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Autore: Quasar93    17/09/2021    0 recensioni
Raccolta di fanfiction sul periodo della guerra jōi, delle cronache dal fronte appunto. E' un lungo missing moments dove Gintoki, Katsura, Takasugi e più avanti anche Sakamoto si confrontano con gli orrori della guerra mano a mano che crescono sul campo di battaglia. Inizia poco dopo l'incendio alla Shoka Sonjuku quando Shoyo viene portato via e finisce poco prima della fine della guerra.
Le fanfiction sono collegate tra loro in ordine cronologico quasi come se fosse una long e i temi e i generi sono i più disparati, dall'angst al comico.
[Spoiler Shogun Assasination arc (flashback)] [canon compliant]
Genere: Angst, Comico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gintoki Sakata, Kotaro Katsura, Sakamoto Tatsuma, Takasugi Shinsuke
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La battaglia non stava andando bene. L’esercito nemico era più numeroso del previsto e li stava lentamente accerchiando, spingendoli lontano dall’avamposto che volevano conquistare. Gintoki, Katsura e Takasugi erano sparpagliati per il campo di battaglia, muovendo una disperata offensiva verso il loro obiettivo, nonostante ormai fossero tragicamente a corto di uomini. Inoltre, nonostante valessero da soli quanto un intero plotone di soldati semplici, anche le loro energie stavano gradualmente sfumando nel lungo protrarsi della battaglia.
In un ultimo disgraziato tentativo di ribaltare la situazione il generale Eiji, uno degli strateghi anziani dell’esercito dei ribelli Joi, aveva mandato in prima linea le reclute che si occupavano dei rifornimenti, per dare man forte ai pochi uomini rimasti in prima linea e che provavano ancora a mantenere l’offensiva sul limite del fronte. La battaglia ormai era perduta, ma il suo orgoglio gli impedì di chiamare la ritirata che i tre allievi di Shoyo, così come i loro sottoposti ancora vivi, ormai attendevano come acqua nel deserto. Nemmeno Katsura, nonostante ormai si fosse guadagnato il soprannome di Kotaro il fuggitivo, era riuscito a convincerlo quando, accortosi che la situazione era disperata, aveva ripiegato nelle retrovie nella speranza di poter organizzare una ritirata. Purtroppo però, essendo nell’esercito da poco meno di un anno, non era stato ascoltato dal generale Eiji, che si era orgogliosamente intestardito sul voler a tutti i costi conquistare quell’avamposto nonostante l’unica cosa che avrebbe ottenuto insistendo a quel modo sarebbe stato l’annientamento del proprio esercito.
Il ragazzo coi capelli lunghi era quindi tornato a combattere in prima linea cercando di salvare in quel modo il maggior numero di truppe possibili, organizzando i pochi uomini rimasti in modo da far sì che si proteggessero a vicenda, inorridendo quando vide arrivare nella loro direzione i ragazzi più giovani e inesperti arruolatisi da poco.
Fu in quel momento che, da tutt’altra parte Gintoki, che era impegnato a respingere da solo una decina di nemici, vide correre verso di lui il giovane Shuichi.

*********
 
Shuichi era un ragazzo di qualche anno più giovane di Gintoki, Katsura e Takasugi. Per arruolarsi aveva detto di avere 16 anni, ma Gintoki aveva sempre sospettato ne avesse di meno. Dal momento in cui era entrato nel suo plotone aveva seguito il samurai coi capelli argentati letteralmente ovunque, iniziando a rivolgersi a lui con l’appellativo di senpai che, per quanto non fosse adeguato al suo grado, era piaciuto così tanto al samurai che non aveva mai corretto il ragazzo. A Gintoki infatti quel ragazzo piaceva e, nonostante spesso lo respingesse o gli dicesse di stargli su di dosso, lo faceva senza un’eccessiva convinzione, finendo sempre per far ridere Takasugi e Katsura che non perdevano occasione di prenderlo in giro. La verità era che il samurai coi capelli argentati si rivedeva in quel ragazzo, arruolatosi dopo essere rimasto solo al mondo, e in parte era anche lusingato che quel giovane lo prendesse a modello e lo vedesse come un mentore. Era contento di poter fare qualcosa per lui, di poter essere un punto di riferimento, anche perché, così facendo, poteva tenerlo al sicuro. Shuichi infatti, per quanto si fosse allenato nell’arte della spada, non aveva mai davvero combattuto sul campo. Essendo appena entrato nell’esercito dei ribelli e vista la sua giovane età al momento si occupava per lo più di medicare i feriti o fare assistenza nelle retrovie, lontano dall’idea di andare in prima linea. Non era nemmeno mai uscito dall’accampamento per una battaglia importante, ma soltanto per poche azioni di guerriglia. Gintoki, sapendo che prima o poi gli sarebbe comunque toccato di combattere, di tanto in tanto gli insegnava qualche tecnica o lo aiutava con gli allenamenti.
Nonostante la presenza stessa di Shuichi avesse migliorato l’umore del samurai coi capelli argentati, che si sentiva finalmente utile anche in qualcosa che non fosse l’essere una macchina da guerra, Takasugi non era particolarmente contento del legame che stava instaurando con Gintoki. A differenza dello Shiroyasha infatti il comandante del Kiheitai non vedeva un futuro brillante per il ragazzo, era troppo giovane, troppo inesperto per il campo di battaglia. Quelli come lui di solito non crescevano fino a raggiungere l’età per bere.
Più di una volta aveva messo in guardia Gintoki dal non affezionarsi troppo ma, dopo l’ennesima volta in cui l’amico l’aveva preso a male parole, aveva rinunciato, limitandosi ad osservare come sarebbe andata a finire.
 
La sera prima di quella battaglia Gintoki era passato a vedere come stava, prima di andare a bere qualcosa coi suoi compagni nel loro solito rito propiziatorio, e l’aveva trovato a tremare nascosto in un angolo.
“Ehi Shuichi, che c’è che non va?” gli chiese, accucciandosi di fianco a lui.
“Domani, domani anche io dovrò scendere in campo. Sarò nelle retrovie, è vero, ma è la battaglia più grossa a cui abbia mai partecipato… Io… ho paura, senpai” gli rispose il ragazzo, tremante.
“Vedrai che andrà tutto bene! Saremo così bravi in prima linea che non ti accorgerai nemmeno di essere in battaglia” ghignò lo Shiroyasha, cercando di tirare su di morale il ragazzo, che però non cambiò umore.
“Senpai io… Io non ho mai ucciso nessuno. So che sono un soldato, e che mi sono arruolato in un esercito in guerra ma… Domani i nostri nemici sono i soldati dello shogunato. Fossero amanto, potrei anche farcela, ma esseri umani come noi?” balbettò, iniziando a piangere.
Quel ragazzo non era adatto per l’esercito, ma Gintoki, per qualche motivo, sembrava non capirlo o non volerlo capire. E così, invece di consigliarli di fuggire e cambiare vita scelse di incoraggiarlo.
“Vedrai, non dovrai uccidere nessuno” mentì, sapendo di mentire “tu occupati dei feriti come fai di solito, noi proteggeremo le retrovie, non dovrai combattere” continuò, in un eccesso di ottimismo. Le sue parole sembrarono calmare il ragazzo, che si asciugò le lacrime.
