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Autore: Adeia Di Elferas    17/09/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Il Duca di Ferrara si tormentava il grosso anello che portava all'anulare destro senza fermarsi un solo istante. Il suo portavoce, conoscendo quel suo modo di fare, non interruppe mai il suo racconto, convinto che Ercole non solo lo stesse ascoltando con attenzione, ma stesse già cercando una soluzione alla strana questione che gli stava sottoponendo.

Così come, con grande discrezione, il suo messo gli aveva riferito le varie trattative per portare da Roma delle monache che andassero ad abitare il monastero di Suor Lucia da Narni – monaca in odore di santità, rapita con la collaborazione della stessa, un paio d'anni prima e portata a Ferrara, dove il Duca le aveva fatto costruire un monastero tutto nuovo – adesso gli stava riportando anche le novità più spiacevoli che riguardavano il Vaticano.

Per volere dell'Este, ogni notizia andava prima vagliata da lui, e poi, solo in un secondo momento, se lui lo riteneva opportuno, divulgate.

Così come aveva tenuto molto a non far sapere troppo in giro la questione del figlio di Lucrecia, quello che in molti chiamavano l'infante romano, al momento affidato a delle religiose, così aveva soprasseduto e imposto il silenzio sulle chiacchiere riguardanti la scandalosa festa avvenuta il 31 ottobre di quell'anno a cui, aveva detto il portavoce, aveva partecipato anche la giovane Borja.

Quel giorno, quell'ulteriore pettegolezzo, stava facendo sudare freddo Ercole. Voleva a tutti i costi imparentarsi coi Borja, ed era fermamente convinto che suo figlio Alfonso non meritasse certo una santa, ma ogni volta che gli arrivavano voci dall'Urbe, la sua sicurezza vacillava sempre di più.

“Quindi, mi state dicendo – fece a un certo punto il Duca, interrompendo il suo portavoce e puntando gli occhi freddi verso il camino acceso – che Madonna Lucrecia ha partecipato a questa cosa e si è anche divertita.”

“Come vi ho detto – asserì l'altro, chinando appena il capo, pensando che un breve riassunto fosse necessario, per evitare fraintendimenti – l'undici, mercoledì scorso praticamente, il papa ha fatto sequestrare dalle sue guardie due giumente, proprietà di alcuni falegnami che stavano andando tranquilli verso Porta Viridaria, e li ha fatti portare nel cortile del palazzo apostolico.”

“Questo l'ho capito.” disse, gelido, l'Este, fulminandolo con un'occhiataccia: “Non sono ancora rimbambito e di certo non mi scandalizzo nel sapere che il Santo Padre ha rubato deliberatamente due giumente a dei suoi sudditi. È quello che è successo dopo... Voglio sapere se è successo davvero!”

Come a voler trovare conferma, prima di assicurare che fosse così, il messo riguardò gli appunti che aveva preso mentre era ancora a Roma e, leggendoli di quando in quando, ribadì: “Le guardie del papa hanno tolto il carico alle giumente, una volta nel cortile del palazzo, e hanno fatto uscire quattro stalloni dalle scuderie... Potete immaginare cosa abbiano fatto gli stalloni, con due giumente... E il pontefice era alla finestra, assieme alla figlia, guardando la scena con...” si schiarì la voce, ripetendo le parole che aveva sentito usare da Johannes Burckardt in persona: “Cum magno risu et delectatione...”

“Quella sgualdrina...” borbottò allora l'Este, immaginandosi quasi il giovane – e per lui in realtà sconosciuto – viso di Lucrecia Borja mentre guardava gli stalloni montare le giumente, così come doveva aver guardato con interesse il padre e il fratello montare le cantoniere alla festa del 31 ottobre...

Certo, Ercole conosceva suo figlio, ne vedeva tutte le pecche e le enormi carenze... Da un lato era conscio del fatto che Alfonso non meritasse di meglio, che quella meretrice romana. In fondo, invece di occuparsi di quello che avrebbe dovuto, passava le sue giornate a sporcarsi le mani come un fabbro e a correre nei peggiori postriboli di Ferrara a cercarsi donne ben peggiori di quella Lucrecia Borja...

La figlia del papa portava con sé il nome e la protezione pontificia, due cose di cui l'Este era conscio che il Ducato avesse gran bisogno. Tutto il resto era secondario, special modo il pensiero di Alfonso.

