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Autore: settembre17    17/09/2021    12 recensioni
In questi capitoli (un po’ più lunghi del mio solito) immagino il percorso, scandito in tre tappe, che porta Oscar ad accorgersi davvero di André e di quello che la lega a lui. In ogni capitolo ci sarà anche uno sguardo obliquo su André nella prospettiva di altri personaggi.
Alla fine, è tutto un parlare di lui, ma la sua prospettiva, volutamente, non c’è.
I fatti, ben noti a tutti e già splendidamente raccontati nel manga e nell’anime, saranno solo quelli necessari allo scorrimento della trama, qualcosa sarà omesso, qualcosa sarà lievemente cambiato (metto subito le mani avanti) molto è frutto della mia immaginazione.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PROLOGO
 
Poi furono aggrediti a Saint-Antoine e lei rischiò di perderlo. Nell’angoscia del momento, piena di ferite e percosse, cercò una via di fuga tra le urla disumane che si alzavano intorno a lei e contro di lei e, quando tutto sembrava perduto, si accasciò svenuta in un vicolo riuscendo a sfuggire a quella folla imbestialita. Si sentì improvvisamente scuotere e vide, prima con difficoltà, poi distintamente, un volto di uomo tremendamente preoccupato davanti a sé. E lei con lo sguardo un po’ appannato prima, nell’ottundimento dei sensi poi, e finalmente nella chiarezza senza ombre dello sguardo vide lo svedese davanti a sé. Lo guardò a lungo prima di capire che cosa diavolo stesse dicendo, lo guardava, lo guardava davvero, quello svedese, e si chiedeva: perché non sono sollevata? Perché non sono felice di vederlo? Avvertiva una sorta di rigurgito nello stomaco, un rifiuto istintivo delle sue mani che la scuotevano per le spalle, un’indifferenza assoluta nei confronti dell’apprensione di lui per le sue condizioni. Finché, come un boato nella testa, realizzò che voleva solo vedere dei capelli neri e uno sguardo verde e sentire solo una voce e sapere che lui era salvo. E basta chiedersi “chi sei tu?” disse il suo corpo alla sua testa, che in quel momento lavorava poco perché era stata più volte colpita negli scontri, e tutti i suoi sensi, la sua pelle, la bocca dello stomaco urlarono di fronte allo svedese solo il nome di lui.
 
Più tardi, tutti e due in salvo grazie allo svedese, la mente tornò padrona dei sensi e li governò per bene, ma non li rinnegò. Pensò che se avesse avuto forze sufficienti l’avrebbe salvato lei e che non provava alcun imbarazzo per quello che lo svedese aveva sentito e, molto probabilmente, intuito.
 
Ma era ancora scossa, profondamente scossa. Cercava di capire il motivo della paura che aveva provato e ripercorreva la sua vita a ritroso: quante volte avevano rischiato la vita loro due? L’attentato al principe spagnolo, la faccenda del cavaliere nero, gli agguati notturni della Polignac, e poi Jeanne a Saverne, e ancora si chiedeva come avesse fatto lui a sentirla, e quel lampadario che l’avrebbe schiacciata se lui non fosse intervenuto, e quel giorno nella casa del falsario di Parigi assoldato dalla Du Barry, e poi altri agguati, duelli, insomma, quante volte avevano rischiato di morire? Perché ora quell’assalto l’aveva tanto terrorizzata? Qual era la differenza?
“Qual è la differenza… smettila, tu sai qual è la differenza” le disse il suo cuore.
Eppure non riusciva a lasciarsi andare, era confusa perché aveva capito che le servivano occhi nuovi per vedere la realtà e sapeva che guardare lui davvero voleva dire decidersi a guardare sé stessa davvero e ancora non era pronta. E così, tenne celato dentro di sé quello che il suo istinto e il suo corpo avevano scoperto, quello che la sua mente analizzava ed elaborava ormai con una frequenza tale che il resto diventava dovere, contorno, formalità. Così, nascondendo bene all’esterno la rivoluzione che stava vivendo dentro di sé, le sue parole e i suoi gesti verso di lui, benché avvolti da una nascente tenerezza, rimasero quelli del comandante.
 