“Grazie, Gintoki-senpai! Ce la metterò tutta” gli disse, con rinnovata energia, e Gintoki sorrise rassicurante al ragazzo.
“Ti prometto che torneremo a casa sani e salvi, vedrai che andrà tutto bene. Domani ci rivedremo qui e rideremo di questo momento” disse soltanto, per poi salutarlo e lasciare i suoi alloggi diretto a bere con Takasugi e Katsura.
Non appena mise piede fuori dalla tenda che il ragazzo condivideva con le altre reclute che fu tirato dietro l’angolo da qualcuno che l’aveva afferrato con poca grazia per il bavero.
“Ehy, Gintoki-senpai, ho sentito tutto. Vacci piano con le promesse. Non lo sai se andrà tutto bene. Non promettere cose che non puoi mantenere, non ne verrà fuori niente di buono” lo ammonì freddo Takasugi, guardandolo dritto negli occhi.
“non avevi detto che non erano più affari tuoi come mi comportavo con quel… moccioso… come lo definisci tu?” gli rispose irritato Gintoki, scrollandosi le sue mani di dosso.
“Perché fai così, Gintoki? Perché dici cose che non pensi? So che non sei così stupido da credere che in una battaglia come quella di domani non vengano coinvolte le retrovie. So che non pensi davvero che quel ragazzo non dovrà uccidere nessuno. Perché gli hai detto quelle cose?” gli chiese ancora Takasugi, incalzandolo verbalmente e avanzando verso di lui fisicamente, spingendolo a indietreggiare.
“Lasciami stare, Takasugi. Magari questa volta andrà bene. Magari questa volta riuscirò…” replicò Gintoki, senza credere davvero a quello che stava dicendo e mordendosi la lingua prima di parlare troppo.
“Riuscirai a fare cosa?” chiese l’altro, che non si era lasciato scappare il cambio di sguardo e tono di voce. Gintoki abbassò lo sguardo.
“magari, almeno stavolta, riuscirò a proteggere qualcuno che crede in me” ammise, senza il coraggio di guardare Takasugi negli occhi.
“Sei cretino? Per il tuo egoismo stai mandando un ragazzo a morire! Vuoi proteggerlo? Digli di scappare. L’esercito non è il suo posto e ormai dovrebbe essersene accorto anche un idiota come te!” gli rispose secco il comandante del Kiheitai, quasi gridando, non potendo credere a quello che stava sentendo.
“Takasugi! Quel ragazzino non ha nessuno, ha solo me. Sono il suo generale. Sono il suo senpai. Se non crederò in lui almeno io, chi lo farà?”
Takasugi cambiò espressione e finalmente realizzò perché Gintoki si era legato tanto a quel moccioso. Gli ricordava loro tre, soli al mondo prima che Shoyo li trovasse. Voleva fare per lui quello che il loro sensei aveva fatto per loro. Era ovvio. Perché non l’aveva capito prima? Ma c’era solo un problema in tutto questo e non esitò a dirglielo ad alta voce.
“Gintoki, non sei Shoyo. Come direbbe lui, dovranno passare almeno mille anni prima che tu possa salvare qualcuno nel modo in cui lui ha salvato noi. Lascia perdere questo gioco delle parti, pensa alla vita di quel ragazzo” disse meno tagliente del solito Takasugi, omettendo una parte dei suoi pensieri, che non avrebbe mai ammesso ad alta voce ma che forse era la cosa più importante che avrebbe dovuto dire.
Pensa a come starai tu se qualcosa andrà storto e penserai che sia stata colpa tua.
Gintoki rialzò lo sguardo furioso, Takasugi aveva scoperto i suoi altarini ma il samurai coi capelli argentati non era di certo pronto a metabolizzare la verità che Takasugi gli aveva vomitato addosso. Lo colpì con un pugno, facendolo volare a terra, e se ne andò.
“Vaffanculo Takasugi” gli disse soltanto, andandosene da solo in un posto in cui avrebbe potuto dormire tranquillo fino all’indomani. Di bere e scherzare ora non aveva più nessuna voglia. Certo, lui e Takasugi litigavano in continuazione, al punto che forse erano più le volte che si punzecchiavano che quelle in cui parlavano normalmente, ma non era mai così. Questa era sul serio. Gintoki era davvero arrabbiato con lui, profondamente.
Takasugi si massaggiò la guancia colpita, molto contrariato dal comportamento dell’amico. Fu in quel momento che qualcuno gli porse una mano per aiutarlo ad alzarsi e, alzando gli occhi, il comandante del Kiheitai si accorse che altri non era che Katsura.
“Forza Takasugi, andiamo a berci qualcosa almeno noi due” gli disse, issandolo da terra.
“Anche tu lo stavi…?”
“Tenendo d’occhio? Certo. Io vi tengo sempre d’occhio. Ma penso che nulla di quello che gli diremo riuscirà a farlo ragionare. Ha preso questa cosa molto sul personale”
“Già… Quell’idiota…”
“Dovrà sbatterci contro la faccia. Spero solo non gli faccia troppo male” concluse Katsura e Takasugi non gli rispose. Si incamminarono in silenzio verso il solito posto dove bevevano insieme prima di una battaglia e passarono la serata a pensare a quanto fosse strano che fossero solo loro due.


 
*******
 
 
Quando Gintoki vide il giovane corrergli incontro senza nemmeno aver sfoderato la spada capì. Quell’unica immagine bastò a fargli realizzare che idiota era stato a fargli credere che se la sarebbe cavata in battaglia. Possibile che non si fosse accorto fino a quel momento di quanto il ragazzo non fosse pronto ad affrontare la crudeltà del campo di battaglia? Capì solo in quell’istante che avevano ragione Katsura e Takasugi. La realizzazione lo colpì come un fulmine a ciel sereno.
Quel ragazzino cosa poteva fare in una situazione tanto disperata?
E inoltre, quanto poteva essere tragica la situazione vista dalle retrovie se avevano mandato perfino le reclute in prima linea? Si guardò velocemente intorno. I nemici erano ovunque mentre dei suoi uomini poteva vederne sempre meno. Merda… Perché non stavano chiamando la ritirata? Come se essersi fermato di combattere gli avesse risvegliato in un secondo tutto il resto avvertì improvvisamente il dolore delle ferite e della fatica, l’odore persistente di ferro e sangue che permeava il campo di battaglia e, per un solo istante, una sensazione di profonda disperazione nel realizzare che, forse per la prima volta da quando si era arruolato, stavano perdendo.
Il gruppo di nemici che Gintoki stava tentando di respingere si accorse della sua distrazione e lo caricarono tutti insieme, così lo Shiroyasha dovette distogliere lo sguardo dal giovane Shuichi dai propri pensieri e concentrarsi sui suoi avversari. Convincere il proprio corpo a smettere di nuvoo di provare quelle sensazioni fu difficile, ma la vista del nemico lo aiutò a scivolare nuovamente nella trance della battaglia, dove lui e la sua katana erano una cosa sola e non c’era spazio per nessun altro pensiero, per nessun odore nauseabondo e per nessun dolore né affaticamento. Ora doveva solo liberarsi di quei soldati dello shogunato, finito con loro sarebbe andato a prendere Shuichi e l’avrebbe portato al sicuro.
Era questa la cosa giusta da fare.
