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Autore: edoardo811    18/09/2021    5 recensioni
Naito è un mezzosangue che ha trascorso la propria vita in fuga, senza un posto dove stare, una casa che lo accogliesse, una famiglia che lo accettasse. Questo perché non è un mezzosangue come gli altri, non è un semidio: è il figlio di un demone e di una mortale.
Rimasto da solo, consumato dal rimorso e pentito per gli errori commessi, comincerà un viaggio tra le montagne del Giappone alla ricerca dell'Elisir di lunga vita: qualcosa che mai nessuno prima è riuscito a trovare. Insieme a una vecchia conoscenza cercherà di riabilitare il suo nome e quello di tutti i mezzosangue come lui. Soli, abbandonati e spaventati. Come un tempo anche lui era.
«Chi sono i tuoi genitori?»
«Mia madre si chiamava Akane Itomi.»
«E tuo padre?»
«Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

[Mitologia giapponese]
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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Salve gente, faccio una rara nota ad inizio capitolo per mettere due link, due colonne sonore per questo capitolo che mi sono state molto d'aiuto, la prima è una canzone, la seconda è un OST vera e propria, così almeno ce n'è per tutti i gusti (io personalmente sono tipo da canzoni, ma posso comprendere chi invece preferisce le OST).

Canzone: https://www.youtube.com/watch?v=eRqIbk9VDwo

OST: https://www.youtube.com/watch?v=AtZG8jzFDZ8


Grazie per aver aperto il capitolo e buona lettura!



12

La resa dei conti

 

 

I minuti sembrarono ore e le ore sembrarono giorni, confusi e indistinti. Una massa di pensieri che si accalcavano tra loro creò un ingorgo nella sua mente. Rabbia, odio e tristezza lacerarono il suo petto come lame affilate ed intrise di veleno. Fame e sete si palesarono, unendosi a quel tormento. Perché non l’avevano ucciso e basta? Perché rinchiuderlo lì dentro? Non gli era bastato quello che avevano già fatto? Perché prolungare quell’agonia ancora di più?

Continuò a chiamare gli altri, a ordinare loro di liberarlo, ma nessuno arrivò mai. Poteva immaginare quello che stavano dicendo alle sue spalle. Era certo che si stessero prendendo gioco di lui e di quello che era successo. Se si fosse liberato, giurò a sé stesso che li avrebbe sterminati tutti. Nessuno di loro l’avrebbe mai più deriso.

Non aveva idea di che ora fosse quando qualcun altro mise piede nella sua cella. Aveva urlato così tanto che si sentiva privo di energie, ma non appena si accorse del volto viscido di Orochi si riaccese come un incendio. 

Le catene tintinnarono quando provò a scattare verso di lui per spappolargli il cranio. Tirò con tutta la forza che aveva, ignorando il dolore, la stanchezza, i morsi della fame, ogni cosa. Voleva che pagasse per averlo costretto a combattere con Hachidori. Era stata colpa sua, soltanto colpa sua. Le catene non si smossero. Non c’erano dubbi ormai che fossero intrise di magia.

«Non ti sei affatto calmato, vedo» furono le parole di Orochi, mentre lo esaminava impassibile. Dietro di lui, Hikaru rimase in silenzio, vicina alla porta e cupa in viso. 

«Lasciami andare» sibilò Naito, scrutandolo con odio.  

Orochi non rispose. Continuò a guardarlo inespressivo, prima di voltarsi. «Hikaru.»

La donna si irrigidì. «Sì, Lord Orochi?»

«Avvicinati.»

Hikaru obbedì, anche se sembrava intimorita. «Che cosa c’è, Lord Or…»

Orochi la afferrò per il collo, soffocando il resto della frase. Naito spalancò gli occhi atterrito, mentre Hikaru gridava e veniva sollevata da terra come una piuma. Le vene si tesero sul volto di Orochi e le sue dita affondarono sul collo della kitsune, facendola boccheggiare. «Ti avevo dato un ordine preciso, Hikaru. Ti avevo detto di tenere d’occhio quei due. Te lo ricordi?»

La donna provò a rispondere, ma lui serrò ancora di più la presa, strappandole un altro verso strozzato. «Te lo ricordi?!»

Con molta fatica, rossa in volto, Hikaru riuscì ad annuire. 

«E allora perché ci troviamo in questa situazione, Hikaru? Puoi spiegarmelo? No, certo che non puoi. Non puoi spiegarmi nulla, se soffochi.» Nonostante le sue parole, Orochi non la lasciò andare. Chiunque sarebbe già morto, dopo una simile stretta. Ma Hikaru era una kitsune, non poteva morire così. Avrebbe continuato a soffrire finché non l’avrebbe lasciata andare, o finché non sarebbe riuscita a liberarsi, ed entrambe le possibilità sembravano parecchio remote. 

Naito assottigliò le labbra, osservando la scena inquieto. Hikaru sembrava così sofferente che gli venne da provare pena per lei nonostante tutto quello che aveva fatto. Orochi lasciò andare la donna all’improvviso, spingendola a terra. La kitsune cadde sul pavimento, tossendo e massaggiandosi la gola, i capelli che le coprivano scompostamente il viso arrossato.

«Sapevo che non avrei dovuto lasciare questo compito a te, Hikaru» disse ancora l’uomo, collerico.

Hikaru tenne la testa bassa, senza rispondere. Sembrava tutta un’altra persona rispetto alla kitsune potente e orgogliosa che avevano conosciuto. Orochi riportò poi l’attenzione su di Naito e lui ricambiò il suo sguardo, digrignando i denti. Se credeva di intimidirlo, si sbagliava di grosso. 

«Dove ho sbagliato con te, Naito?»

Il suo tono lo lasciò di sasso. Sembrava… deluso. Ferito. Come se fosse stato Naito a fargli del male e non il contrario.