Cap. 3 Uscire dal limbo
 
Il colonnello se la trovò davanti all’improvviso nel suo ufficio. Si alzò di scatto e prese la sua legnosa posizione marziale, portò la mano tesa alla fronte per salutare e poi stette in attesa degli ordini.
- Il soldato de Soisson non si fa vedere da giorni, vado a cercare notizie a casa sua. Lascio il comando a voi. Porto un soldato con me.
Il colonnello non chiese quale soldato, lo sapeva già, poi la guardò mentre, decisa ed elegante, usciva dall’ufficio e veniva raggiunta da un uomo dai capelli scuri che si mise a seguirla a due passi di distanza.
Erano incorreggibili quei due, pensò il colonnello, sempre insieme e mai davvero insieme… Ma non si può sprecare il tempo così, pensava il colonnello. Non si può sprecare il tempo così quando ci si ama, pensava contro ogni regola del suo tempo e del suo ceto. Ma che cosa credevano quei due, di avere davanti a sé tutto il tempo del mondo? Ma non sapevano che basta un colpo di tosse diverso dagli altri o un proiettile vagante per perdere tutto? Da quando aveva perso la moglie amatissima, quella tosse! quella fame d’aria!, era molto cambiato, il colonnello; o forse non era cambiato, era solo più esposto alla commozione e alla tenerezza. E alla comprensione. La morte aveva ridotto all’essenziale i suoi bisogni, che erano divenuti uno solo: il bisogno impossibile di averla ancora con sé. Poi, naturalmente, era pur sempre un militare, e la disciplina lo aiutava enormemente ad andare avanti; gli avevano insegnato fin da piccolo il rigore e l’autocontrollo e lui si era plasmato docilmente fino a divenire un uomo capace di grande sopportazione. Gli avevano insegnato anche la riservatezza, dote non comune nella nobiltà del suo tempo, e così lui mascherava agli occhi del mondo la sua disperazione, convinto che non fosse necessario né interessante per gli altri essere al corrente del suo dolore. La sua cupezza si era attenuata con l’arrivo del nuovo comandante: aveva avuto un istintivo affetto per lei, ma soprattutto per il giovane che era sempre al suo fianco. Li osservava spesso e nei loro gesti aveva colto tutto quello che non c’era nelle loro parole. Quel soldato era il ritratto della devozione, pensava, e pensava anche, per la prima volta nella sua vita, che nel caso di quei due i ceti sociali non contavano affatto, che mai aveva visto due persone appartenersi in quel modo. Avrebbe voluto prenderlo in disparte, un giorno, mettergli una mano sulla spalla e dirgli: “Io so, figliolo, io vedo. Non smettere di amarla, non smettere di crederci. E diglielo, diglielo, diglielo finché hai fiato. Dille che la ami, diglielo ancora e diglielo sempre. Ogni giorno perso è un giorno sprecato che non avrai più, non aspettare, non aspettare. Ho vissuto quarant’anni con mia moglie, credi che mi siano bastati? Non bastano mai, non bastano mai, i giorni dell’amore”.
Si asciugò veloce una lacrima, strinse le labbra e tornò a scrivere il suo rapporto. 
 
Quando si avviarono su per le scale della casa in cui Alain abitava con la madre e con la sorella, lei lo lasciò andare avanti e lo seguì; per una volta era lei ad accompagnare lui e non il contrario. Così, si lasciò guidare da lui fino alla porta, fino all’ingresso in quella casa, fino a quel tendone che separava due stanze, fino a quel letto dove avevano visto con i loro occhi che cosa fosse l’orrore. E l’orrore era una ragazza bellissima e bianca e fredda e vestita da sposa e sopra di lei un cappio che dondolava appena all’aria che avevano spostato al loro ingresso e vicino a lei un sacco accasciato di carne e lacrime, un uomo dagli occhi vuoti e fissi, un uomo perduto. Si sentì mancare, ma ebbe la prontezza di stare in piedi, senza parole e con una crescente oppressione al petto. Lui, benché profondamente turbato, già aveva trovato gesti e parole di conforto per il suo amico e per la mamma di lui, intontita su una sedia. Si era anche messo in una posizione, voluta? lei ne era quasi sicura, grazie alla quale la sua spalla sinistra e la sua testa riuscivano a coprire agli occhi di lei la visione di quel corpo senza vita, e così lei, con gli occhi sbarrati, non intravedeva altro se non la parte inferiore del vestito che, con un assurdo sbuffo, spazzava il pavimento.
Quando uscirono non parlarono, lei non lo guardò, ma la sua pelle le disse che avrebbe voluto essere abbracciata, da lui.
“Non essere sciocca, non è il momento!” le disse la sua testa.
 