Quello non era certo posto per qualcuno che corre in prima linea con la spada ancora nel fodero. La pietà per il nemico non era qualcosa che poteva esistere in guerra, né allora né mai. La guerra non è gentile e di certo non perdona. Gintoki l’aveva imparato molto presto, forse prima ancora di saper anche solo come impugnare la spada. Non sapeva quando di preciso l’avesse imparato, era come camminare o mangiare o bere. Non ti ricordi come hai imparato quelle cose, le sai e basta. E così Gintoki conosceva la guerra e la sua profonda disperazione. E allora perché, perché non si era accorto che quel ragazzo non doveva essere lì? Che avesse ragione Takasugi? Che il suo bisogno di sentirsi utile l’avesse momentaneamente accecato?
Un nemico più insistente degli altri gli saltò addosso, passandogli la spalla a fil di lama e risvegliandolo definitivamente dai suoi pensieri. Lo abbatté velocemente, tagliandogli il ventre da parte a parte, per poi scagliarsi come una furia verso i rimanenti soldati dello shogunato. Un paio caddero subito sotto i suoi colpi veloci, schizzandogli la faccia e i capelli di sague, e stava per passare a fil di lama il terzo, quando si accorse con la coda dell’occhio che un soldato nemico aveva raggiungo Shuichi. Passò da parte a parte il nemico che aveva di fronte e corse verso il ragazzino.
Sfodera la spada, Shuichi!
Pregò mentalmente, mentre i superstiti del gruppo che lo stava attaccando gli si parò davanti, bloccandogli la strada. Gintoki era abbastanza lontano ma vide il ragazzo tremare. Ripensò a quanto gli aveva detto sul non voler uccidere gli umani. Si sentì in colpa, ancora più di quanto già non lo si sentisse. Quanto era stato stupido a dirgli che avrebbe potuto farcela anche senza uccidere nessuno? Perché, perché gli aveva detto quelle cose?
Sfodera quella cazzo di spada!
Come se l’avesse sentito, in quel momento Shuichi sfoderò la spada e si mise in guardia di fronte al proprio avversario. Teneva la spada con due mani davanti a sé, tremando un pochino nonostante la posizione stabile. Gintoki tirò un sospiro di sollievo e parò il colpo di un nemico senza nemmeno guardarlo, ruotandogli poi alle spalle e colpendolo alla schiena. Stava combattendo con due spade e così, mentre ne sfilava una dall’orami cadavere del nemico, con l’altra parò un fendente diretto alla sua testa. Finì di sistemare anche l’ultimo nemico tagliandogli la gola e si girò giusto in tempo per vedere Shuichi rimanere fermo in guardia, mentre il nemico gli si avventava addosso. Anzi, proprio nell’ultimo momento lo vide abbassare la guardia e lasciar cadere la katana a terra. Gintoki era troppo lontano per poter sentire il rumore dell’acciaio che rovinava a terra, ma era sicuro di averlo sentito. Un sordo clang che decretò l’inizio della fine. Da quel momento tutto iniziò a svolgersi al rallentatore, era come nei sogni, quando vuoi correre ma per qualche motivo riesci solo a trascinarti pianissimo, quando vuoi urlare ma non ti esce che un filo di voce. Gintoki vide Il nemico ignorare il gesto di resa di Shuichi e scattargli contro. Lo vide infilzarlo da parte a parte con la sua spada, spingendo più forte quando sentì il corpo del ragazzo opporre resistenza. Stava correndo, urlando il nome del ragazzo, ma sembrava non guadagnare nemmeno un centimetro di terreno. Il nemico lo vide, capì chi fosse e si affettò ad andarsene, troppo codardo per prendersela con qualcuno della sua taglia, lasciandolo il ragazzino agonizzante in una pozza del suo stesso sangue.
Alla fine Shuichi non se l’era proprio sentita di uccidere, nemmeno l’uomo che invece l’aveva colpito senza pietà, nonostante fosse soltanto un ragazzino disarmato.
Per un attimo a Gintoki parve che tutti i rumori e le grida della battaglia si zittissero, sentiva soltanto un fischio assordante nel silenzio, mentre osservava il ragazzino riverso a terra. Strinse le spade che aveva in pugno con tutta la sua forza, e poi si diresse di corsa verso l’assassino di Shuichi. Improvvisamente il mondo aveva ripreso la sua velocità, anzi, forse anche l’ambiente intorno a lui stava correndo e in un secondo fu addosso a quel soldato senza onore e, prima ancora che questi potesse rendersene conto, Gintoki gli aveva infilato la spada in gola, lasciandolo soffocare nel suo sangue, mentre osservava la sua espressione terrorizzata. Lo sguardo che aveva in quel momento era davvero quello di un demone infuriato che osservava la sua vittima dissanguarsi a morte, mentre il rosso del sangue del nemico si rifletteva nei suoi occhi del medesimo colore.
Sistemato il nemico si diresse da Shuichi.
Era ancora vivo, ma era pallidissimo e tremava intensamente. Nonostante Gintoki l’avesse preso tra le sue braccia e stesse cercando di fermare il sangue che gli usciva dal ventre con le mani era ormai ovvio che non ci fosse più nulla da fare.
Il ragazzo allungò una mano verso Gintoki e provò a dire qualcosa, ma tutto quello che gli uscì fu un rantolo e un po’ di sangue. Piangeva, chiaramente terrorizzato.
Gintoki lo guardò sentendo il proprio cuore stringersi. Sentiva il corpo del ragazzo tra le sue braccia diventare sempre più debole.
Il samurai conosceva bene la morte, era stata sua compagna di vita dal giorno in cui aveva iniziato a derubare i cadaveri per sopravvivere, o forse anche da prima. E sapeva che la morte è impietosa, non è come nei racconti, non ci si dilunga in lunghe frasi filosofiche sul senso della vita. Quando ti trapassano con una spada da parte a parte muori e basta, senza riuscire a dire nulla, senza il tempo di pentirti dei tuoi peccati.
La morte non aspetta nessuno.
“Perdonami, perdonami Shuichi. E’ colpa mia. Ti ho fatto una promessa che non sono riuscito a mantenere” gli disse, guardandolo con una tristezza così profonda che lo rese incapace anche di piangere.
Con immenso sforzo allora il ragazzo scosse la testa, per comunicargli che no, non era affatto colpa sua, e tentò di sorridere. Poi, la mano che aveva sollevato gli ricadde addosso esanime, mentre Shuichi chiudeva gli occhi per l’ultima volta. Da solo, su un campo di battaglia in cui non doveva essere alla sua età, senza nemmeno poter dire le sue ultime parole.
Il samurai coi capelli argentati sentì il suo cuore stringersi ancora più forte, come se dovesse rompersi in mille pezzi, non si sentiva così da quando avevano portato via Shoyo. Per l’ennesima volta non era stato in grado di proteggere nessuno.
Per l’ennesima volta il nemico aveva vinto e lui non era stato che un inutile spettatore.
Urlò al cielo la sua rabbia, con ancora in braccio il cadavere di un ragazzo la cui unica colpa era stata fidarsi di lui.
 
Ma non poteva rimanere lì a compiangersi troppo a lungo, erano ancora in piena battaglia, una battaglia che stavano perdendo. La prima battaglia che stavano davvero perdendo da quando si erano arruolati. E nessuno è mai davvero pronto a perdere.