«Sei vivo grazie a me. Sei diventato ciò che sei diventato grazie a me. È grazie a me se adesso i mortali non possono nemmeno toccarti. E tu, per ricambiare la mia generosità… ti sei innamorato.»

Come la prima volta che l’aveva detta, quella parola uscì come un insulto dalle sue labbra quasi inesistenti. «Ti sei dimenticato quello che ti ripetevo sempre, quando eri ancora un poppante? Ti sei dimenticato tutti i miei insegnamenti?!»

«Ma quali insegnamenti?» sbottò Naito, stanco di sentirlo parlare. «Le tue bastonate, intendi? Le ricordo bene, quelle. Ho ancora i segni su tutto il corpo.»

«Non farti beffe di me, moccioso.» Orochi si avvicinò e si chinò di fronte a lui, per poi dire con un sussurro cavernoso: «Ti posso assicurare che tutto quello che hai subito non è nulla in confronto a quello che potrei farti in questo momento.» 

Naito stirò le labbra in un sorrisetto. Non rispose. Dalla sua bocca uscì soltanto uno schizzo di saliva che lo centrò in pieno occhio. Orochi si ritrasse, grugnendo infastidito e ripulendosi, prima di ringhiare di rabbia. Si mosse così rapido che Naito nemmeno riuscì a vederlo. Lo colpì in pieno volto con un pugno, talmente forte da fargli sbattere la testa contro il muro. Gli sembrò di avere la testa schiacciata tra due pareti di roccia. Sputò a terra una grossa chiazza di sangue. Non sentiva più la bocca, ma riuscì comunque a sogghignare. «Tutto qui? Sarebbe questo il gran male che potresti farmi?»

Un altro pugno lo fece gridare. Accasciò la testa e tossì, sentendosi le guance come corrose. 

«Visto che hai la memoria corta, lascia che sia io a rinfrescartela.» Orochi si alzò in piedi, per scrutarlo con odio dall’alto. «Ti ho detto di dimenticare le emozioni mortali. Quelle emozioni che provano gli stessi a cui stiamo dando la caccia. Quelle emozioni che ti rallenterebbero e che ti renderebbero debole. Ricordi, adesso?»

Naito tenne la testa bassa. Cominciò a produrre un lungo rantolio sommesso. «Kono yarou…»

Orochi gli sferrò un calcio al fianco. Le coste si spezzarono, lacerandolo dall’interno. Si accasciò nuovamente, con alcune lacrime che scivolavano dagli occhi. 

«Stai piangendo. Tutto questo solo per una stupida mocciosa.»

«Non era… una stupida mocciosa…» biascicò Naito, riuscendo ad incrociare di nuovo il suo sguardo. Le catene tintinnarono ancora. Il dolore non era nulla a confronto della rabbia che stava provando. 

«Sei davvero patetico. Potresti possedere qualsiasi donna tu voglia, mortali e non, e non solo hai scelto uno sgorbio, ma te ne sei perfino innamorato

«Sta’ zitto…»

«Non ha nemmeno esitato un istante quando le ho detto di ucciderti. A lei non importava niente di te, Naito. Ti stava solo usando.»

«STA’ ZITTO!» 

Orochi schiantò il piede contro il petto di Naito, così forte che si sentì un orribile scricchiolio. Naito rovesciò la testa all’indietro, gridando a perdifiato. Sentì i polmoni in fiamme e altro sangue che gli colava dalla bocca. Quando Orochi si allontanò di nuovo, il ragazzo si accasciò su sé stesso, boccheggiando. Tossì di nuovo, raschiandosi la gola arsa, e sputò un’altra grossa chiazza rossastra. «Va’… va’ all’Inferno, Orochi.»

«Toglimi una curiosità, Naito. Se fossero stati i mortali a catturare Hachidori, o perfino gli dei, tu che avresti fatto? Saresti rimasto concentrato su quello che conta davvero, come ti ho sempre insegnato, oppure ti saresti suicidato nell’inutile tentativo di salvarla? O peggio ancora, avresti compromesso tutti noi solo per lei?»

Quella domanda colse Naito alla sprovvista. E la cosa peggiore, fu che provò anche a pensare a una risposta. 

«Pensa soltanto a come hai reagito quando ho minacciato di ucciderla» proseguì Orochi. «Avresti permesso anche agli dei di manovrarti così?»

Naito tacque. Non seppe perché, ma cercò lo sguardo di Hikaru che però si voltò immediatamente, lasciandolo solo. A quel punto, strinse con forza i pugni. «L’hai detto tu che devo pensare a quello che conta di più, no?» rispose. «Hachidori è quello che conta di più.»

«Sei davvero un ingenuo, Naito. Non l’avresti mai salvata da loro. Ti avrebbero sfruttato finché non avresti esaurito la tua utilità e poi avrebbero ucciso sia lei che te. Non sarebbero mai stati clementi come me.» 

Un sorriso incredulo nacque sul volto di Naito. «Clemente? Tu?!»

«Siete entrambi ancora vivi, sbaglio? Hai stretto un accordo con me, Naito. Avresti imparato a essere un vero mostro e in cambio avrei risparmiato la vita della tua amichetta. Io ho rispettato la mia parte dell’accordo, adesso spetta a te farlo.»

Naito ripensò a quello che aveva detto la sera prima, ammesso che fosse passato solo un giorno. Strinse i denti furibondo. «Mi hai costretto tu ad accettare. Quell’accordo non vale niente.»

«Capisci, adesso, perché i tuoi sentimenti sono pericolosi? Perché possono essere usati contro di te. Proprio come ho fatto io. Per questo motivo non devi provarne, Naito. Sarebbero la tua rovina. Non provare sentimenti è il vantaggio più grande che si possa avere contro i propri nemici.» 

