato. Ero lì, con i miei dieci compagni di gruppo, ma non c’ero. Non sul serio. La mia testa vagava chissà dove e la rabbia faticava a placarsi.
Abbandonai la testa all’indietro e chiusi gli occhi. Fu la scelta peggiore che potessi fare.
Come un fulmine che squarcia un cielo sereno, ricordai che dietro le quinte avrei dovuto affrontare il giudizio più spietato. Quello di cui mi importava di più. Ricordai che avrei dovuto affrontare il suo sguardo e riuscire a non eludere il disappunto, che di sicuro avrei letto nei suoi occhi.
Sentii che ero molto vicino a vomitare. Non avevo mangiato niente eppure qualcosa premeva sulla bocca dello stomaco, dandomi la nausea."
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fil rouge.

Ero in silenzio, ammutolito da quello che avevo appena vissuto. La classifica del secondo round era stata appena svelata e noi, proprio noi – quelli che avevano vinto Road to Kingdom – eravamo in fondo. Dietro tutti gli altri. Strinsi i pugni e mi voltai a guardare gli altri cinque gruppi, seduti sulle scalinate accanto a noi. 
Nessuno di voi ci ha votato, siete degli stronzi – pensai.                                                                                             
Ed avrei tanto voluto dirlo. Avrei tanto voluto alzarmi in piedi ed urlarlo a squarciagola.                                                 
Erano degli stronzi, davvero degli stronzi. Nessuno di loro aveva visto quanto sangue avevamo sputato per preparare una coreografia diversa dal solito. Dal nostro solito ma anche da quello di tutti gli altri.
Provateci voi, a fare il tango. Brutti stronzi.
Fu quello il secondo pensiero che mi venne in mente. Ci stavamo mettendo in gioco come nessuno di loro là dentro, e comunque non avevamo perso la nostra identità. Ma loro non riuscivano a vederlo, o forse non lo volevano vedere.
Abbassai lo sguardo e vidi che Youngjae aveva gli occhi lucidi. Non potevo farmi prendere dalla rabbia, gli altri avevano bisogno di me. Avevano bisogno del Jaehyun spensierato, che ha sempre una parola di conforto. Attirai la sua attenzione sventolando la mano di fronte al suo viso.       
«Va tutto bene, Youngjae» gli dissi, senza troppa convinzione.
Non andava bene per niente. Sentivo che il sangue nelle vene si era trasformato in lava e avevo tanta voglia di scoppiare, come un vulcano in piena eruzione, distruggendo tutto quello che mi circondava.
Tutto quello che venne dopo la lettura di quella classifica nefasta, nemmeno lo ascoltai.                                         
Ogni suono in quello studio enorme – reso uno scenario irreale, data la mancanza del pubblico – arrivava alle mie orecchie come un ronzio ovattato. Ero lì, con i miei dieci compagni di gruppo, ma non c’ero. Non sul serio. La mia testa vagava chissà dove e la rabbia faticava a placarsi.
Abbandonai la testa all’indietro e chiusi gli occhi. Fu la scelta peggiore che potessi fare.
Come un fulmine che squarcia un cielo sereno, ricordai che dietro le quinte avrei dovuto affrontare il giudizio più spietato. Quello di cui mi importava di più. Ricordai che avrei dovuto affrontare il suo sguardo e riuscire a non eludere il disappunto, che di sicuro avrei letto nei suoi occhi. 
Sentii che ero molto vicino a vomitare. Non avevo mangiato niente eppure qualcosa premeva sulla bocca dello stomaco, dandomi la nausea. 
Finalmente ci lasciarono andare, dopo minuti lunghissimi di chiacchiere, di spiegazioni.                                             
Tutte cose di cui non mi importava un cazzo. Mi inchinai a tutti gli altri concorrenti, salutai quelli con cui avevo più confidenza. 
«Sei stato bravissimo, complimenti» dicevo.                                                                                                                   
Sei uno stronzo, esattamente come gli altri – pensavo.                                                                                                 
Scelsi di essere l’ultimo della fila che i miei compagni avevano creato per tornare in camerino.                                     
Scelsi di essere l’ultimo che avrebbe incontrato il suo sguardo deluso, perché avevo bisogno di tempo per prepararmi psicologicamente. 