Gintoki si guardò intorno, i cadaveri dei suoi uomini erano ovunque. Lui ne teneva in braccio uno, ma la verità era che erano molti di più coloro che avrebbe dovuto piangere. Lui, il loro comandante, era ancora vivo mentre le sue truppe cadevano sotto le lame nemiche.
Non era così che sarebbe dovuta andare.
Di colpo si sentì incredibilmente piccolo e inerme difronte a una tale devastazione. Come se non fosse altro che una goccia nel mare, in balia degli eventi e incapace di agire in alcun modo per cambiarne il corso. Nonostante quel giorno fossero dispiegati diversi plotoni con altrettanti comandanti si sentì addosso il peso di ogni vittima, la coscienza così pesante da tirarlo giù come un’ancora che lo legava al proprio dolore. Se solo fosse stato un comandate migliore forse i suoi uomini non sarebbero morti, forse Shuichi sarebbe ancora vivo, forse…
 
Poi improvvisamente un’esplosione riportò il samurai alla realtà. Gintoki si voltò e vide che proveniva dalla zona in cui avrebbe dovuto trovarsi Takasugi coi suoi uomini. Vide l’amico, rimasto ormai praticamente da solo, combattere allo stremo delle forze contro un nutrito gruppo di nemici di cui uno armato di tecnologia amanto. Avevano spinto lui e il piccolo manipolo uomini che lo stavano coprendo contro un edificio che ora stavano bombardando con una specie di lanciagranate, nella speranza di farlo crollare su Takasugi e i suoi uomini. L’area circostante era in fiamme, partite dalle scintille delle esplosioni.
Il cuore di Gintoki perse un battito, stringeva ancora tra le braccia Shuichi ma, vedendo l’amico in quella situazione disperata, per un attimo non poté fare a meno di vedere Takasugi morto tra le sue braccia, il viso pallido e l’espressione congelata per sempre in un sorriso sofferente. Inorridì all’idea, sentendo tutti i muscoli contrarsi e le lacrime inumidirgli gli occhi. No, non Takasugi. Non suo fratello. Non lo avrebbe permesso. Avrebbe fatto di tutto per impedire che quella visione si realizzasse.
Gintoki si riscosse e appoggiò delicatamente a terra Shuichi, come se fosse qualcosa di fragile e prezioso, promettendogli che sarebbe tornato a prenderlo per dargli una degna sepoltura, poi si diresse di corsa verso l’amico.
Nessun’altro sarebbe morto quel giorno.
Nessun’altro.
Non mentre lui era lì.
Inoltre… C’era qualcos’altro che lo spingeva ad agire con urgenza. L’ultima volta che aveva parlato con Takasugi avevano litigato, sul serio, e se gli fosse successo qualcosa ora, prima che potessero chiarirsi, non se lo sarebbe mai perdonato.
Gintoki stava correndo disperatamente ed era ormai a un’ottantina di metri quando il nemico esplose un altro colpo di lanciagranate, che Takasugi schivò quel tanto che bastava per non rimanere coinvolto nell’esplosione, ma non abbastanza da evitare i detriti che crollarono dal tetto dell’edificio. Una grossa trave gli cadde addosso, bloccandogli una gamba. Il ragazzo imprecò, cercando con tutte le sue forze di liberarsi ma finendo solo per farsi ancora più male. Gintoki poteva vederlo alternare strattoni a grida, più di rabbia che di dolore.
“Takasugi!” urlò in quel momento Gintoki, per farsi vedere dal nemico nella speranza che notandolo dirigessero verso di lui il prossimo colpo, mentre correva così forte da farsi male alle gambe, respirando ormai così affannosamente che la gola gli bruciava da morire. Il comandante del Kiheitai in quel momento si girò e lo vide arrivare, di corsa e ricoperto di sangue dalla testa ai piedi. Ormai era solo a una trentina di metri.
“Gintoki?” chiese, più a sé stesso che all’altro, sorpreso di vederlo lì, dopo le ultime parole che avevano scambiato. Inoltre tutto quel sangue... Era troppo anche per una battaglia come quella ed era chiaro che non era suo.
“Ehi voi!” urlò ancora lo Shiroyasha, cercando di attirare l’attenzione dei nemici, riuscendo a farsi finalmente notare da quello con il lanciagranate, che presumibilmente era il loro capo. Lo vide dare indicazione ad alcuni degli uomini che aveva con lui che subito gli corsero incontro brandendo le loro katana. Lui, d’altro canto, prese di nuovo la mira su Takasugi. Mancavano ancora una ventina di metri, su per giù, e doveva sistemare quegli sgherri.
Ma doveva fare in tempo.
Doveva.
Di nuovo l’immagine di Takasugi esanime tra le sue braccia fece capolino nella sua mente e il smurai coi capelli argentati la respinse violentemente. Non era il momento di pensare al peggio. Si focalizzò invece sui nemici, schivò il primo uomo, parò un colpo del secondo con la spada lunga e lo trafisse con quella più corta, per poi girarsi e trovarsi di nuovo di fronte all’altro. Incrociò le spade sopra la testa, fermando il fendente del nemico per poi assestargli un calcio all’altezza dello stomaco. Non era morto, e nemmeno svenuto del tutto, ma ora Gintoki non aveva tempo di dargli il colpo di grazia. Doveva raggiungere Takasugi.
Mancavano una quindicina di metri.
Ormai era così vicino che poteva sentire l’uomo armato parlare.
“… oggi non solo porterò con me la testa del comandante del Kiheitai, ma perfino lo Shiroyasha mi ha fatto il favore di venire qui” ghignò, osservando Takasugi cercare di liberarsi dalla trave che gli bloccava la gamba dimenandosi come un pazzo. Poi spostò lo sguardo dal ragazzo ai resti dell’edificio alle sue spalle. Gintoki capì cosa aveva in mente, voleva ucciderlo senza farlo esplodere, o non avrebbe avuto nessuna testa da esibire al proprio generale. Sperava di fargli crollare addosso il resto dell’edificio, in modo da non dover rischiare di avvicinarglisi. Seppur parzialmente immobilizzato Takasugi doveva davvero spaventarlo.
Le gambe di Gintoki ormai non avevano più forza, ma si obbligò a correre ancora, mancava così poco, il fiatone gli impediva di pensare lucidamente ma doveva farcela.
Non importava se era ormai tutto il giorno che combatteva in una battaglia disperata, doveva salvare almeno l’amico. Doveva riportare a casa suo fratello.
L’aveva promesso a Shoyo, e l’aveva promesso a sé stesso. Non avrebbe più lasciato che portassero via o uccidessero nessuno dei suoi amici, della sua famiglia.
Proprio in quel momento, quando Gintoki aveva raggiunto l’amico, il nemico esplose il colpo e colpì la parte più alta del muro ancora in piedi dietro Takasugi causando una pioggia di detriti. Poi tutto avvenne in un secondo.
“TakasugiiiI” urlò disperatamente Gintoki, vedendo i detriti cadere verso di loro e, senza pensarci un secondo, si gettò in mezzo, coprendo l’amico facendogli scudo con il proprio corpo.
“Gintoki che cazzo fai, levati” fece appena in tempo a dire Takasugi mentre la pioggia di detriti colpiva il samurai coi capelli argentati, lasciandolo praticamente illeso il comandante del Kiheitai.
Quando anche l’ultimo sassolino aveva finito di muoversi e la polvere si era posata Takasugi era ancora vivo e cosciente, mentre Gintoki non sembrava muoversi.