L'unico vero problema, di quel matrimonio, sarebbe stato, secondo il suo giudizio, convincere la Borja a tenere le cosce serrate e fargliele aprire solo per dare alla luce eredi che fossero indiscutibilmente legittimi... Per farlo, si stava già organizzando, facendo in modo di farla circondare, una volta a Ferrara, di dame sì scelte anche da lei, ma numerosissime, in modo che vegliassero su di lei come cani da guardia.

“Queste cose che mi avete detto...” riprese poi il Duca, mordendosi l'unghia del pollice: “Non sono cose che il papa abbia chiesto di divulgare, o sbaglio?”

“No, no, mio signore.” rispose il messo: “Non ne fa mistero, ma non ha certo chiesto di farvele sapere.”

“E allora faremo i finti tonti.” tagliò corto l'Este: “Ma che capisca che io so e faccio finta di nulla per il bene che voglio alla mia futura nuora e per quanto tengo a questa unione.”

Ercole si fermò per un solo istante e poi, con un gesto imperioso della mano, fece un cenno spazientito, come se avesse di colpo preso una risoluzione. Tutti si aspettavano che lui, nell'arco di un paio di giorni al massimo, mandasse a chiamare Lucrecia affinché raggiungesse Ferrara. Ebbene, avrebbe fatto attendere sposa e consuocero ancora un po'.

“Ufficialmente – ribadì il Duca, fissando con occhi impenetrabili il messo – noi non ne sappiamo nulla di tutte queste buffonate. Anzi, darò ordine di scrivere una commedia sporcissima da far recitare quando quella donna e mio figlio si sposeranno, così faremo vedere che la cosa, a noi, non tocca. Però il papa deve capire che non mi piace essere trascinato nelle chiacchiere di Roma... Dite a lui o a chi per lui, che in cambio di questo matrimonio, oltre a tutto il resto, io richiedo benefici ecclesiastici per Don Giulio. E anche un cappello cardinalizio per Gian Luca Castellini.”

Il messo si accigliò. La prima richiesta, i favori per Don Giulio, poteva capirli, dato che, in fondo, si trattava del figlio illegittimo prediletto da Ercole. Il cappello per il fiorentino Castellini, uomo schivo di Pontremoli, lo capiva meno. Era uno più stretti consiglieri del Duca, ma...

“Se dalla Santa Sede non avrò un responso immediato e positivo per entrambe le richieste – si affrettò a concludere l'Este – allora fate sapere al papa che, per il momento, Madonna Lucrecia sta bene dove sta...”

“Sarà fatto.” si inchinò il portavoce e poi, paziente come sempre, attese precisazioni sugli affari minori che avrebbe dovuto curare una volta tornato nell'Urbe.

 

Quel pomeriggio, per festeggiare l'undicesimo compleanno di Bernardino, Bianca si era proposta per cantare per tutti.

Siccome l'unico cenno di festa, fino a quel momento, era stato il pranzo un po' più abbondante del solito, Caterina aveva subito dato il suo benestare e anche il giovane Feo si era detto felice di quell'iniziativa.

La Sforza, quindi, si era seduta assieme ai figli nel salone delle letture e si era sistemata al meglio, come se non avesse per la mente altro, se non ascoltare la figlia intonare canzoni che aveva imparato anni prima da sua nonna Lucrezia e dalla sua omonima zia, Bianca Landriani. Nella sua testa, però, si agitavano ben altre melodie, molto più fastidiose e graffianti.

Quando il giorno prima aveva dato disposizioni alla cucina per servire un pranzo degno del compleanno del suo settimogenito, si era scontrata con le rimostranze della cuoca, che si chiedeva come avrebbe fatto a comprare ciò che la Tigre chiedeva. Caterina, allora, aveva cercato i suoi fondi personali, i trecento fiorini prestati dai Baldi. Aveva preso quel poco che serviva, ma, già al colpo d'occhio, le era parso che i soldi fossero meno di quelli che lei stessa aveva nascosto.

Non ne aveva ancora toccati, perché, malgrado la sua ferma risoluzione nel cambiare per intero la servitù, non sapeva come muoversi, dato che, non potendo lasciare la villa, non aveva modo di cercare nuovo personale. Quando si mise a contare i fiorini ebbe la conferma che non erano più trecento, mancandone una manciata.