Gli occhi di Orochi sembrarono brillare. Per un istante, a Naito sembrò di essere tornato a quando era ancora un bambino in viaggio con lui. Ripensò a quella sera in cui gli aveva detto che non erano amici, che non doveva legarsi a nessuno, che per un mostro l’unica persona che contava era sé stesso.  

«Non vuoi più vendicarti, Naito? Non vuoi più farla pagare agli dei per quello che ti hanno fatto? Vuoi davvero rinunciare a tutto quello che ti ho dato solo per una manciata di piume che ti ha rivolto un sorriso?»

Una katana apparve nella sua mano, sfiorando la gola di Naito prima che potesse rispondere a tono. Si morse la lingua e fissò l’uomo dal basso. «Non potrai salvarti fuggendo con la tua amichetta, Naito. Tu, la tua specie intera, non avrete pace in questo mondo finché gli dei esisteranno. Se vuoi cambiare le cose, dovrai continuare a servirmi. Dovrai imparare ad essere un vero mostro. Non ti servono le emozioni, Naito. L’unica cosa che ti serve… è la tua rabbia.»

S’inginocchiò di nuovo di fronte a lui, scrutandolo severo, uno sguardo che non ammetteva alcuna obiezione. «Non hai idea di quanto sia potente il sangue demoniaco che scorre dentro di te. Solo io posso aiutarti a controllarlo. Solo io posso mostrarti come diventare più forte. Solo io posso salvarti.»

Naito serrò la mascella. Nella sua mente riapparve il momento in cui Orochi mozzava il braccio ad Hachidori, soltanto per ferirlo. Ripensò a quando, da bambino, aveva promesso a sé stesso che un giorno lo avrebbe ucciso. Mai come in quel momento desiderò di poterlo fare. 

Sapeva di non poterci riuscire. Non in quelle condizioni, almeno. Non era ancora al suo livello. Abbassò la testa, stringendo con forza i pugni. «Cosa… cosa vuoi che faccia?» domandò, con un filo di voce. Un dolore atroce lo colpì al petto non appena finì di rivolgergli quella domanda.

Quanto era patetico. Quanto era debole. Ma le cose sarebbero cambiate. Dovevano cambiare.

Un lento sorriso apparve sul volto viscido dell’uomo, la pelle sembrò tendersi più di una corda. «Sarai riammesso nell’esercito, ma verrai privato della tua posizione in comando. Se vorrai riprendertela, dovrai dimostrare davvero di esserne degno. Dovrai dimostrarmi che tu e la tua specie meritate un posto nel mondo che creerò dopo aver annientato gli dei. E soprattutto…» 

Orochi si alzò in piedi e consegnò la katana a Hikaru, che la prese frettolosa, senza incrociare lo sguardo di nessuno dei due. «… dovrai rinunciare alle tue emozioni, Naito. Niente più risate al chiaro di luna. Niente più piagnistei. E soprattutto, niente più amore. Mai ridere. Mai piangere. Mai amare. Fallo… e diventerai inarrestabile. Nessuno potrà fermarti, nemmeno quel figlio di cagna di Kagu-Tsuchi.»

Non appena quel nome venne menzionato, Naito s’irrigidì come il marmo. Osservò Orochi dritto negli occhi, le labbra contratte in una smorfia di odio puro, ma questa volta non era rivolta a lui. 

«Sì, Naito, questo è ciò che voglio vedere da te. Servimi. Combatti. Vendicati. Il mondo…» Orochi strinse la mano a pugno, distendendo quel ghigno sadico e innaturale. «… diverrà il nostro parco dei divertimenti. Nessuno ci potrà fermare. Diventeremo noi dei. E saremo noi a perseguitare chi è diverso.»

Le urla di Akane risuonarono nella sua mente. Si sentì come se il calore di quelle fiamme non se ne fosse mai andato davvero. Rivide il sorriso crudele del dio che aveva ucciso un’innocente di fronte a lui.

Avrebbe pagato. Tutti avrebbero pagato. 

«O sei con noi, o sei contro di noi, Naito. Dunque, cosa scegli?»

Naito guardò Hikaru, che questa volta non si voltò. Non disse nulla. Si limitò soltanto a muovere il capo, come aveva fatto quella notte, in un movimento quasi impercettibile, e annuì. All’improvviso, a Naito furono chiare le sue intenzioni dietro la sua visita precedente. E furono anche chiare le sue parole, quando gli aveva detto di aver cercato di metterlo in guardia. 

Riportò lo sguardo su Orochi e strinse i pugni. Tutti avrebbero pagato. Quel bastardo incluso. «Con voi.»

«Giurami fedeltà.»

«Ti… ti giuro la mia fedeltà.»

«Hikaru.» Orochi rivolse un cenno alla kitsune. «Liberalo.»

La donna si affrettò ad obbedire. Mentre era inginocchiata di fronte a lui, ad armeggiare con le catene, i loro sguardi si incrociarono. La sua espressione era indecifrabile. Non sembrava arrabbiata, o triste. Per un secondo, Naito avrebbe giurato che fosse perfino… sollevata. 

Quando i polsi furono liberi, Naito se li massaggiò con una smorfia. Per un istante, pensò di attaccare, ma cacciò via quell’idea suicida. Non avrebbe avuto nessuna speranza contro di loro, perfino se fosse stato armato e al pieno delle forze. Orochi gli aveva promesso la forza. E gli aveva promesso la vendetta. Lo avrebbe ascoltato. E poi, quando sarebbe venuto il momento, avrebbe fatto ciò che aveva giurato di fare da bambino.