“Ehy, idiota? Gintoki? Sei sveglio? Riesci a muoverti?” chiese, cercando in qualche modo di muoversi per scuotere l’amico.
Lui era ancora bloccato, non solo dalla trave che gli teneva ferma la gamba, ma ora anche dal peso morto di Gintoki sopra di lui e di alcuni detriti che giacevano su di loro. Inoltre era posizionato a pancia in giù e tutto quel peso sul corpo gli stava rendendo difficile respirare. Non vedeva nemmeno dove fosse il nemico, se si stesse avvicinando per dargli il colpo di grazia o cosa. Fortunatamente almeno non erano caduti così tanti mattoni e assi di legno da seppellirli completamente.
“Gintoki! Devi svegliarti! Ma cosa cazzo di è saltato in mente” gridò ancora Takasugi, cercando di risvegliare l’altro, mentre la consapevolezza del sacrificio che l’altro era stato disposto a fare per lui iniziava a farsi strada nei suoi pensieri, facendolo infuriare. Quanto poteva essere idiota? Come poteva anche solo pensare che lui avrebbe voluto sopravvivere al prezzo della sua vita?
Poi sentì del sangue colargli sul viso e, non sentendo dolore alla testa, intuì fosse dell’amico.
Merda
Pensò, uno di quei detriti doveva averlo colpito alla testa. Sentiva il suo mento nell’incavo del collo ed era sicuro che era da lì che proveniva quel sangue così caldo e denso. L’odore di ferro intenso che gli pervase le narici gli diede la nausea.
Iniziò anche a sentire dei passi avvicinarsi, probabilmente ora che il crollo si era stabilizzato i nemici stavano venendo a riscuotere il loro premio. Se Gintoki non si fosse svegliato alla svelta per loro sarebbe finita. Quegli uomini volevano le loro teste ed erano molto vicini ad ottenerle.
“Gintoki!” gridò ancora, in un ultimo disperato tentativo e, stavolta, sentì l’altro muoversi.
“T-Takasugi?” chiese, rintronato.
“Idiota! Era ora che ti svegliassi. I nemici, vai a uccidere i nemici, o questo tuo atto eroico da prima donna da quattro soldi non sarà servito a nulla!” gli gridò Takasugi, e la sua voce acuta nell’urgenza di comunicare con lui risultò incredibilmente dolorosa nelle sue orecchie. Non era ancora del tutto consapevole di sé stesso.
“Gintoki” urlò ancora Takasugi, con una nota di drammaticità nella voce che non gli apparteneva, ma che servì allo scopo poiché improvvisamente Gintoki si riprese, si ricordò in un istante dov’era e cosa stava facendo.
Si alzò, incurante delle ferite della battaglia e dell’aver fatto da scudo a Takasugi, ignorando la testa che gli scoppiava là dove un sasso l’aveva colpito mettendolo ko e le diverse costole che dovevano esserglisi incrinate sotto la pioggia di detriti.
Recuperò una sola spada e si parò davanti all’amico a terra, fronteggiando l’uomo col lanciagranate che orami si era avvicinato a tiro di spada e il suo gruppo di soldati.
“Non muoverete un altro passo in questa direzione” gli disse, strisciando a terra un piede per raggiungere la posizione di guardia, con una freddezza nella voce e nello sguardo che, unite ai vestiti bianchi intrisi di sangue, gli conferivano un’aura estremamente spaventosa.
“Lo… Lo Shiroyasha…” disse soltanto il capo dei nemici, così terrorizzato da quella visione che si dimenticò perfino dell’arma che impugnava. L’ultima cosa che i suoi occhi videro fu la lama di Gintoki che gli saltava addosso con una furia implacabile.
 
Gintoki non sapeva da quanto tempo ormai fosse fermo in piedi davanti a Takasugi.
Forse era lì da qualche decina di minuti, forse da ore.
I nemici si erano accorti che c’erano ben due comandanti feriti in quel punto e, a gruppetti, si stavano dirigendo lì per prendere le loro teste. I ribelli Joi ormai avevano abbandonato quasi del tutto l’area e il samurai coi capelli d’argento, vedendo sempre meno dei loro uomini in giro, era certo che fosse stato Katsura a ordinare finalmente la ritirata. Ma lui era così desideroso di non pensare a niente che non fosse combattere che non gli importava, anzi, da un certo punto di vista era quasi contento che i nemici continuassero a convergere nella sua direzione e che non ci fose nessun’altro bersaglio a parte lui, così poteva combattere ancora e ancora.
Più combatteva e meno pensava.
Più combatteva e più riusciva a distrarsi dall’idea che Shuichi fosse morto per colpa sua.
Più combatteva e più si sentiva almeno un minimo utile, nel cercare di difendere il suo amico di sempre, ancora bloccato sotto quella trave.
Takasugi, d’altro canto, non era per nulla contento di vedere l’altro distruggersi per lui in quel modo. Avrebbe preferito morire che essere bloccato in quella posizione inutile che lo faceva sentire estremamente debole e vulnerabile, ma da solo non era in grado di liberare la gamba e, se anche ci fosse riuscito, non era sicuro di riuscire a stare in piedi. Ciò non di meno si odiava per quella situazione di manifesta debolezza, odiava dover essere salvato e protetto, lo mandava letteralmente ai matti. Inoltre, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, odiava vedere quanto male si stesse facendo Gintoki a causa sua.
Se ne stava lì, in piedi, passando a fil di lama ogni nemico che si avvicinava ma… Per quanto ancora avrebbe resistito? Poteva vedere le sue gambe tremare vistosamente, la presa sulla spada andava via via allentandosi ed era sicuro di averlo visto perdere l’equilibrio un paio di volte. Se solo fosse riuscito a spostare quella dannata trave!
Tentò di dare l’ennesimo strattone alla gamba bloccata, finendo solo col ferirsi ulteriormente. Imprecò a voce alta, non riusciva nemmeno a guardarsi più di tanto intorno. L’unica loro speranza era che Katsura si accorgesse che non si stavano ritirando e venisse a cercarli o, di questo passo, quell’idiota di Gintoki si sarebbe consumato fino a morire di fatica, se non per un colpo nemico, e lui l’avrebbe seguito a ruota.
Non fece però in tempo a chiedere a Gintoki di girarsi a controllare che una mano gli tappò la bocca mentre il peso di un uomo seduto sulla sua schiena gli mozzò il respiro. Il ragazzo cercò di urlare ma la mano che aveva sulla bocca impediva a qualsiasi suono di uscire. L’odore e il sapore di quella mano erano nauseanti e Takasugi dovette controllarsi per non vomitarsi addosso.
Cazzo!
Imprecò mentalmente, un nemico doveva aver fatto il giro lungo e averlo preso alle spalle.
“Shhh” gli sussurrò nell’orecchio quell’uomo, mentre gli passava un braccio intorno al collo con tutta l’intenzione di strangolarlo.
Takasugi si agitò e tentò di nuovo di urlare, ma senza riuscirci. Si sentiva inerme, schiacciato sotto il peso di quella trave e di quell’uomo, sicuramente un adulto molto più grande e grosso di lui. Si sentiva debolissimo, stava per perdere i sensi annaspando alla ricerca di ossigeno, ma quella mano non si spostava e il braccio attorno al suo collo sembrava fatto d’acciaio vivo.