Raggiungemmo la porta del camerino e il primo della fila – probabilmente Sangyeon – la spalancò, lasciandola aperta per il resto di noi. La stanza era occupata per metà dal nostro staff, pronto ad asciugarci il sudore, massaggiarci le spalle e donarci parole di conforto.
Entrai per ultimo, tenendo lo sguardo basso, e mi chiusi la porta alle spalle sbattendola.                                             
Più di qualche testa si voltò nella mia direzione. Juyeon pronunciò il mio nome in tono di rimprovero. Lo ignorai. Ignorai le truccatrici che volevano aiutarmi a liberarmi dal fondotinta, ignorai le stiliste che mi dicevano di stare attento a non sporcare i pantaloni, ignorai il coreografo che stava dicendo ad ognuno di noi che eravamo stati fenomenali, che andava bene così, che – gli esperti vi hanno piazzati al secondo posto, comunque.
Come se poi potesse essere confortante.                                 
I secondi sono i primi dei perdenti, e noi non volevamo essere dei perdenti.                                                               
Mi lasciai cadere, come corpo morto, su uno dei divanetti che la produzione dello show ci aveva messo a disposizione. Abbandonai la testa sulla spalliera e chiusi gli occhi. Li tenni chiusi fin quando non sentii la sua voce. Ogni volta che la sentivo era come una carezza per il mio timpano. Non avevo mai sentito una voce più bella della sua. Non parlava con me, però.
Aprii gli occhi e raddrizzai la testa. Agganciai con lo sguardo la sua figura snella e tonica, che si muoveva come una farfalla per la stanza. Non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo sui suoi occhi, non ancora. Ripercorsi quella sagoma così familiare dalle caviglie fino al naso, indugiando sulla curva dei suoi fianchi e sul suo vitino sottile. Non c’era niente di più armonico del suo corpo.
I capelli castani le ricadevano, leggeri, sulle spalle e si allungavano fino a metà della sua schiena.                               
«Va tutto bene, Youngjae» le sentii pronunciare le esatte stesse parole che gli avevo detto io, circa mezz’ora prima.
Spostai lo sguardo sul mio compagno di gruppo. Sul mio amico. Su quello che, giocosamente, chiamavo il mio bambino. Il nostro bambino. 
Lei si prendeva cura di tutti noi con una delicatezza che mi scaldava l’anima, ma di Youngjae un po’ di più. Youngjae ha bisogno di me più di quanto ne abbiano gli altri – mi disse una volta, ed io non potei fare altro che darle ragione. Dietro il ragazzo energico e pieno di vita, si nascondeva il bambino fragile ed emotivo che era stato – che sarebbe stato per sempre. E, se ogni sguardo in più che lei rivolgeva a Juyeon, mi faceva salire il sangue al cervello, per ogni bacio affettuoso sulla guancia di Youngjae, io mi sentivo meglio. Come se lo avesse dato a me.
Lui scuoteva la testa, mi dava le spalle ma ero sicuro che stesse piangendo.                                                             
Continuai a guardarli. La vidi chinarsi verso di lui, avvolgergli le braccia attorno al collo e stringerlo forte. La vidi poggiare la guancia sui suoi capelli, e in quel preciso momento i suoi occhi trovarono i miei. Avrei voluto scansarli, avrei voluto voltarmi dal lato opposto e non vedere mai quella tristezza che li copriva, come un velo trasparente. Ci guardammo per qualche secondo prima che lei tornasse a mettersi dritta, stringendo le mani di Youngjae nelle sue, e prendesse a fare di tutto per farlo sorridere. Ci riuscì ed io non avevo dubbi che ce l’avrebbe fatta.
Alla fine dovetti arrendermi e permettere alle truccatrici di struccarmi, alla stilista di aiutarmi a sfilare la giacca e al manager di darmi una pacca sulla spalla e dirmi che la prossima volta sarebbe andata meglio. Ma a me delle prossima volta non fregava un cazzo. Volevo che andasse bene quella volta, non mi andava di aspettare fino alla prossima.