Arrovellandosi su chi potesse essere il colpevole, alla fine la sua testa si era trovata a focalizzarsi solo su due plausibili sospettati: o un servo – ma era difficile credere che uno dei domestici avesse trovato la somma, dato che lei l'aveva occultata a dovere – o Ottaviano, che l'aveva vista, mentre nascondeva i fiorini.

Si era presa un po' di tempo, però, ben decisa a non correre subito alle conclusioni. Tuttavia anche quel giorno il suo primogenito non aveva fatto nulla per scostare da sé i sospetti, dato che, benché lei non avesse messo a parte nessuno del problema, il giovane aveva fatto di tutto per evitarla e, al contempo, per non urtarla. Addirittura – malgrado il festeggiato non ne fosse troppo contento – si era unito agli altri per sentire Bianca cantare, prendendosi perfino il disturbo di fare i suoi auguri al Feo.

Malgrado i suoi sospetti fossero ormai quasi certezze – più per una serie di indizi che non di effettive prove – la Leonessa ancora non si era decisa ad affrontare direttamente Ottaviano, ben sapendo che avrebbe rischiato, come spesso le capitava nello scontrarsi con lui, di trascendere in fretta ed esasperare ancora di più il loro già difficile rapporto.

“Pensavo che oggi sarebbe stato qui anche messer Fortunati...” disse piano Galeazzo, vicino alla madre.

La donna, distraendosi per un momento dai suoi pensieri, sempre tenendo gli occhi fissi su Bianca, che continuava nella sua esibizione, ribatté: “Mi aveva detto che probabilmente non sarebbe riuscito ad arrivare qui se non a tarda sera.” poi, siccome quell'interessamento da parte del Riario le parve strano, chiese: “Perché me lo domandi?”

Galeazzo parve per un istante indeciso se parlarle o meno, poi, con aria circospetta, le sussurrò, appena udibile: “In linea teorica lui dovrebbe avere il controllo e fare da garante per tutta la corrispondenza in entrata e in uscita da questa villa, giusto?”

La Sforza accennò un assenso con il capo e attese il prosieguo del discorso.

“Ieri ho visto Ottaviano – iniziò a spiegare il Riario, occhieggiando con discrezione verso il fratello maggiore, a una certa distanza da loro – leggere una lettera e, quando si è accorto di me, l'ha nascosta in tutta fretta e poi se n'è andato...”

Quel dettaglio, assieme a tutto il resto, scatenò nella Tigre un moto di rabbia che riuscì a trattenere solo in parte. Il suo volto si contrasse, in un'espressione terribile, così come i suoi pugni si strinsero lungo i fianchi con tanta forza da farle venire le dita bianche, ma almeno, seppur con immensa fatica, evitò che dalla gola le salisse un urlo di collera rivolto al figlio maggiore.

Galeazzo, che da quella reazione aveva compreso che l'informazione che aveva appena dato fosse più importante del previsto, si affrettò ad aggiungere: “Posso provare a scoprire di cosa si tratta, se volete.”

“No, no... Va bene così.” lo frenò subito Caterina, accarezzandogli per un istante il viso, appena rasato: “Non ci pensare, me ne occupo io.”

Il ragazzo, facendosi più serio, accettò volentieri il gesto d'affetto della madre, specie perché arrivava inatteso e poi ci tenne a dire: “Se avete bisogno di me, io ci sono. Sempre.”

“Lo so.” sorrise pacatamente la donna: “Lo so...”

 

Fortunati, alla fine, ci stava impiegando più tempo di quel che aveva previsto, circa una mezza giornata, perché lungo la strada tra Cascina e la villa di Castello, era stato sorpreso da un'improvvisa e violentissima nevicata. Era il 28 novembre, quindi qualche disagio legato al cattivo tempo era prevedibile, tuttavia il piovano non si era atteso una simile ferocia da parte della natura e aveva dovuto fermarsi momentaneamente in una locanda.

Aveva preso qualcosa da bere e da mangiare, mentre fuori la neve continuava a turbinare sempre più forte e il freddo cercava di scalfire il placido calore del camino acceso.

Oltre a lui c'era una manciata di viandanti. Erano stati tutti sorpresi dalla neve, e molti di loro stavano chiedendo all'oste se ci fosse la possibilità di passare lì la notte. Francesco, stringendosi nelle spalle, ebbe una mezza idea di fare altrettanto, ma voleva anche arrivare presto da Caterina...