«Da questo momento in poi, Naito…» proseguì Orochi, quando si fu rialzato. Gli sorrise di nuovo, glaciale e crudele. «… non sarò più solo “Orochi” per te. Dovrai rivolgerti a me come “Lord Orochi” o “padrone”, proprio come fanno tutti i tuoi compagni. Tutto chiaro?»

Ancora una volta, Naito fu costretto a mordersi la lingua. Tutto il lecchinaggio da parte degli altri aveva dato alla testa di quel folle. Si limitò ad annuire e a chinare la testa. «Sì… Lord Orochi.»

«Molto bene. Sei congedato, Naito. Va’ pure a rifocillarti.»

Mentre lasciava la stanza, Naito si fermò ancora una volta accanto ad Hikaru. I due si guardarono per qualche istante, poi il ragazzo assottigliò le labbra e si chinò anche di fronte a lei. Vide la sua espressione di sorpresa, ma non ci diede importanza. 

Abbandonò la cella mentre si massaggiava i polsi, soffocato dal peso dell’umiliazione e di tutto quello che era successo.

Avrebbe avuto la sua vendetta. Li avrebbe uccisi tutti, dal primo all’ultimo.

Quelle parole riecheggiarono nella sua mente, facendolo irrigidire. 

Mai ridere. Mai piangere. Mai amare.

Era certo che non sarebbe riuscito a dimenticarsele molto presto.

 

***

 

«Ammetto che per un po’ ho creduto che fossi riuscito davvero a sfuggirmi» cominciò Kagu-Tsuchi, mentre lo soppesava con quello sguardo divertito. «È stato molto astuto da parte tua rimanere nascosto nell’ombra di Yamata no Orochi. Ti ha aiutato a mascherare le tracce. Adesso, però, lui non è più qui per difenderti. Sei da solo.»

Naito digrignò i denti. Si concentrò su Hachidori, che ora si era allontanata da lui e teneva lo sguardo basso. La voce gli uscì come un sibilo per via della rabbia, dell’incredulità e anche della delusione: «Perché? Perché l’hai fatto, Hachidori?»

«Su, su, non prendertela con lei.» Kagu-Tsuchi distese il suo ghigno. «Sono stato io a dirle di farlo. Non è certo colpa sua. Coraggio, Hachidori, avvicinati.»

Dall’espressione che fece, Hachidori sembrò voler soltanto fuggire via. «I-Io…»

Il dio si indurì all’improvviso. «Avvicinati, ho detto.»

Hachidori sussultò. Naito lesse la paura nel suo sguardo, mentre obbediva al dio, avvicinandosi esitante. Rimase ad osservare, percependo l’esercito di uomini alle sue spalle, pronti ad attaccare al suo minimo passo falso. Sapeva cosa stava succedendo. Kagu-Tsuchi si stava prendendo il suo dolce tempo prima di ucciderlo. Naito avrebbe potuto fare qualcosa, qualsiasi cosa, combattere, fuggire, parlare, ma non ci riusciva. Era paralizzato per la paura, e sconvolto dal tradimento. Non fu nient’altro che uno spettatore silente alla scena stagliata di fronte al suo unico occhio.

«Sei stata brava, Hachidori. Ecco.» Kagu-Tsuchi sollevò le mani e due fiammate apparvero nei suoi palmi, tingendogli il viso di rosso. Hachidori indietreggiò spaventata, ma non venne colpita dal fuoco. Quando le fiamme svanirono, uno scrigno di ceramica era apparso tra le mani del dio. «Questo è per te» spiegò, posandolo a terra e aprendolo.

Hachidori fece di nuovo un passo avanti e allungò il collo verso il forziere, prima di schiudere le labbra. «Avanti, prendilo» incalzò il dio. «Te lo sei meritato.»

Incerta, Hachidori allungò la mano verso lo scrigno ed estrasse qualcosa che Naito non riuscì a riconoscere subito. Quando, però, si accorse di alcune protuberanze lunghe e sottili all’estremità di quella specie di cilindro, realizzò che si trattava di un braccio finto. Era lungo e sottile, uguale a quello che lei ancora aveva, solo che era fatto di ceramica, con giunture di ferro e rivestito di lacci di cuoio nero.

Kagu-Tsuchi si impettì. «Ti piace? L’ho creata apposta per te. Avanti, provala.»

Hachidori scostò il mantello e infilò il moncherino dentro la cavità sul lato opposto del braccio, affondandolo fino alla spalla. Vi fu un suono, come lo scatto di una molla, e Hachidori fece un verso sorpreso. Subito dopo cominciò a muovere il braccio finto, a piegarlo e a comandare le dita, con sguardo sempre più sbalordito.

«Uno dei miei lavori migliori» affermò il dio soddisfatto, avvicinandosi a lei. La afferrò per il braccio nuovo e cominciò a tirare i lacci, stringendo con forza. «Così non rischierai che ti cada» spiegò, prima di lasciarla andare. «E pensare che c’è chi crede che la ceramica sia superata. Bah! Stupidi umani con la loro plastica, il loro titanio e il loro silicone!»

Naito si ricordò che Kagu-Tsuchi, oltre che il dio del fuoco, era anche quello della ceramica e degli artigiani. Rimase senza parole, a osservare Hachidori mentre rimirava meravigliata il suo nuovo braccio. «I-Io… n-non ho parole…» bisbigliò. «C-Credevo… credevo che…»

«Che ti avrei uccisa?» la interruppe Kagu-Tsuchi, prima di scoppiare a ridere. «Volevo farlo, sì.» Si fece serio all’improvviso. «Dopo che mi hai deluso la prima volta.»

Lo stupore di Hachidori venne rimpiazzato dallo sgomento, mentre il dio spostava l’attenzione su di Naito. «Avrebbe dovuto consegnarti a me fin dall’inizio. Ma poi ha pensato di potermi imbrogliare e di mettersi alla ricerca dell’Elisir di lunga vita insieme a te» spiegò, prima di accarezzare la guancia di Hachidori con un gesto lento. La ragazza gemette spaventata, ma non si ritrasse.