“Gintoki! Dietro di te!” sentì soltanto e poi vide tutto nero perdendo definitivamente i sensi.
 
Il samurai coi capelli argentati era così preso dai nemici che stava affrontando, o per meglio dire, era così esausto che ormai era in grado di concentrarsi solo su quello, che non si era accorto che un uomo alle sue spalle aveva raggiunto Takasugi. Non finché qualcuno non gli urlò di girarsi. Era così sfinito che non riuscì a mettere a fuoco la figura che aveva parlato, che lo stava raggiungendo da dietro il gruppetto di nemici.
Finì l’uomo contro cui stava combattendo infilzandolo con la spada e, troppo stanco per mettere in dubbio la veridicità di quel grido si voltò, notando l’uomo che stava strangolando Takasugi. Gli si scagliò contro incurante di dare le spalle ai nemici e, dopo averlo colpito con un calcio che lo fece rovinare a terra gli conficcò la spada nel petto, lasciandolo agonizzante inchiodato al suolo.
“Takasugi! Takasugi!” lo chiamò, scuotendolo disperatamente, ma l’amico non riaprì gli occhi. Gli controllò subito il battito cardiaco appoggiandogli due dita sul collo e tirò un sospiro di sollievo nel constatare che era ancora vivo.
Solo in quel momento si ricordò, tra le nubi della stanchezza, che aveva ancora dei nemici dietro di lui e con uno sforzo infinito si rialzò tremante, riuscendo a raccogliere la spada di Takasugi da terra per mettersi in guardia solo al terzo tentativo. Un sorrisetto riuscì a increspargli le labbra, chissà quanto si sarebbe arrabbiato l’altro sapendo che stava usando la sua spada? Per difenderlo nondimeno.
Un uomo si diresse verso di lui, da solo. Gintoki era così stanco che faticava a metterlo a fuoco e a pensare chiaramente. Si mise davanti a Takasugi e cercò, per quanto possibile, di assumere una posizione minacciosa.
“-toki.. Gintoki!” si sentì chiamare da quella figura sfuocata e si sforzò di metterla a fuoco.
“Gintoki! Sono io, sono Katsura. Gintoki?”
Nel secondo in cui il samurai dai capelli argentati si rese conto che l’unico uomo ancora in piedi era il suo amico Katsura si lasciò cadere sulle ginocchia, il peso di quella giornata infinta e logorante l’aveva schiacciato tutto insieme nel secondo in cui l’adrenalina l’aveva abbandonato, non vedendo più alcun nemico all’orizzonte.
“Z-zura…” balbettò solo, incapace di dire nient’altro, con la faccia deformata in uno strano sorriso triste.
“Forza Gintoki, non è finita. Sono riuscito a far chiamare la ritirata ma dobbiamo andarcene alla svelta. Non abbiamo più uomini qui e siamo in pieno territorio nemico” disse pratico il ragazzo coi capelli lunghi, dirigendosi vicino a Takasugi per iniziare a liberarlo. Anche lui avrebbe voluto crollare e fermarsi, dire tante cose ai due amici che aveva appena salvato per il rotto della cuffia, ma non era quello il luogo né il tempo. Quello era il momento di essere Kotaro il fuggitivo, doveva portare via da lì quei due idioti prima che si facessero uccidere. Era quasi riuscito a far leva sulla trave che bloccava la gamba di Takasugi quando con la coda dell’occhio vide Gintoki alzarsi con estrema fatica e camminare dalla parte opposta al loro accampamento, la spada di Takasugi in pugno.
“Gintoki! Dove stai andando?”
“A combattere” disse, ancora con quello strano sorriso triste stampato in faccia “è l’unica cosa che so fare. L’unica che ho sempre fatto. L’unica in cui non rischio di far ammazzare nessuno oltre me…” parlò, fermandosi ogni tanto per ansimare. Katsura si chiese come facesse anche solo a stare in piedi, lasciamo perdere combattere.
“Sei idiota? Torna qui. Dobbiamo liberare Takasugi e andarcene. Abbiamo perso, è finita”
“No, non è finita. Posso farcela. Posso ancora combattere” continuò Gintoki, avanzando trascinandosi sui piedi, un lento passo dopo l’altro verso l’avamposto che ormai era del nemico.
Così Katsura dovette lasciar perdere Takasugi e si diresse verso l’amico, mettendogli una mano sulla spalla.
“Ora basta, Gintoki. Basta. È finita”
L’amico non lo guardò nemmeno, non aveva la forza per scrollarselo di dosso e così provò soltanto a muovere un altro passo in avanti.
Fu in quel momento che Katsura perse definitivamente la pazienza. Se Gintoki aveva perso il senno glielo avrebbe fatto ritrovare. Con la mano che aveva ancora sulla sua spalla lo costrinse a girarsi e a guardarlo negli occhi. L’espressione che aveva in viso non gli piaceva per niente e così, senza preavviso, gli tirò uno schiaffo.
“Impara quando una battaglia è persa” lo sgridò, duro “farti uccidere non riporterà indietro nessuno. Ora recuperiamo Takasugi e andiamo a casa” concluse e, senza aspettare una risposta, si girò e tornò dal comandante del Kiheitai, liberandolo finalmente da quella trave. Almeno la sua gamba non sembrava rotta ma solo incastrata e un po’ tumefatta, era un buon segno.
Gintoki era rimasto là, impalato con gli occhi spalancati.
Quanto doveva aver fatto preoccupare Katsura per portarlo ad alzare le mani?
“Zura io…” tentò di scusarsi, raggiungendolo mentre si caricava in spalla un Takasugi ancora incosciente.
“Non sono Zura, sono Katsura. Accetterò le tue scuse solo quando capirai che anche la tua, di vita, per qualcuno è importante” disse solo, contento di essere di spalle rispetto al samurai coi capelli argentati perché, tra Takasugi in quelle condizioni e Gintoki con quell’espressione in viso rimanere impassibile gli stava risultando molto più difficile del previsto.
Quel giorno era decisamente stato una sconfitta, su tutti i fronti.
Scosse la testa per riscuotersi, si voltò e afferrò un Gintoki ancora rintronato per un braccio, iniziando a camminare spedito verso l’accampamento, portando finalmente via gli amici da quell’inferno.

************
 
Arrivarono dopo due ore che sembrarono durarne dieci.
Katsura era sfinito avendo dovuto portare Takasugi svenuto sulle spalle per tutto il tragitto e, nel frattempo, trascinare Gintoki che era cosciente solo fisicamente, ma con la mente in qualche posto oscuro lontano anni luce da loro.
Cercò di portare gli amici nell’infermeria, ma era così piena che non lo fecero nemmeno entrare, neanche quando si accorsero che era uno dei loro comandanti.
Allora si diresse ormai esausto nella loro tenda e stese gli amici sui loro futon, concedendosi solo in quel momento di sedersi un attimo, appoggiato al palo centrale che sosteneva la tenda, lasciando cadere la testa all’indietro.