C'erano molte cose di cui voleva parlarle, dalle ultime notizie circa la posizione di Lorenzo, fino a certi sospetti che aveva avuto riguardo Cesare Riario che, da Pisa, sembrava intento a intessere reti non proprio sicure, con il rischio di mettere nei guai tutti quanti.

Infine, ammise tra sé Fortunati, mentre sorbiva in fretta il calice di vino caldo che aveva davanti, aveva voglia di rivedere la Tigre, anzi, era proprio ciò che gli metteva in corpo l'urgenza più difficile da tacitare.

Da quando era stata liberata e lui, almeno nella sua ottica, ne era diventato il maggiore e più fervente custode e difensore, per Francesco Caterina era diventata qualcosa di ancor più fondamentale e centrale nella sua vita di quanto non fosse stata prima. Era come se ogni sua azione e ogni suo pensiero ruotasse attorno a lei.

Passò circa un'ora e alcuni dei viandanti che avevano deciso di fermarsi per la notte stavano già raggiungendo le loro stanze. Il piovano fece due conti e capì che era il momento di muoversi, se voleva avere una camera a sua volta, dato che la locanda era abbastanza piccola e gli incerti erano ancora relativamente numerosi.

Con una lieve titubanza, sorbì l'ultimo cucchiaio di zuppa e si alzò dal suo tavolo, raggiungendo l'oste per pagare la cena, e chiese: “C'è ancora posto per me?”

L'uomo diede una scorta alla sala, illuminata dal camino e da una dozzina di candele di sego, poi fece un breve conto a mente e alla fine rispose: “Se volete, potete dormire qui giù, su una delle panche. O nella rimessa dei cavalli. Ovviamente a prezzo ribassato.”

Francesco ci rifletté un minuto. Si toccò la scarsella, per valutare quanti soldi avesse con sé e poi tese l'orecchio per sentire se la furia della nevicata si era ridotta o meno. Non aveva voglia di dormire scomodo, tanto meno di pagare per farlo. E poi avevo voglia di raggiungere Caterina...

“No, no, non importa. Quanto devo per la cena?” soffiò alla fine.

Dopo aver pagato, si strinse bene nella sua cappa scura e fece in modo di avvolgersi a dovere nella lana anche la testa, per evitare che la neve gli impregnasse i capelli. Il suo cavallo non era molto d'accordo, a ripartire con quella bufera, ma era un animale non giovanissimo e docile, per cui, dopo un paio di tallonate sui fianchi, l'uomo lo convinse a rimettersi sulla via.

La strada era difficile da vedere, sia per colpa della neve, sia per il buio. Anche se proprio la coltre bianca che ormai copriva tutto aiutava nell'orientarsi nella notte, facendo rilucere tutto di un lattiginoso chiarore, Fortunati cominciò subito a pregare, affinché Dio gli permettesse di non perdersi.

Continuava a guardarsi attorno e si insaccava sempre di più nelle spalle, per trattenere il calore sotto la cappa di lana, ma tutto sommato aveva in sé una strana tranquillità. La notte, nell'ottica comune, era di per sé un rischio, ma Francesco aveva vivida nella mente l'immagine di Ottaviano Manfredi, trucidato davanti ai suoi occhi in pieno giorno, sotto la luce del sole... I pericoli, lui lo sapeva, non si celavano per forza nelle tenebre, dunque non aveva motivo di sentirsi più in pericolo del solito.

 

Caterina, alla fine, si era ritirata nella sua stanza. Aveva aspettato l'arrivo di Fortunati con apprensione, ma alla fine il piovano non era arrivato. Di certo, si diceva, il tempo doveva averlo rallentato, dato che si era messo a nevicare in modo abbastanza deciso, e probabilmente aveva dovuto fare una sosta in più lungo la strada, fermandosi in qualche locanda per la notte.

Un po' le dispiaceva, quel ritardo, perché davvero aveva voglia di rivederlo e parlare con lui. In alcuni momenti le sembrava che Francesco fosse l'unica persona al mondo, eccezion fatta per alcuni dei suoi figli, che potesse realmente ascoltarla.