«Hai commesso un errore a correre dalle satori, Hachidori. Lo sai che hanno la lingua lunga, vero? Poche ore dopo la vostra visita alla Valle dell’Inferno, tutto il Giappone era a conoscenza delle vostre intenzioni.» Kagu-Tsuchi sogghignò. «Credevi di potermi imbrogliare, piccola mezzosangue? Credevi che trovando l’elisir, saresti riuscita a sopravvivere alla mia ira?»

Non la lasciò rispondere. Chiuse la mano attorno alle sue guance come una tenaglia, strappandole un grido di sorpresa.

«Lasciala!» esclamò Naito facendo un passo avanti. Nello stesso istante, un lungo fruscio metallico si diradò per il cortile del santuario, costringendolo a rimanere fermo: i mortali avevano sollevato le armi.

«Perché dovrei, Naosuke? Ti ha tradito, dopotutto.» Il dio strinse la presa attorno ad Hachidori, che urlò di dolore e tentò di liberarsi senza successo. «Perché vorresti che la lasciassi andare?»

Naito esitò. Quella reazione fece ridere ancora una volta Kagu-Tsuchi. «Guardati, Naosuke! Nonostante tutto quello che Hachidori ti ha fatto, ancora ti ostini a volerla difendere!»

Strinse ancora più forte Hachidori, che sbiancò e piegò la testa all’indietro. Naito stava per correre verso di lei ma il dio la lasciò andare all’improvviso. La ragazza barcollò all’indietro, massaggiandosi le guance arrossate con il respiro affannato.

«Volevo uccidervi entrambi alle rovine di Hachiōji…» disse Kagu-Tsuchi, mentre scrutava Hachidori ora con espressione schifata. «… ma poi, ho avuto un’idea migliore. Mentre tu affrontavi quella bestiaccia, ho avuto una piccola discussione con la tua amichetta, e le ho detto di portarti qui. Ucciderti in questo luogo… sarà molto più soddisfacente.»

Ancora una volta, Hachidori non ricambiò lo sguardo di Naito. Tenne la testa china e continuò a massaggiarsi le guance con aria devastata.

«Hai… hai pianificato tutto» sussurrò Naito stringendo i pugni per la rabbia. «Sapevi che quella era casa mia. Sapevi che ero tornato dall’occidente. Mi stavi aspettando. Volevi… volevi consegnarmi a lui.»

Nessuna risposta.

«Non volevi davvero usare l’elisir come pegno di pace. Volevi tenerlo per te. Perché sapevi che Kagu-Tsuchi ti avrebbe ucciso in ogni caso, anche se mi avessi davvero consegnato a lui. Sapevi di avere i giorni contati e hai tentato in tutti i modi di salvarti» proseguì Naito. Le parole ormai gli uscivano in automatico dalla bocca. «E quando stavo combattendo con quello tsuchigumo… non sei… tornata indietro per me. Sei tornata perché lui te l’ha ordinato.»

«N-Naito…» provò a dire lei, con un soffio di voce.

«Perché?! Perché l’hai fatto?!» Ora Naito stava gridando. «Perché non mi hai detto la verità subito?! Avremmo potuto affrontare Kagu-Tsuchi insieme! Perché non…»

S’interruppe di scatto. Aveva già vissuto quella situazione. Stava accadendo la stessa cosa che era successa quella dannata notte. Tutto si stava ripetendo. La realizzazione di quello lo sconvolse più del tradimento stesso. L’unica persona di cui si era mai fidato… lo aveva tradito.

Due volte.

La voce di Kagu-Tsuchi risuonò ovattata alle sue orecchie: «Ancora non ci sei arrivato, Naosuke? A lei non importa niente di te. Non le è mai importato nulla. Ti ha sempre usato.»

Naito ripensò alla sera prima. E non solo. Andò anche oltre, a quando, sempre in quella notte maledetta, Hachidori lo aveva attaccato. «Hachidori» sussurrò. «Quello… quello che… che c’è stato tra noi… era… solo una bugia?»

Hachidori sembrava sull’orlo di una crisi. Non rispose. Non disse nulla.

«Hachidori» insistette Naito, con la voce incrinata. «Ti prego… ti prego, dimmi che non era una bugia…»

Altro silenzio. L’unica cosa che lei fece, fu abbassare la testa. La risposta era chiara. E fece più male di qualsiasi ferita che avesse mai ricevuto.

«Perché…» Naito non stava più gridando. La sua voce si stava spegnendo lentamente, ogni secondo trascorso era una scheggia di vetro che si conficcava nel suo petto. «Perché…»

Un’altra risata tonante lo fece sussultare. Il dio si portò le mani sullo stomaco, mentre rovesciava la testa all’indietro. «Davvero pensavi che qualcuno potesse amare uno sgorbio come te? Sei solo un illuso, Naosuke, un mostro ripugnante, un errore che cammina. Non meriti di vivere, e di certo non meriti di amare. Ma finalmente qualcuno te l’ha fatto capire. Ed è per questo motivo…» Kagu-Tsuchi si avvicinò di nuovo ad Hachidori. «… che ho deciso di risparmiarti, mia cara Hachidori.»

Hachidori drizzò la testa all’improvviso. «D-Davvero?»

«Sì. Il modo in cui hai deluso il tuo amico, il modo in cui ti sei presa gioco di lui, il modo in cui l’hai usato… mi ha colpito, davvero. Avrei potuto farlo a pezzi, centimetro dopo centimetro, e non sarei comunque riuscito a fargli lo stesso male che gli hai fatto tu. Io posso dilaniare il suo corpo, ma tu… tu hai fatto ben di peggio. Hai dilaniato il suo spirito.»