Il suo lavoro non era finito e non lo sarebbe stato ancora per un po’, ma aveva bisogno di respirare un attimo. La sola vista dell’accampamento pieno di feriti ovunque gli aveva fatto contorcere lo stomaco. In quel periodo erano stanziati in una ex villa di un grande possidente terriero e ormai erano lì da un paio di settimane, a meno di mezz’ora di cammino dal territorio dov’era situato l’avamposto che avevano appena perso. Si erano ubriacati in quell’accampamento, avevano riso e scherzato coi soldati, avevano preso in giro Gintoki che si atteggiava a grande senpai con quel ragazzino. Ma ora non c’erano soldati a cantare per alzare il morale delle truppe, non c’erano risate o scherzi di chi cercava di arrivare a fine giornata col sorriso nonostante tutto, non c’era nemmeno Shuichi a pendere dalle labbra di Gintoki. Katsura non aveva visto il suo cadavere, prima, mentre era andato a cercare gli amici, ma era sicuro che fosse morto. Poteva leggerlo nello sguardo vuoto di Gintoki, che in quel momento giaceva nel proprio futon rannicchiato su un fianco, ancora cosciente e sveglio nonostante tutto.
Poi il momento finì e Katsura si rimboccò le sue metaforiche maniche.
Non poteva lasciare gli amici in quelle condizioni. Certo era esausto a sua volta e il corpo gli faceva malissimo, sia per l’affaticamento della battaglia che per l’aver trascinato fin lì due persone che pesavano quanto lui ma, a differenza loro, non aveva ferite gravi e poteva ancora farcela.
Diede un’occhiata veloce alla gamba di Takasugi. Fortunatamente dei detriti avevano impedito alla trave di schiacciarla ed era solo livida e piena di graffi. La disinfettò velocemente e lo fasciò stretto presumendo che, tentando di liberarsi, si fosse comunque quanto meno provocato una distorsione. Quando il samurai coi capelli lunghi diede l’ultimo strattone alla benda finì per svegliare l’amico, che si alzò a sedere di soprassalto urlando e portandosi inconsciamente le mani al collo, mentre un urlo rauco gli usciva dalla gola ancora irritata dallo strangolamento.
“Shh, Takasugi. Sono io. Siamo a casa” lo rassicurò immediatamente Katsura, cercando di calmarlo, mentre l’altro si guardava intorno con aria interrogativa, deglutendo rumorosamente e spostando lo sguardo ovunque velocemente. Non appena si fu calmato un attimo Katsura gli raccontò quello che si era perso, mentre lo costrinse a fargli medicare anche le ferite da taglio che aveva sul corpo, vedendolo diventare rosso in viso all’idea di essere stato portato in braccio fin lì. Inoltre Takasugi era ancora parecchio arrabbiato con Gintoki per averlo protetto a quel modo ma, perfino lui, capì che quello non era il momento per attaccare briga con l’amico e così si limitò a borbottare qualcosa a mezza voce che solo il samurai coi capelli lunghi comprese, finendo per farsi scappare un accenno di sorriso.
Quando Katsura ebbe finito il comandante del Kiheitai si rivestì indossando uno yukata pulito e prese la sua pipa, che teneva sempre vicino al letto, mettendosi a fumare in silenzio, perdendosi anche lui in pensieri cupi. Non era abituato a sentirsi così. Essere ferito era normale, perdere qualche compagno purtroppo era diventata parte della sua quotidianità.
Ma nessuno di loro aveva mai vissuto una sconfitta così devastante.
Era spaventato.
Tutti loro erano spaventati.
Non sapevano quali o quante facce familiari avrebbero rivisto l’indomani, uscendo da quella tenda, ed erano terrorizzati di non trovarne nessuna.
Dopotutto avevano a malapena diciotto anni, per quanto fosse stata dura la loro vita fino a quel momento non potevano essere pronti a qualcosa di simile.
“Pensavamo di essere invincibili eh?” ruppe il silenzio Gintoki, mentre Katsura si stava dirigendo da lui per medicarlo. Nessuno dei due gli rispose.
Si alzò a sedere e lasciò che Katsura lo spogliasse e iniziasse a mediargli la ferita profonda che aveva sulla spalla senza lamentarsi, nemmeno quando iniziò a mettergli i punti.
“Pensavamo che questa guerra fosse casa nostra, di conoscerla come le nostre tasche ormai” continuò, fissando un punto indefinito ben lontano dalla parete della tenda che aveva di fronte, così come dall’accampamento e forse dal paese intero.
Di nuovo gli amici non gli risposero, in un tacito assenso.
“Ci siamo… Anzi no, parlo per me. Mi sono convinto di essere nato per questo. Per il campo di battaglia. Pensavo… Pensavo di poter salvare non dico tutti, ma almeno qualcuno. E invece…” si interruppe un attimo, la voce aveva iniziato a tremargli e non voleva darlo a vedere. Si vergognava già abbastanza anche solo di essere sopravvissuto.
“E invece ho fallito, di nuovo. Come quando hanno portato via Shoyo da sotto il mio naso. Sono solo un fallito. Anche voi, fareste meglio ad andarvene prima che finisca per farvi uccidere…” concluse, stringendo i denti quando Katsura gli strinse con più forza del necessario le bende sul petto.
“Gintoki, se devi aprire bocca per dire delle assurdità simili allora faresti meglio a tacere” gli disse, stringendo di nuovo un pochino troppo forte.
“Già…” commentò Takasugi, soffiando fuori una discreta quantità di fumo “Non siamo gente da morire con tanta facilità”.
“E poi non sei tu il fallito, Gintoki. Tutti noi lo siamo, l’esercito intero lo è. Oggi tutti abbiamo perso, tutti abbiamo fallito. Non è certo una colpa di cui devi farti carico da solo” concluse il discorso Katsura, sapendo che Takasugi non si sarebbe spinto così avanti.
Fu il turno di Gintoki di non rispondere, lasciando che il silenzio opprimente che andava e veniva riempisse di nuovo l’ambiente.
Nessuno di loro sapeva davvero cosa dire o come dirlo. Quella situazione era forse la peggiore che avevano mai dovuto affrontare dall’incendio alla scuola.
 “Shuichi è morto” buttò fuori all’improvviso il samurai coi capelli argentati, spezzando il silenzio con una rivelazione che per gli altri due non era che una conferma di una verità che già conoscevano ma che, nondimeno, li lasciò spiazzati. Entrambi abbassarono un attimo la testa e non dissero nulla, aspettando che Gintoki parlasse ancora.
“Non se l’è sentita di uccidere il nemico e ha gettato la spada a terra. L’altro non si è fatto lo stesso problema” la voce gli si ruppe e tremò appena, interrompendo il ritmo apatico e distaccato con cui stava raccontando gli eventi.
“E’… E’ morto tra le mie braccia, senza nemmeno riuscire a dire nulla. E’ morto per colpa mia. Avanti, Takasugi. Puoi dirlo. Puoi dirlo che me l’avevi detto” concluse Gintoki, che ormai aveva perso il controllo sul tremolio nella voce ma combattendo con sé stesso almeno per non mettersi a piangere davanti agli amici. Fortunatamente dava ancora le spalle agli altri due mentre Katsura stava finendo di medicarlo, impedendo loro di vedere i suoi occhi diventare lucidi ma, allo stesso tempo, non vide a sua volta lo sguardo inorridito di Takasugi.
Certo, gliel’aveva detto, ma non era certo questo quello che voleva. Come poteva pensare che quella situazione gli avrebbe dato soddisfazione?
“Gintoki, non…” iniziò Takasugi, ma poi tacque, non sapendo come continuare.