Mentre si preparava per la notte, la Leonessa ripensò a quanto successo quel giorno. Dopo che Bianca aveva finito di cantare e tutti avevano porto una volta di più i loro auguri a Bernardino, lei si era trovata per caso a guardare verso Ottaviano. Lui, come spaventato, si era spostato subito, lasciando quasi di corsa il salone, con l'aria furtiva di qualcuno che si sentiva in difetto.

“Ti stai facendo grande...” aveva detto la Sforza a Bernardino, cercando di non pensare troppo al suo primogenito.

Questi, orgoglioso della constatazione fatta dalla madre, aveva gonfiato un po' il petto e poi l'aveva fissata speranzoso, probabilmente, di sentirsi fare qualche proposta per quel pomeriggio.

La donna l'aveva capito, ma si era trovata a declinare: “So che il tuo compleanno è oggi – aveva iniziato a dire, con tono di scusa – ma sono veramente molto stanca...”

Il ragazzino non aveva detto nulla, perché quella scusa, uscita dalle labbra della madre, per lui era non solo plausibile, ma meritevole di grande rispetto. Così come i suoi fratelli, anche lui aveva notato i cambiamenti della madre e sapeva che, dopo la sua permanenza a Roma, si era fatta più fragile. L'aveva vista in più occasioni da sola, prostrata e infelice, in un modo diverso, meno combattivo e reattivo, di come la era stata a Forlì.

“Domani, se starò meglio – aveva promesso la Leonessa, felice di trovare terreno morbido – ti insegnerò ancora qualche trucco con il coltello o nella lotta...”

Bernardino si era dimostrato entusiasta, e l'aveva addirittura abbracciata, con tanta forza che Caterina ne era rimasta quasi commossa.

“Per oggi pomeriggio – gli aveva detto, poi, sperando che quell'impegno preso da lei a nome di qualcun altro non venisse disatteso – potresti farti insegnare ancora qualcosa di tattica e strategia da tuo fratello Galeazzo... So che ti ha già insegnato molte cose, ma ne devi imparare ancora molte altre...”

Il Feo si era detto d'accordo e Galeazzo, lì vicino, avendo sentito l'ultima parte della conversazione, si era subito avvicinato, dicendosi pronto a spiegare al fratello minore quello che sapeva.

Rincuorata nel vedere i due andare così d'accordo, la Sforza si era fatta da parte e aveva trascorso ciò che restava della giornata pressoché in solitudine.

L'unico altro incontro ravvicinato che aveva avuto, prima di ritirarsi per la notte, era stato con Bianca. Le aveva fatto i complimenti per la bellissima voce e l'aveva anche sentitamente ringraziata per aver allietato cantando il compleanno di Bernardino. La giovane aveva accettato complimenti e ringraziamenti e poi le aveva augurato una buona notte, prima che Caterina trovasse il coraggio di porle una domanda che da giorni le frullava nella testa.

La Tigre avrebbe voluto chiederle se aveva un'idea, anche vaga, di quando Troilo De Rossi sarebbe tornato lì alla villa. Non solo le interessava per capire quanto ancora i francesi fossero interessati a lei, ma anche per scoprire se le aspettative della figlia in merito a quell'uomo fossero o meno ben riposte.

Ripromettendosi di porre quella domanda in un altro momento, Caterina aveva ricambiato il saluto e aveva lasciato che Bianca se ne andasse in camera.

Stringendosi nelle spalle, la Sforza andò alla finestra e cercò di scrutare fuori. C'era buio, com'era ovvio, ma la neve creava l'illusione che ci fosse più luce che in una notte di luna piena. Ricordava ancora in modo vivido le notti di neve a Forlì, passate spesso sui camminamenti, in mezzo ai suoi soldati, o nelle sue stanze, abbracciata a Giacomo o Giovanni, o a chi era capitato...

Trattenendo un moto di profonda malinconia, mentre le tornavano alla memoria le lunghe notti di neve a Milano, quando era bambina, la donna si andò a coricare e sperò con tutta se stessa di dormire senza fare troppi incubi.

Quando si risvegliò, in effetti, non aveva sognato nulla di particolare, o, almeno, così le sembrava.

Ci mise anche qualche secondo a capire che cosa l'avesse destata, e quando fu certa che fosse stato qualcuno che bussava alla porta, con voce impastata chiese: “Che c'è?”