La sorpresa svanì dal volto di Hachidori, rimpiazzata dallo sgomento. Questa volta fu lei a cercare lo sguardo di Naito, che era rimasto impassibile, ad ascoltare, mentre ogni tassello andava al proprio posto, mentre, finalmente, riusciva a scorgerla per quello che era davvero.

Non l’aveva mai amato. Non aveva mai tenuto a lui. Quelle emozioni che lei gli aveva fatto provare… erano state soltanto una trappola. Una trappola mentale che l’aveva condotto lì, ad una trappola reale. Non credeva che sarebbe mai arrivato il giorno in cui avrebbe rimpianto di non aver obbedito ad Orochi, ma accadde. Orochi aveva sempre avuto ragione. Le emozioni lo avevano indebolito e basta.

«E adesso…» Un’altra potente fiammata si accese nel palmo di Kagu-Tsuchi. Quando si consumò, lasciò posto ad una katana lunga due metri dalla lama arancione intenso che emanava fumo come l’armatura. «… è giunto il momento di concludere questa faccenda durata per troppo tempo. È ora che tu muoia.»

Mentre osservava il dio avvicinarsi a lui, il pensiero di fuggire, o di combattere, non gli sfiorò nemmeno la mente. Era finita. Aveva perso, su tutti i fronti. Era stato sconfitto da un avversario ben più grande di lui, dei mostri, degli dei stessi.

Quelle emozioni da cui Orochi lo aveva messo in guardia, quelle emozioni che gli aveva proibito di provare, stavano per essere la causa della sua morte.

«Che succede, Naosuke? Non vuoi ribellarti? Non vuoi combattere?» lo incalzò il dio, ormai a pochi passi da lui. Il calore emanato dalla sua katana gli fece formicolare la cicatrice sull’occhio. «Sei così triste da non voler nemmeno seguire il tuo istinto di sopravvivenza?»

Naito non rispose. Lanciò un ultimo sguardo verso Hachidori, che era ancora lì, ad osservarlo, con le labbra che tremolavano. Vide alcune lacrime scivolarle sulle guance. Osservò quel braccio finto che Kagu-Tsuchi le aveva donato.

Una rabbia accecante cominciò a pervaderlo. Si era lasciato accecare dalle emozioni, di nuovo. Era stato un vero stupido. Se era finito in quella situazione, poteva solo incolpare sé stesso. Non avrebbe dovuto farlo. Non avrebbe dovuto credere di poter amare. Non avrebbe dovuto…

Hachidori svanì all’improvviso di fronte alla sua vista. Al suo posto apparve Rosa. Ripensò a quella sera in cui l’aveva attaccata. L’aveva trovata da sola, in quell’arena semibuia. Stava cantando. La sua voce… era la cosa più bella che avesse mai sentito. I suoi occhi stupendi, il suo viso incantevole, la passione nel suo sguardo, il coraggio che aveva mostrato affrontandolo anche se sapeva di non avere alcuna speranza contro di lui.

Pensò a Konnor, a quando lo aveva trafitto, e a come, nonostante questo, lui avesse continuato a combattere, lo avesse sconfitto e non solo, l’aveva perfino risparmiato.

Pensò ad Edward, a come aveva reagito quando gli aveva detto che la sua vita era stata un errore. Da che pulpito, poi.

Pensò agli uomini che aveva ucciso mentre era al servizio di Orochi. Pensò a tutto il male che aveva fatto sin da quando era venuto al mondo. Alla rabbia che aveva provato, al sangue che la sua spada aveva assaggiato, le vite che aveva strappato.

Aveva ucciso, ferito, rapito perfino. Si era comportato come un mostro, come Orochi aveva preteso da lui.

Era davvero meglio, vivere così? Consumati dall’odio, dal rancore, dal desiderio di vendetta?

Pensò alle risate con Hachidori al chiaro di luna. Pensò a quando aveva pianto per la morte di sua madre. Pensò a quando aveva sentito il cuore battergli quando aveva visto Hachidori la prima volta. E pensò anche a come avesse ripreso a battergli, dopo tanto tempo, quando aveva visto Rosa.

Pensò a come si era sentito quando stava per baciare Hachidori, a quello che aveva provato standole accanto, sfiorandola, carezzandola, a quel calore che l’aveva avvolto quando aveva immaginato un futuro insieme a lei, lontano da tutto quello.

Pensò a come si era sentito quando aveva visto Rosa. A quando l’aveva sentita cantare. Pensò a come si era sentito quando Konnor l’aveva risparmiato, a come si era sentito quando Edward gli aveva mostrato il lato vulnerabile di sé, quando gli aveva detto di avere paura, di non voler morire, e soprattutto quando gli aveva detto di non arrendersi. Pensò alle serate in compagnia del vecchio Musashi, ad ascoltare le sue storie, in un luogo che aveva potuto chiamare casa dopo dodici anni passati a vivere come un miserabile.

Era davvero… sbagliato, provare sentimenti diversi dalla rabbia? Era davvero sbagliato… pensare di poter essere più umano?

«Hai più cose in comune con noi che con Orochi.»

«Continua a combattere per la giusta causa.»

«Un samurai aiuta sempre i propri simili.»

Naito osservò Kagu-Tsuchi senza alcun timore negli occhi. Lui aveva deciso che non poteva lasciarlo vivere soltanto per via del sangue che scorreva nelle sue vene. Non aveva mai considerato lui come persona. Ma se l’avesse fatto, che cosa sarebbe cambiato? Naito aveva trascorso la vita con qualcuno che l’aveva obbligato ad essere qualcosa che in realtà non aveva mai voluto essere. Troppo tardi aveva capito che in realtà avrebbe potuto essere qualcos’altro. Troppo tardi aveva capito di aver sempre avuto una scelta.