Maledetti quegli stronzi che non ci hanno dato nemmeno un voto – pensai nuovamente.                                         
Di lì a venti minuti eravamo tutti pronti per andare. Avevamo indossato abiti più comodi e i nostri migliori sorrisi finti, da esibire a destra e a manca nel caso avessimo incontrato qualche nostro concorrente sulla via d’uscita. Per fortuna non fu così. 

 
*
 
Misi piede in dormitorio – entrando per primo, quella volta – e mi fiondai direttamente nella mia camera. La porta d’ingresso si chiuse alle spalle di Younghoon, l’ultimo ad entrare, e si aprì nuovamente una decina di minuti dopo. C’era una sola persona che conosceva il nostro codice d’ingresso, ed era la stessa persona i cui occhi tristi mi avevano fatto sentire male.
Non le avevo parlato per niente, in camerino, ma sapevo che non avrei potuto evitarla ancora per molto. Sentii la sua voce, la sentii fare un saluto generico e poi ripetere che eravamo andati bene, che era normale restarci male ma l’importante era ripartire immediatamente, già il giorno successivo.
Cazzate – pensai – erano tutte cazzate.
Io sapevo che era arrabbiata quanto me. Che era delusa quanto me. Triste quanto me.                                               
Eravamo due persone diverse ma sentivamo le stesse cose – e le sentivamo in contemporanea.                                   
Prima di lei non avevo mai creduto alla storia del fil rouge, non avevo mai creduto alla favola di due persone che sono destinate – perché legate da un invisibile filo rosso. Poi però mi ero dovuto ricredere, a forza di cose. La prima volta che avevo visto i suoi occhi li avevo riconosciuti – senza mai averli visti prima. Perché per me il riconoscersi era sempre stato qualcosa che andava oltre il ricordo di qualcosa di già conosciuto. Avevo riconosciuto quegli occhi – anzi, mi ero riconosciuto in quegli occhi. Quel giorno, il giorno in cui le nostre mani si erano strette e noi ci eravamo presentati.                           
Jaehyun, piacere.         
Juliet, piacere mio.
                                                                                                                                                             
In quel preciso istante, io avevo trovato lei – Juliet. Ed avevo trovato anche me stesso.                                             
Di quello, però, mi sarei accorto solo dopo.                                                                                                                   
Misi a tacere i pensieri e mi concentrai sul rumore dei passi – dei suoi passi – che avrei riconosciuto anche tra lo scalpiccio della stazione più frequentata di Seoul. Li sentii fare il giro del salotto, poi avvicinarsi al corridoio ed attraversarlo prendendosi delle piccole pause. Immaginai che stesse facendo capolino in ognuna delle altre stanze. Per fare un saluto, per dire una parola di conforto – una delle sue. Poi li sentii più vicini, più insistenti, fino a morire sull’uscio della porta della mia camera. Non bussò – non lo faceva mai, d’altronde – e la vidi affacciarsi solo col busto. 
«Andiamo in terrazzo a parlare?» domandò. Eppure non me lo stava chiedendo davvero.                                           
Dovevo andare e basta, senza protestare. Infilai un paio di ciabatte e la seguii fuori dalla camera, fino al terrazzo. Era speciale, per me, rendermi conto ogni volta di quanta familiarità avesse con quel posto. Era speciale sapere che un luogo che sentivo così tanto mio, era anche così tanto suo – allo stesso tempo. D’altronde non poteva essere altrimenti.
Quello che è tuo è mio. Quello che è mio è tuo.
Perché in fondo eravamo uno solo.
Trascinò la sedia di vimini di qualche centimetro e ci si sedette sopra, allungando le gambe verso la ringhiera e poggiandoci su i talloni. Tirò fuori dalla tasca del giubbotto di jeans la sua IQOS.
Odiavo che fumasse quella roba, ma era sempre meglio della sigaretta classica.
La portò alle labbra ed inspirò profondamente, prima di rilasciare una nuvoletta di fumo grigio.                                                 
«Sei arrabbiato?».                                                                                                                                                     
Nemmeno quella era una domanda. Lei lo sapeva benissimo che fossi arrabbiato. Sapeva benissimo quanto fossi arrabbiato – perché lo era anche lei.                                                                                                                 
Diedi le spalle alla ringhiera – guardando lei – e ci strinsi le dita attorno.                                                                   
«Anche tu lo sei» borbottai, spostando la testa di lato per evitare di inspirare il fumo.                                                     
Fece un altro tiro ma stavolta alzò il mento ed espirò verso il cielo.                                                                             
Seoul era coperta da una tela nera su cui giganteggiava una splendida luna piena.