La voce di Creobola, la strana serva che sembrava immune al sonno, alla fame e perfino alla fatica, le rispose, sicura: “Mia signora, messer Fortunati è appena arrivato. L'abbiamo fatto entrare alla villa, abbiamo fatto bene?”

“Ma che ore sono..?” borbottò tra sé la Leonessa, calcolando, a spanne, che si doveva essere più vicini all'alba che al tramonto, ormai, e poi rispose: “Avete fatto benissimo...”

“Messer Fortunati chiede se volete vederlo subito o se lo saluterete domattina. Lui preferirebbe già stasera, ma capisce se non ne avete voglia.” disse poi la serva, con tono leggermente più incerto.

Caterina, accigliandosi, saltò giù dal letto, con un brivido di freddo, e andò alla porta, aprendola quel tanto che bastava per vedere Creobola in viso: “Ha detto davvero così?”

L'altra annuì, il viso dai tratti peculiari che si adombrava e riluceva a tratti, per via della candela che portava in mano.

“Allora... Allora ditegli di venire qui subito.” decise repentinamente la milanese, lasciando che fosse la pancia e non la testa a rispondere per lei.

La serva le apparve abbastanza sorpresa, anzi, proprio gli occhi di Creobola, che si spalancavano, come a chiedersi se avesse capito bene, furono il dettaglio che portò la Tigre a minimizzare in parte l'urgenza che aveva dimostrato.

“Abbiamo cose importanti di cui parlare e preferirei farlo subito – provò a spiegare – e comunque sarebbe meglio che non diceste a nessuno che l'ho fatto venire nella mia camera...”

Quell'ultimo inciso, Caterina se ne rese conto di nuovo con qualche secondo di scarto, fu la classica toppa che si dimostrava essere peggio del buco.

“Certamente...” fece Creobola, con il tono di chi fingeva di non volersi impicciare degli affari degli altri: “Da me non uscirà nemmeno una parola...”

Ritrovando per un solo attimo il suo vecchio ardire, la Sforza fece mezzo passo verso di lei e, fissandola con gli occhi fiammeggianti, la redarguì: “Sarà meglio, o vedrò io come sistemarvi.”

La serva parve abbastanza colpita da quella minaccia e così, dopo un breve inchino, assicurò che avrebbe fatto arrivare lì Fortunati in un soffio.

In effetti Francesco si palesò in meno di due minuti, arrivando quasi di corsa. Non appena lo vide, la Leonessa lo fece entrare in stanza e, finalmente, richiuse la porta, lasciando tutto e tutti fuori.

Il piovano, non appena si trovò nella pace della stanza della milanese, fece un paio di respiri profondi di puro sollievo. Non sapeva nemmeno lui come aveva fatto ad arrivare, dato che un paio di volte, lungo la via, aveva avuto la sensazione di essersi perso. Forse per via delle preghiere, forse per l'istinto del suo cavallo o forse per la mera fortuna, alla fine era riuscito a mettersi sulla giusta carreggiata ed era giunto a destinazione sano e salvo, anche se molto infreddolito.

“Hai viaggiato tutta notte con questo tempo?” chiese Caterina, fissandolo, attonita.

L'uomo annuì, rendendosi conto di come dovesse apparire sgualcito e pesto, ancora avvolto nella sua cappa di lana, ormai completamente bagnata per colpa della neve.

“Aspetta, togliti questa roba...” fece la Tigre, aiutandolo a levarsi proprio la cappa e poi gli stivali maceri.

Rimasto con il suo abito scuro e scalzo, l'uomo deglutì un paio di volte e poi si mise a fissare la Sforza, che era il vero motivo del suo viaggio incosciente sotto la neve: “Avevo voglia di arrivare presto qui.” ammise.

“Ma è successo qualcosa di grave?” chiese lei, pensando che quella solerzia non potesse avere altre spiegazioni logiche.

“No, no...” fece il piovano, scuotendo un po' la testa e rendendosi conto per la prima volta da che era entrato alla villa di avere un freddo tremendo: “No, avevo solo... Volevo solo... Avevo solo voglia di vederti presto, ecco.” farfugliò.

Caterina rimase molto colpita da quella dichiarazione, specie perché in parte sentiva che avrebbe potuto dire altrettanto. Invece di perdersi in tante parola – cosa che non era mai stata la sua specialità – decise di lasciare che i fatti parlassero per lei.