I giorni passavano, gli eventi della storia irrompevano nella sua vita con un’intensità crescente e sempre più preoccupante: alle giornate sempre uguali della sua giovinezza a Versailles ora si sostituivano giorni frenetici, in cui la rincorsa all’ultima notizia era affare di tutti, dal generale Bouillé all’ultima lavandaia del faubourg Saint-Marceau. E in tutto questo lei, ormai divenuta sempre più attenta e presente alla sua vita interiore, si stupiva: la continua irrequietezza della sua passata giovinezza contrastava con il mondo immobile della corte tanto quanto ora, nell’irrequieto presente che viveva, lei si sentiva stranamente ferma, centrata, sicura. Certo, la situazione politica la preoccupava, solo gli incoscienti e gli esaltati non erano preoccupati, in quelle settimane forsennate di giugno. E naturalmente se il mondo esterno le chiedeva azione, lei agiva: concentrata, precisa, pronta nelle decisioni e convinta delle sue idee. Ma nel suo mondo interiore c’era una strana quiete, i giorni precipitavano uno dopo l’altro e lei si sentiva sempre più forte, più decisa, più consapevole e libera dalle catene del passato, quelle che l’avevano incatenata per anni alla maledizione del suo essere donna, alla sua appartenenza alla nobiltà, a un amore che, ora se ne rendeva conto, non era amore.
 
Ma lui era ancora un essere misterioso ai suoi occhi, lui che, sempre accanto a lei, non chiedeva niente e continuava ad assolvere i suoi compiti, lui che sapeva mantenere le distanze, che vinceva l’attrazione, che sapeva sopire l’amore in un sorriso. Chi sei tu? Ecco, tutto questo era oggetto di continuo stupore per lei: come poteva lui contenere in sé l’amore per lei da così tanto tempo? Come era riuscito a vederla piangere per un altro? Lei, che aveva appena iniziato a capire qualche cosa del suo cuore, lo guardava e ancora non riusciva a vederlo del tutto. Come fai, tu? Come si fa ad essere padroni dell’amore?
Talvolta la quotidiana imperturbabile calma di lui la faceva vacillare. Ma è davvero possibile che ancora mi ami? E poi puntuale arrivava un gesto, un’attenzione piccola che la faceva sentire al centro del suo mondo.
Qualche giorno prima, per esempio, faceva un caldo torrido e lei con sei soldati era stata di pattuglia nell’Ile de la Cité per ore: nel tardo pomeriggio, sfinita dal caldo e dalla fatica ma sempre impeccabile nella postura, decise che era ora di rientrare in caserma. Il sole alle loro spalle era un proiettile infuocato nella schiena, lei sentiva i capelli gravare umidi sul collo e resisteva a stento al desiderio di sollevarli un poco per far passare un filo d’aria. Improvvisamente aveva sentito un piccolo sollievo, un’ombra pietosa che le dava ristoro. Aveva guardato indietro con la coda dell’occhio e si era accorta che lui si era spostato leggermente: ora cavalcava esattamente dietro di lei e il suo corpo proiettava su di lei la sua ombra. Prima che la testa le imponesse il contegno dovuto, le sue guance arrossirono, e continuò a cavalcare, pensando a un giorno di pioggia e a un mantello verde.
 
Le rarissime volte che si trovavano a casa insieme, però, lei oscillava tra il piacere di averlo intorno e l’imbarazzo di non sapere che cosa dire o fare. A volte, se capitava di chiacchierare dopo cena, lei a un tratto doveva alzarsi in piedi e dargli le spalle, magari con la scusa di guardare fuori dalla finestra perché non riusciva a sostenere il suo sguardo. Non riusciva ancora a guardarlo davvero. E così, dal momento che raramente soffermava in modo prolungato lo sguardo su di lui, non si era nemmeno accorta che lui non ci vedeva più bene e quando, dopo tante prove della debolezza della sua vista, a lei finalmente era venuta un’ombra di sospetto, maldestramente l’aveva messo alla prova. Lui aveva riso e lei si era sentita un po’ sciocca.
 
La sera in cui ricevettero la notizia della morte del delfino, un bambino da lei tanto amato, erano così, sospesi a guardare il vuoto, lui tra le sue mani, lei fuori dalla finestra.
Le venne da piangere, andava tutto a rotoli.
Devo andare a porgere le mie condoglianze, subito, pensò con tristezza.
- Vado a Versailles, gli disse.
Quante volte aveva sentito dire quella frase a sua madre. E poi di solito accadeva che, quando la carrozza era pronta e sua madre era salita e aveva socchiuso la tendina, suo padre sulla porta a vetri, in piedi sull’ultimo gradino della scalinata d’ingresso, con le mani dietro la schiena, o, talvolta, con una mano appoggiata alla porta finestra, la seguiva con lo sguardo senza dire una parola. Ma stava lì, finché la carrozza non si era allontanata nel viale.
Anche lui quella sera stava lì, inconsapevole copia del generale, a guardare lei, sposa solo nei suoi sogni, e lei mentre si allontanava sentì il suo sguardo che la accompagnava e capì che quella casa solo se c’era quell’uomo era casa e che lei, dopo, sarebbe tornata da lui non come una padrona rincasa dalla servitù, non come un’amica torna dall’amico, non come un comandante si presenta davanti a un soldato, ma come una donna che torna dal suo… interruppe la frase, scosse la testa e rivolse i suoi pensieri al piccolo principe che aveva smesso di sognare le stelle.
“Ora non è il momento”, si disse.
 