«Hai ragione, sono arrabbiata anche io» ammise, come se poi ce ne fosse bisogno.                                                                     
Eravamo due ma sentivamo come uno.                                                                                                                         
Sbuffai e staccai le mani dalla ringhiera, le portai davanti a me e presi a giocherellare con l’anello all’indice – quello che avevamo tutti, dal momento del nostro debutto.                                                                       
«Cosa c’era che non andava nella nostra esibizione di oggi?».                                                                                   
«Niente».                                                                                                                                                                       
«E allora perché nessuno degli altri gruppi ci ha votato?».                                                                                         
Infilò l’IQOS nuovamente in tasca e incatenò i suoi occhi nei miei.                                                                                 
Quell’invisibile filo rosso che ci collegava, faceva sì che ogni cellula dei nostri corpi fosse in connessione. Riuscii a leggere attraverso quei pozzi azzurri e seppi già cosa stava per dire, ancora prima che lo dicesse.
«Perché sono degli stronzi».
Restammo seri per un attimo, prima di scoppiare a ridere. Non lo sapevo come faceva, non lo avrei mai saputo. Sapevo solo che poteva riuscirci solo lei.                                                                                           
Si alzò e mi raggiunse, mi premette il palmo sul braccio, facendomi segno di spostarmi, e si poggiò coi gomiti sulla ringhiera, sporgendosi leggermente. Io l’abbracciai, avvolgendo le braccia intorno alla sua vita, e poggiai il mento sulla sua spalla.
«È stato terribile arrivare ultimi» mormorai, soffiando sul suo orecchio.                                                                        
Il lungo orecchino di strass che indossava svolazzò leggermente.                                                                                 
«Ogni tanto fa bene arrivare ultimi» commentò tranquilla.                                                           
«Dici?».                                                                                                                                                                           
«Arrabbiarsi serve per dare ancora di più la prossima volta».                                                                                     
L’avvicinai ancora un po’ di più a me e le lasciai un delicato bacio sul collo. Le mie labbra si riempirono del suo profumo. Quel dolce mix tra l’odore della sua pelle e la fragranza fruttata dello Chanel che spruzzava quotidianamente.
«Avrei tanto voluto spaccare lo studio, dopo aver visto la classifica. Non avrei mai voluto vedere i tuoi occhi tristi eppure sono stato costretto. Potevo dare di più».                                                                                 
La sua mano destra raggiunse il mio viso, ci lasciò una carezza e poi lei si voltò.                                                           
«Tu dai sempre il massimo, Jaehyun» affermò in tono rassicurante.                                                                               
L’avevo sentito dire a chiunque, quel giorno e in tutte le altre occasioni in cui i risultati sperati non arrivavano – ma non ci credevo mai. Eppure quando le cose le diceva lei avevano tutt’altro impatto su di me. Erano vere. Erano sentite. Le uscivano dalla pancia, dal cuore, dall’anima.       
«Lo dici solo perché mi ami» piagnucolai.                                                                                                                       
Lei si girò di centoottanta gradi. Non mi dava più le spalle e le mie mani le erano scivolate dalla vita ai fianchi, assestandosi lì. Come se la curva dei suoi fianchi fosse disegnata apposta per l’impronta della mia mano.
«Ti amo» disse convinta.                                                                                                                                                 
Lo diceva poche volte, perché per tutto il resto del tempo me lo dimostrava – ed io non necessitavo d’altro. Però ogni volta che quelle due parole fuoriuscivano dalle sue labbra di pesca, morbide come nuvole, il mio cuore perdeva un battito ed il cervello si annebbiava di un fumo azzurro.
Azzurro com’era lei. Azzurro com’erano tutte le mie cose preferite. Il mare, il cielo, i suoi occhi.                                         
«Però lo dico perché lo penso» continuò quella sentenza che aveva lasciato a metà, nel limbo tra le cose dette e quelle non dette.