“Mi dispiace, Gintoki. Non se lo meritava. Nessuno merita di morire in quel modo. Ma non è facendoti carico di tutti i mali del mondo che lo riporterai in vita, lui non avrebbe voluto che ti colpevolizzassi” gli rispose Katsura, mentre cercava di disinfettargli la ferita alla testa.
“Ma sono stato io a rassicurarlo a… A promettergli che sarebbe andato tutto bene”
È vero” gli concesse Katsura “e sei stato un idiota per questo. Ma non l’hai costretto tu ad arruolarsi per vendicare la sua famiglia. Non l’hai costretto tu a buttare via la sua arma sul campo di battaglia. Quel ragazzo era semplicemente troppo giovane, nel posto sbagliato al momento sbagliato. La colpa è della guerra, e sua soltanto.” continuò a spiegare, inaspettatamente tranquillo.
“Mi secca concordare con Zura, ma è così, Gintoki. Non tutti sono adatti alla guerra. Noi… Noi siamo diversi. Gli eventi che ci hanno portato qui, il nostro passato, la Shoka Sonjuku… Ci hanno plasmato per quello che siamo. Shuichi era solo un ragazzo che fino a qualche mese fa viveva una vita normale. Noi non sappiamo nemmeno cosa sia, la normalità… Non l’abbiamo davvero mai saputo” Takasugi fece una pausa per fumare, durante la quale Gintoki finalmente si girò verso di loro. Era il discorso più lungo che gli avessero mai sentito fare e non voleva perderselo.
“A quanti anni hai ucciso volontariamente la tua prima persona, Gintoki?” chiese il comandante del Kiheitai, guardando Gintoki fisso negli occhi lasciandolo un attimo perplesso, tanto che ci mise un attimo a rispondergli.
“Non… Non lo so, con precisione. Non mi ricordo…” balbettò, abbassando lo sguardo “Ero piccolo, prima di conoscere Shoyo per sopravvivere… Io… non so nemmeno quanti anni ho davvero di preciso, ho vagato da solo per tanto tempo e durante quel periodo…” si interruppe di nuovo, era doloroso ripensare a quegli anni trascorsi prima di incontrare Shoyo e non aveva senso raccontare di nuovo agli altri due una storia che ben conoscevano.
“Esatto, Gintoki. Oltre a te, io sono cresciuto in una famiglia il cui unico linguaggio era la violenza, Zura ha dovuto familiarizzare con la morte molto presto. Siamo dei sopravvissuti. Possiamo vivere solo qui. Shuichi non era come noi, e questo non è certo qualcosa di cui tu ti possa fare una colpa”
Rimasero di nuovo tutti in silenzio, metabolizzando le parole di Takasugi.
Sapevano tutti che aveva ragione, ma questo non rendeva la morte del ragazzo meno dolorosa.
“Grazie” gli disse soltanto Gintoki, dopo un pochino.
“Tsk, non ti ci abituare” rispose l’altro, accennando vagamente il suo solito ghigno ma senza troppa convinzione.
“Su, adesso proviamo a riposare un po’” li interruppe Katsura “voi due siete feriti e io sono molto stanco. Per quanti uomini abbiamo perso oggi ne abbiamo altri che sono sopravvissuti, che ora sono feriti in infermeria o insonni nelle loro tende. Dobbiamo rialzarci anche per loro, siamo i loro comandanti e contano su di noi. Domani, quando renderemo omaggio ai nostri caduti loro guarderanno noi e non possiamo farci vedere stanchi o depressi. Rimetteremo insieme i nostri pezzi anche stavolta, come abbiamo sempre fatto” concluse, per poi mettersi a sua volta nel proprio futon, spegnendo le candele della tenda.
“provate a dormire, almeno un po’”
 
*******
 
Contrariamente alle loro aspettative quella notte tutti e tre dormirono profondamente, troppo esausti perfino per sognare.
La mattina dopo si alzarono di buon’ora, si lavarono via il sangue e il sudore della battaglia che la notte prima erano troppo stanchi anche solo per notare e si rifecero le medicazioni a vicenda.
Si vestirono di tutto punto e si recarono al centro dell’accampamento, consci di cosa avrebbero trovato.
Gintoki si trascinava un pochino sulle gambe, ancora deboli e doloranti, Katsura teneva lo sguardo basso e Takasugi zoppicava con l’aiuto di una stampella. Raggiunsero il grande spiazzo centrale e si misero in linea con gli altri ufficiali, in rispettoso silenzio.
Davanti a loro si stagliavano i corpi che quella notte i soldati di guardia dell’accampamento erano riusciti a recuperare. Erano così tanti da riempire l’intero piazzale, ognuno coperto con un lenzuolo bianco. La scena era così surreale che nessuno riusciva a dire niente.
Poi un uomo, uno degli strateghi dell’esercito, annunciò i caduti accertati di ogni plotone ad alta voce, lentamente e con solennità. Per ogni nome che riconoscevano per i tre ragazzi era come ricevere una pugnalata allo stomaco, ma rimasero fermi, in silenzio e con lo sguardo basso per tutto il tempo. Anche quando fecero il nome di Shuichi. Ognuno di loro aveva perso almeno la metà dei propri uomini il giorno prima e i numeri del loro distaccamento dell’esercito erano diventati così preoccupanti che si vociferava avrebbero chiamato dei rinforzi da Tosa.
Finito il conto delle vittime arrivò un officiante, che tenne un funerale pro forma per tutti i caduti contemporaneamente e poi, chi era ancora in grado di farlo, iniziò a scavare per loro delle fosse, usando le loro spade come lapidi.
Gintoki si trascinò verso la distesa di cadaveri e, col cuore in gola, cercò quello del ragazzo. Katsura e Takasugi si guardarono e annuirono, andando ad aiutarlo. Quando lo trovarono Gintoki e Katsura gli scavarono una fossa per conto suo, lontano dagli altri, sotto un albero poco fuori la villa. Lo seppellirono e Gintoki infilò la sua spada nel terreno, legandoci con un laccio un sacchetto contenente un po’ di cibo come offerta.
“non è molto, lo so, ma al momento è tutto ciò che posso darti” gli disse, inginocchiandosi davanti alla tomba di fortuna, e così fecero gli altri due.
Nessuno parlò, ma Gintoki fu profondamente grato agli amici di essere lì in quel momento, di aiutarlo a superare quella perdita e ad andare avanti.
Dopo alcuni minuti i ragazzi si alzarono e, senza bisogno di parlarsi, si avviarono verso il posto dove si erano abituati a trovarsi per bere la sera, un grande albero di ciliegio ormai spoglio nel freddo di novembre. Gintoki tirò fuori una bottiglia di sakè della loro scorta segreta e versò da bere a tutti e tre.
“Ai caduti” disse solo.
“Ai caduti” ripeterono gli altri, brindando tutti insieme e, per un solo istante, quando i loro bicchierini si toccarono videro tutti i loro compagni caduti il giorno prima brindare con loro, bere e scherzare allegramente. Il ciliegio era in fiore e li abbracciava tutti con i suoi rami carichi di fiori.
I tre ragazzi sorrisero, con gli occhi umidi, e bevvero alla goccia ciò che avevano nel bicchiere.
Poi una folata di vento spazzò quel luogo e la visione si disperse, così come le loro lacrime, lasciando solo un sorriso sul volto di quei tre ragazzi seduti da soli sotto un albero spoglio.
  
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