Konnor ed Edward gli avevano fatto capire che poteva essere migliore. E il vecchio Musashi gli aveva mostrato come essere migliore.

Aveva salvato Rosa. Aveva salvato un bambino. Aveva salvato Meishu e le sue compagne. Aveva fatto del bene. E si era sentito bene. Se l’avesse capito prima… forse non si sarebbe trovato in quella situazione.

Forse… Hachidori lo avrebbe amato davvero, se fosse stato diverso. Forse… era per quello che sua madre l’aveva salvato. Perché credeva che lui sarebbe potuto essere diverso. Una brava persona, e non una macchina da guerra al servizio di un demone. Come avrebbe reagito Akane vedendolo così? Che cosa avrebbe pensato di lui se avesse scoperto tutto quello che aveva fatto? Non era stato cresciuto così, da lei. Lei non avrebbe mai voluto qualcosa del genere da lui.

Lei avrebbe voluto un figlio capace di ridere, di piangere e di amare. Non qualunque cosa lui fosse diventato invece.

Malgrado tutto, un sorriso amaro nacque sul suo volto.

Il dio si corrucciò. «Uh? Si può sapere che hai da sorridere?»

«Ho commesso degli errori» rispose Naito, abbassando lo sguardo. «Non ne vado fiero. Ho odiato. Ho provato rabbia. Ho voluto vendicarmi. Sono… stato consumato da queste emozioni. E ho rinunciato a tutto il resto. Sono… stato uno sciocco. Non mi sono reso conto del male che ho fatto agli altri, e a me stesso. Ma ora… ora ho capito. Se potessi tornare indietro… riderei. Piangerei. E amerei. Lo farei dieci, cento, mille volte. La rabbia genera rabbia. La violenza porta violenza. E la vendetta non è la soluzione.» Spostò lo sguardo su Hachidori, che era rimasta a bocca aperta. «Mi… mi dispiace, Hachidori, per quello che è successo. Mi… mi dispiace di averti fatto del male. Ma voglio che tu sappia che… anche se non ricambi i miei sentimenti, sono… sono felice di averti conosciuta. Perché in quegli attimi in cui ho creduto che tra noi potesse davvero esserci qualcosa mi… mi sono sentito bene. Mi sono sentito… umano.»

Altre lacrime scesero dagli occhi di Hachidori. Si portò la mano di fronte alla bocca, tremando.

Qualcosa sferzò l’aria. Naito stramazzò a terra, mentre un dolore accecante gli percorreva il fianco. Kagu-Tsuchi ritirò la katana, con sguardo furioso. «Un “umano”?! TU?! Tu sei quanto di più lontano ci sia dall’essere un umano!»

Naito gemette, premendosi una mano sul fianco e trovandolo caldo e bagnato. Tentò di sollevarsi, ma Kagu-Tsuchi lo colpì al volto con un calcio, facendolo gridare. Rimase supino, mentre nella periferia del suo campo visivo vedeva i mortali in armatura torreggiare silenziosi su di lui da un lato e i capelli fiammeggianti del dio del fuoco dall’altro.

La voce di Hachidori si sollevò, carica di preoccupazione. «Naito!»

Riuscì a drizzarsi, incrociando lo sguardo di lei, e le sorrise di nuovo. Nonostante l’avesse tradito, nonostante l’avesse usato, era stanco di provare rabbia. Se quella doveva essere la sua fine… se ne sarebbe andato in maniera dignitosa, con la testa alta, e un sorriso sincero. «Devi… andare avanti da sola, Hachidori. Promettimi… promettimi che troverai l’elisir. Promettimi che… che ci penserai tu, ad aiutare quelli come noi.»

«Naito…» sussurrò lei, prima che la voce le si incrinasse.

Udì un verso roco, gutturale. Kagu-Tsuchi digrignò i denti, ringhiando furibondo. «Hai tanta voglia di sorridere, Naosuke?» disse, sferrandogli un ceffone con la mano coperta di fiamme. Naito gridò e stramazzò a terra, sentendosi come se gli avessero iniettato del fuoco nel viso. Provò a rialzarsi sui gomiti, avvertendo la propria vita venire risucchiata via, secondo dopo secondo, dalla ferita al fianco.

«Tirate su quel bastardo!»

Lo afferrarono per le braccia e lo costrinsero a sollevarsi sulle ginocchia. Le piastrelle si bagnarono del suo sangue ed un tuono scosse il cielo all’improvviso, facendo tremare la terra.

«Come osi a paragonarti ad un umano?! Non sei umano, sei solo un abominio!» Kagu-Tsuchi avvicinò la mano alla cintura e gli strappò via la bisaccia. «Ho saputo che ti piace la lettura, mezzosangue. Ti dispiace se do un’occhiata?» Prese il Bushido e lo esaminò meticolosamente, ridacchiando. «Non ci posso credere. Non solo ti credi un umano, ma perfino un samurai.»

Naito spalancò l’occhio. «R-Ridammelo!»

Kagu-Tsuchi scoppiò in un’altra risata tonante. «Direi che in questo momento un libro è l’ultima cosa che ti serve.»

«Ridammelo…» rantolò Naito, irrigidendosi.

«Altrimenti? Che cosa mi fai?» Kagu-Tsuchi distese il suo ghigno. Dopodiché, il libro prese fuoco tra le sue mani. Naito inorridì. «NO!»

«Tenetelo fermo!»

I mortali lo afferrarono con presa salda, impedendogli di muoversi. Kagu-Tsuchi rovesciò il palmo, disperdendo la cenere del libro, e si avvicinò puntandogli la katana. «Non hai idea del disonore che mi hai portato, quando si è sparsa la voce che una mia sacerdotessa ti aveva messo al mondo. Pagherai per tutto quello che mi hai fatto, bastardo.»