Sorrisi contento. Compiaciuto come un bambino a cui è stato appena permesso di avere tutte le sue caramelle preferite. Mi chinai quel poco che bastava per intrappolare le sue labbra tra le mie.                                   
Sentii, come al solito, che le gambe si indebolivano e che la testa girava un po’. Sentii l’amore scoppiarmi dentro come fuochi d’artificio la prima notte del nuovo anno.                                                                               
«Ti amo» le dissi, prima di baciarla ancora.                                                                                                                     
Le sue mani risalirono lungo la mia schiena, prima di pettinarmi i capelli ed affondarci le dita affusolate all’interno. Le mie stazionarono sui suoi fianchi, prima che una viaggiasse autonoma diretta verso il suo viso. Le carezzai una guancia ed aprii gli occhi solo per un momento.         
Era bellissima con gli occhi chiusi, mentre si lasciava andare alle mie cure e la sua lingua era impegnata ad intrecciarsi con la mia. Aprì gli occhi anche lei e ci parlammo, senza dirci niente.                                         
La baciai come se quella fosse l’ultima notte che avevo a disposizione per farlo.                                                         
Staccarmi da lei fu un’agonia. Sentii il vuoto assalirmi non appena le nostre labbra si allontanarono e pure in una notte di primavera inoltrata, avvertii un brivido di freddo.                                                                               
«Devi dormire, oggi è stata una giornata pesante» mi prese la mano e mi costrinse a seguirla all’interno, fino di nuovo alla mia camera.
Ero così riluttante a lasciarla andare che mi rifiutai di cambiarmi, di indossare il pigiama e mettermi a letto. Così lei, come se fossi un bambino privo di qualsiasi autonomia, mi sfilò la felpa e fece lo stesso con i pantaloni. Frugò nel mio armadio e poggiò il pigiama accanto a me, che ero seduto sul letto.
«Voglio fare l’amore con te» le dissi, guardandola dritto negli occhi.                                                                           
Lei sorrise, si passò la lingua sulle labbra ed arricciò il naso in una smorfia stupenda.                                                   
«Adesso sei troppo stanco, e sai che durante il sesso ti voglio al cento per cento» mi fece l’occhiolino.
Era sfacciata. Tremendamente sfacciata. E non aveva paura di dire cose che potessero ferirmi o infastidirmi. Perché lei sapeva benissimo cosa stessi pensando. Sapeva benissimo come mi sentivo e lo sapeva sempre. Perché lei sentiva le stesse cose.
Perché in fondo eravamo una persona sola. Eravamo due ma sentivamo come uno.
Infilai il pigiama che aveva preparato per me e le rubai un ultimo bacio a stampo.                                                       
«Mi dispiace di averti delusa oggi» mi scusai nuovamente.                                                                                       
Volevo il primo posto. E lo volevo così tanto più per lei che per me stesso.                                                                   
Volevo che fosse fiera di me. Che potesse andare in giro, a testa alta, sapendo che il suo uomo era il componente di un gruppo che ce l’aveva fatta. Che aveva sfondato. Che era al primo posto.                             
Perché lei mi aveva sempre dato milioni di motivazioni per rendermi fiero. Ed io volevo darne a lei almeno la metà.
«Tu non mi deludi mai. Sei un ballerino e un cantante fantastico. E sei la mia persona. L’unica esistente su questo pianeta e su qualsiasi altro. In questa vita e anche in quelle precedenti e in quelle che verranno». Fu lei a cercare le mie labbra, mi baciò una, due, tre, dieci volte.   
«Buonanotte amore mio» sussurrai, mentre lei aspettava in piedi accanto al mio letto, perché non sarebbe andata via fino a quando non mi avesse visto infilarmi sotto le coperte.                                                       
«Buonanotte amore mio» ripeté e mi diede le spalle solo quando il lenzuolo bianco aveva raggiunto le mie clavicole. 


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Ho pensato che mi sarebbe tanto piaciuto leggere qualcosa sui TBZ, e così l’ho scritto da me. Ovviamente ho partorito questa cosa subito dopo aver visto quella puntata. Le loro facce non le dimenticherò mai, la delusione che ho letto sui loro volti brucerà per sempre.                             
Affido a voi questo mio sclero/delirio. 

____sapphire____24 
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          
 
   
 
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