Senza frapporre altri indugi, colmò in fretta la poca distanza rimasta tra sé e Francesco e lo abbracciò, con viva forza, con un'intensità quasi violenta che, per lei, aveva una doppia valenza. Da un lato voleva disperatamente fargli capire quanto anche lei fosse felice di rivederlo, dall'altro voleva forzarsi a non scappare a quel contatto fisico che, dalla caduta di Forlì, le risultava molto complicato.

Il piovano ci mise parecchio a reagire, ma, quando lo fece, ricambiò la stretta con altrettanta energia, finendo a staccarsi dalla donna solo dopo un bel po', sussurrando: “Sono fradicio, per colpa della neve... Ti sto bagnando la veste da notte...”

La Sforza lasciò che si allontanasse, constatando come, in effetti, avesse trasferito su di lei buona parte dell'umidità che lo tormentava: “Devi toglierti quei vestiti, o ti ammalerai.” sentenziò.

Fortunati si schiarì la voce e, un po' deluso per quello che credeva essere un frettoloso commiato, ribatté: “Va bene... Hai... Hai ragione, vado a cambiarmi...”

“Aspetta...” lo frenò lei, mettendosi a cercare subito qualcosa nella piccola cassapanca davanti al letto: “Intanto spogliati... Poi ti copri con questa – disse, sollevando trionfale una coperta molto spessa – e poi, dopo che avremo parlato e ti sarai riscaldato un po', te ne potrai andare a dormire. O hai fatto così tanta strada sotto la neve di notte solo per prenderti un abbraccio e poi scappare in camera tua?”

Frastornato per quello che Caterina aveva detto, il fiorentino si grattò la tempia e poi, sentendo qualche brivido salirgli dalle gambe fino al torace e da lì al collo, capì che la Leonessa aveva ragione: più avesse aspettato, più rischiava di ammalarsi, ed era una cosa che non voleva per nessun motivo.

“Non ti guardo, tranquillo...” sorrise la Sforza, mentre si voltava platealmente, per lasciare che l'uomo si svestisse in tranquillità e facesse in tempo a coprirsi.

Una volta pronto, Francesco le disse di voltarsi pure e così, entrambi più tranquilli, mentre il piovano cominciava a riacquistare la sensibilità alle mani e al volto, si sedettero sul letto e cominciarono a parlare.

Dopo le questioni più ovvie, riguardo la situazione generale, Caterina disse: “Ho il sospetto che Ottaviano mi nasconda qualcosa... Penso che mi abbia sottratto dei soldi e... Io spero quasi che li abbia spesi per convincere qualcuna delle serve a passare la notte con lui, ma ho più che altro paura che li abbia usati per avvicinare qualcuno per qualche motivo stupido...”

Il fiorentino sollevò un sopracciglio e strinse le labbra, assumendo un'espressione che ormai lei conosceva bene.

“Vedo che la cosa non ti sorprende.” fece la Tigre: “Dimmi quello che sai.”

“I miei sono solo dubbi – mise le mani avanti Francesco – ma ho il sentore che tuo figlio sia in contatto con qualcuno di Spello, ma non chiedermi con chi... Devo scoprirlo... E mentre sono qui voglio cercare di carpire qualche informazione direttamente a Ottaviano.”

“Hai il mio permesso.” concesse subito la donna, sentendosi più tranquilla, malgrado tutto, nel sapere che il piovano avrebbe fatto quell'indagine per lei.

Come se fossero bastate quelle poche parole a rasserenarla quasi del tutto, Caterina si mise a osservare meglio colui che aveva davanti. Ormai i capelli scuri del religioso erano asciutti e lui si stringeva in modo meno pressante alla coperta, come se, ormai, non avesse più freddo, ma quasi caldo. Aveva, anzi, mollato tanto la presa che la stoffa pesante lasciava intravedere appena il suo petto.

“Vista la barba folta che hai, quando la lasci crescere – si lasciò scappare la Tigre – credevo fossi più peloso.”

Seguendo lo sguardo della Sforza, l'uomo si guardò il petto, su cui spiccavano pochi peli sali e pepe. Si affrettò subito a coprirsi di nuovo e balbettò qualcosa riguardo al fatto che era sempre stato così.