EPILOGO
 
Quando suo padre l’aveva convocata nello studio, aveva capito subito che la questione era seria e che avrebbe dovuto rendere conto delle sue azioni recenti. In ordine sparso, si era opposta pubblicamente a un ordine del re, aveva colpito quell’insulso comandante con i baffi da Richelieu e con la personalità di Tartuffe, era fuggita dall’ufficio nel quale il generale Bouillé l’aveva messa in stato d’arresto, aveva fermato Girodelle e i soldati della guardia dando concretezza al detto “dovete passare sul mio cadavere”, i suoi soldati avevano osato disobbedire al generale in persona ed ora erano rinchiusi in prigione in attesa di una sentenza di morte. Per suo padre una sola di queste trovate era sufficiente per diseredarla, ne era certa. Eppure, pur essendo naturalmente molto preoccupata per la sorte dei suoi uomini, si sentiva stranamente calma, pacificata. Tornassi indietro, rifarei tutto, pensava.
 
E continuò a sentirsi una roccia anche dopo, quando capì le intenzioni di suo padre. L’avrebbe uccisa, disse, e poi si sarebbe ucciso anche lui: insostenibile l’onta del tradimento in una famiglia come la loro.
Allora “traditrice”. Questo lei era, una “traditrice”. L’accusa era chiara, “tradimento”: ma lei che cosa, nello specifico, aveva tradito? Mai si era sentita così coerente con sé stessa, mai aveva preso decisioni così consapevoli come negli ultimi mesi.
E guardava suo padre, lo guardava davvero, e avvertiva la distanza ormai incolmabile che li separava, ma sentiva per lui anche un amore puro di figlia che la fece piangere: posso non condividere i tuoi valori ma amarti lo stesso, padre? Posso non retrocedere di un passo nella mia coscienza, essere pronta alla mia morte per mano tua ma non tollerare il pensiero di essere causa della tua, padre?
E proprio mentre tutto stava per essere consumato, aveva sentito alle sue spalle la porta che si spalancava, una voce ferma che gridava “No!”, uno spostamento d’aria che le aveva mosso i capelli sulla fronte e poi il cuore che perdeva un colpo.
 
Ed eccoli lì, lui e suo padre: lui che impediva a suo padre di ucciderla e suo padre che lo guardava inorridito per l’affronto di sentirsi addosso le mani di un servo. Fuori dalla porta spalancata, la nonna piangeva accucciata in un angolo e vedeva avverarsi il suo peggiore incubo, vedeva suo nipote ribellarsi alla sua condizione di servo. E in effetti proprio questo disse suo padre: che lui era un servo e che prerogativa dei servi è obbedire e che quello che lui sognava e desiderava non si sarebbe realizzato, mai. Che cosa voleva fare, fuggire con lei? Non si fugge dalla propria condizione e dal proprio dovere e dovere di un servo è servire il padrone, dovere di una nobile è servire il re. Non c’era altro nel suo orizzonte di uomo, di padre, di generale.
 
Allora lui abbassò l’arma che teneva in mano e chinò la testa in una resa, mentre lei realizzava che lui, arrendendosi, stava sacrificando anche sé stesso.
E parole le salirono fino alla gola dove una maledetta strozzatura impediva loro di uscire: Ma no, no! Non state capendo, padre, non avete capito! Non avete capito niente di lui! Niente di me! Guardatelo, guardatelo davvero! Padre, lui non è un servo, nonna, tuo nipote non è ai miei ordini. Padre, nonna, guardate davvero quest’uomo, quest’uomo che io amo.
E guardate me, guardatemi e leggete nei miei occhi quello che io sono e quello che io voglio. È così chiaro, così evidente, come fate a non vederlo?
Ma non un solo suono era uscito dalle sue labbra.
E lui, che le dava le spalle, ignaro di quello che stava accadendo dentro di lei, proseguì quello che aveva iniziato e si inginocchiò davanti al generale, appoggiò sul pavimento davanti a sé la pistola che aveva tenuto in mano e disse, era la terza volta che lei lo sentiva, che l’amava, ma questa volta non c’erano lacrime sul suo volto: lo disse a suo padre e gli chiese di ucciderlo per primo, perché non avrebbe sopportato di vederla morire.
 