“Quanta fretta di coprirti...” sospirò lei, guardando altrove: “Tu mi hai vista nuda, se te lo sei scordato... Se anche lasci che ti veda due peli sul petto, non è certo una tragedia...”

Fortunati ricordava benissimo il corpo nuda di Caterina, e, anche se non l'aveva mai visto in momenti che potessero dare adito a pensieri carnali, nel ricordo, scampato soprattutto il pericolo di vita per lei, avevano assunto un gusto tutto particolare. Aveva visto, all'epoca, una donna stremata, ferita, patita nel corpo e nell'animo, ma, nel rimembrare, ogni dettaglio si addolciva, si alleggeriva e, forse, si mescolava alla fantasia di come sarebbe stata una volta che si fosse ripresa del tutto dalla sua lunga prigionia.

Anche adesso, guardandola alla luce fioca del fuoco, mentre fuori continuava a nevicare, poteva intravedere sotto il suo abito da notte, troppo sottile per l'inverno, le sue forme inconfondibili e ricollegarle al passato lo agitava fin nelle viscere.

Così, un po' per stare al gioco e un po' perché le dava davvero ragione, lasciò che la coperta scivolasse di nuovo un po', come prima, e non diede più cenno di essere in imbarazzo per quel piccolo lembo di pelle messo in vista.

Passarono quel che restava della notte a discutere di tutto quello di cui dovevano, a tratti animatamente, a tratti sostenendosi a vicenda, e poi, quando la luce cominciò a cambiare e il sole ancora acerbo squarciò le nubi portatrici di neve, Fortunati si sentì in dovere di dire: “Meglio che vada in camera mia, prima che qualcuno mi veda uscire di qui con addosso solo una coperta...”

“E prenditi anche i tuoi abiti...” annuì la donna, afferrandoli e notando come fossero ancora molto umidi: “Sentiti libero di dormire, stamattina... Ti scuserò io con gli altri.”

Alzandosi dal letto e afferrando i propri vestiti con una mano, mentre con l'altra ancora si teneva avvolto alla coperta, l'uomo fece un breve sorriso e poi, arrossendo appena, sussurrò: “Sono felice di aver trascorso con te questa notte a parlare...”

“Sì, anche io.” sospirò la Leonessa, lasciandosi poi sfuggire: “Anche se confesso che comincio a essere insofferente riguardo a...”

Siccome il piovano la fissava accigliato, senza capire, la donna si schiarì la voce e decise di vuotare il sacco, contando sul fatto che Francesco fosse il suo confessore e che, come aveva fatto Bernardino, di appena undici anni, anche lui dimostrasse sufficiente maturità per capirla e non giudicarla.

“Comincia molto a mancarmi il passare una notte con un uomo, ma non a parlare...” parafrasò, cercando di non essere troppo brutale, dato che il piovano, ai suoi occhi, aveva sempre avuto una patina di santità, come se i tormenti umani di quel genere lo sfiorassero appena, incompresi, finendo solo per confonderlo.

“Io...” sussurrò lui, stranito.

“Scusami...” si affrettò a dire lei, andando alla porta: “Non dovevo dirti una cosa simile... Ho parlato a ruota libera, senza pensare... Aspetta che controllo se arriva qualcuno.”

Detto ciò, la Leonessa schiuse appena la porta della sua stanza e guardò un istante fuori. Appurato che non stava passando nessuno, né servi né figli, fece un cenno al fiorentino, che non si fece pregare.

“Ci vediamo più tardi.” promise lui, sfilandole accanto con aria furtiva: “E poi mi occuperò di quella questione, di Ottaviano...”

La donna gli fece eco con un brevissimo 'sì' e poi tornò in stanza, senza essersi accorta che nella penombra del corridoio erano ben quattro gli occhi che avevano visto il piovano uscire con passo felpato dalla sua stanza. Due di essi appartenevano alla serva, Creobola, che non si sorprese affatto di scoprire che Fortunati si fosse trattenuto fino a quell'ora. Gli altri, invece, erano quelli blu e perplessi di Bianca che, con tutta la buona volontà, conoscendo Francesco per come lo conosceva, sapeva, senza ombra di dubbio, che il motivo della sua presenza lì non doveva avere nulla a che fare con la famigerata fame della Tigre, poco importava se il piovano era avvolto in una coperta, con i vestiti in mano, e l'andatura sgusciante del gatto che si era appena pappato la trippa.

   
 
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