E fu allora, finalmente, che lei lo vide davvero, con il corpo e con la mente, con i sensi e con la ragione, proprio quando lui non le mostrava nient’altro che la schiena, in ginocchio ma non piegato, senza speranza ma fermo nella consapevolezza, inerme ma potentissimo. Lo vide davvero e riunì in un solo corpo tutto quello che in lui negli anni aveva faticosamente riconosciuto e si accorse che c’era ancora spazio in quel corpo, perché sicuramente lui era anche altro che lei ancora non conosceva. Capì che quella sua pretesa di vederlo davvero, nella sua completezza, era un’assurdità, o che era una scusa per rimandare, per non entrare mai nel gioco, e che aveva di fronte a sé un uomo che era stato definito da lei stessa e dagli altri in mille modi, ma che non aveva mai smesso di essere solo sé stesso, al di là di ogni definizione, fedele servitore della sua coscienza e padrone delle sue scelte più profonde. Allora si arrese e finalmente rispose a quella domanda, quella che ormai non aveva più senso, chi sei tu?, e dentro di sé diede un nome a quell’uomo, disposto a morire per lei in nome del suo amore, finalmente lo riconobbe in tutto quello che era stato e che era e che sarebbe stato e gli diede un nome e si disse:
 
Tu sei André.
 
Così, tremando perché l’aveva finalmente riconosciuto, per fermare il tremito mise una mano sul tavolo vicino a lei e con gli occhi sbarrati per lo stupore e per l’amore, mentre fissava i suoi capelli e la sua schiena, provò a dire una frase, una sola, che esprimesse tutto quello che provava e che allo stesso tempo gli facesse capire una volta per tutte quello che aveva compreso e così, mentre la sua mente in modo forsennato sceglieva le parole perché potessero essere pronunciate dalle labbra prima che la lama calasse su quel collo o penetrasse in quel cuore, con le dita della mano che si reggevano al piano di quella scrivania, lei riuscì a dire:
- André, io
e sapeva quello che voleva dire, ma si bloccò a sentire l’eco di quelle due parole vicine e si stupì per tutte le occasioni in cui le aveva pronunciate vicine senza mai cogliere il vero significato di quella vicinanza e così, senza logica e senza senso, rimase lì, con gli occhi sbarrati, nell’orrore della scena che stava vivendo, a pronunciare nella mente mille volte la bellezza di quei due suoni vicini.
 
Poi fu tutto molto veloce: un lampo e un tuono squarciarono il cielo, la nonna piangeva, il generale era pronto a colpire, anche se il suo sguardo disperato sembrava smentire la forza con cui stringeva l’elsa della spada. E in un istante un rumore di cavalli e l’arrivo improvviso del messo reale: il generale si precipitò fuori e scese le scale correndo come un ragazzo, la nonna sollevò il capo trattenendo il respiro e loro due uscirono dalla stanza e raggiunsero in pochi passi la balconata che dava sull’atrio d’ingresso e fianco a fianco, come mille altre volte, fissarono il messo mentre iniziava a leggere la lettera che conteneva il perdono della regina.
E allora, quando gli sguardi di tutti erano rivolti a quel messo, e le orecchie di tutti erano rivolte alle sue parole, e quando tutto pareva dipendere dallo scritto che quello reggeva tra le mani e leggeva con impersonale distacco, allora, mentre nessuno guardava ancora verso di loro, mentre erano nascosti al mondo intero pur essendo il centro di tutta quella storia, lei, al di sotto della balaustra afferrò con forza la manica e poi la mano di lui e, indifferente al messaggio della regina, disse piano:
- André, io non ti lascio più.
 
FINE
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Anche questa volta sono arrivata in fondo.
Ancora vi dico grazie, e sempre mi pare di dir poco.
Vi ringrazio sotto, nelle recensioni, a uno a uno, voi che mi leggete e commentate. Ed è un grazie grande quello che rivolgo a chi trova il tempo di scrivere un commento. Ma grazie e grazie di cuore anche a chi, come spesso capita di fare anche a me, legge silenziosamente. Come diceva Seneca, nessuno, per quanto riconoscente, può ricambiare il dono del tempo che gli viene dedicato.
Fate conto che stasera un bicchiere di vino me lo faccio anch’io, alla vostra!
   
 
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