Naito strinse i denti. Sentì l’occhio inumidirsi. Con la vista appannata, si accorse di Hachidori, rimasta immobile, alle spalle di Kagu-Tsuchi. La sua espressione era molto diversa rispetto a prima. Sembrava arrabbiata. Furiosa.

Ma non con lui.

La vide accarezzare il manico della wakizashi. Quando Naito capì cosa stava succedendo, era già troppo tardi.

Hachidori scattò verso Kagu-Tsuchi e la lama scintillò nelle sue mani, ad un palmo dalla schiena del dio. Ma lui fu più veloce di lei.

Con un solo movimento le conficcò la katana nel ventre, squarciandolo, trapassandole la schiena. Affondò la lama fino all’elsa e la sollevò da terra, impalandola. Un verso orribile scappò dalle labbra di Hachidori. Un fiume di sangue le colò dalla bocca, mentre entrambe le braccia le ricadevano a penzoloni lungo fianchi e la wakizashi precipitava a terra con un tonfo metallico.

«Schifosa mezzosangue! Che cosa credevi di fare?!» sbraitò Kagu-Tsuchi, prima di estrarre la katana con un gesto secco, facendo schizzare il sangue sulle mattonelle. Hachidori crollò in ginocchio, le mani premute sulla ferita, le labbra sporche e lo sguardo vitreo.

Per un secondo, il tempo sembrò fermarsi. Naito rimase paralizzato, senza fiato. Quando la vide accasciarsi su un fianco, il suo grido lacerò l’aria. Urlò il nome della ragazza con così tanta forza da sentire dolore alla gola. Volle correre da lei, ma un dolore lancinante lo colpì alla schiena. Abbassò lo sguardo e vide qualcosa spuntargli dal ventre: la lama bagnata di un’altra katana.

Boccheggiò, riuscendo a scorgere con la coda dell’occhio uno dei mortali in armatura che l’aveva trafitto. La spada venne ritratta e Naito crollò carponi, premendosi una mano sulla ferita che sanguinava copiosamente. Non riuscì più a respirare.

La voce di Kagu-Tsuchi esplose sovrastando il suo grido: «Guarda, Naosuke! Questa sarà la stessa fine che farai anche tu!» Afferrò Hachidori per la testa e la sollevò come un fantoccio, mostrandogli il volto pallido, la bocca schiusa e gli occhi vacui di lei. Le pupille si mossero ancora verso la sua direzione. Sembrò volergli dire qualcosa, ma non le scappò neanche un suono.

«Hachidori…» bisbigliò Naito. Aveva cercato di aiutarlo. Aveva cercato di aiutarlo… e Kagu-Tsuchi le aveva fatto quello.

«Mi assicurerò che tu non ami mai più, Naosuke. Mi assicurerò che tu non possa provare più nulla» rantolò Kagu-Tsuchi, lasciando andare Hachidori, che si riversò sul pavimento.

«Hachidori…»

Il dio sogghignò. «Non riesci proprio a dire altro?»

Nella sua mente, Naito rivide quell’uomo mentre uccideva sua madre. Rivide casa sua in fiamme. Pensò a tutto il dolore che gli aveva provocato. Pensò al fatto che, se non fosse stato per lui, non avrebbe mai incontrato Orochi. Non avrebbe mai fatto nulla di tutto quello che aveva fatto.

E non gli era bastato nemmeno quello. Aveva bruciato il Bushido. Aveva ucciso Hachidori. Gli aveva portato via tutto. E l’aveva fatto con quel ghigno odioso in faccia, come se provasse enorme piacere in tutto ciò.

«La senti, Naito? La senti la rabbia che scorre in te?» domandò Orochi nella sua mente, sogghignando, prima di diventare serio all’improvviso. «Usala. Sfruttala per diventare inarrestabile. Combatti, Naito.»

«Quando avrò finito con voi, darò la caccia ad ogni mezzosangue esistente.» Kagu-Tsuchi sollevò la katana. «La smetterete di inquinare il mondo con la vostra immonda presenza!»

Naito sentiva dolore al fianco, stava perdendo sangue dal ventre, ma non gli importava.

Niente aveva importanza.

«Muori, schifoso mezzosangue!»

La voce di Orochi esplose nella sua testa: «COMBATTI!»

La katana scese su di lui. Naito urlò a squarciagola. E tutto si tinse di rosso.

Qualcosa accadde. Non sapeva cosa. Non era chiaro. I sorrisi si capovolsero. Le espressioni divertite divennero di terrore. Grida terrorizzate si sollevarono. Vide del sangue sulle sue mani. Era suo, o era dell’uomo che aveva appena squartato?

Un corpo si accasciò a terra, dilaniato. Un altro lo seguì subito dopo. L’armatura non serviva a molto, se si era senza testa.

Tutto era una macchia indistinta. E allo stesso tempo, poteva percepire ogni cosa. Percepiva i fiotti di sangue che scivolavano dalla sua fronte. Percepiva i movimenti degli uomini che lo circondavano. Vedeva il loro sudore che gocciolava, sentiva i loro respiri, notava ogni fremito, anche i più impercettibili tremolii delle palpebre e le prime gocce di pioggia che cominciavano a cadere.

Le grida proseguirono. Udì qualcuno implorare per la sua vita. Con che coraggio potevano chiedere qualcosa di simile, dopo tutto quello che gli avevano fatto?

«Feccia mortale» disse una voce roca, ovattata e baritonale. Non l’avrebbe mai riconosciuta, se non fosse uscita proprio dalla sua gola. «Non valete niente.»

Una katana si avvicinò alla sua schiena, ma si voltò fulmineo e la bloccò con una mano. Strinse le dita sulla lama, tagliandosi, e la spaccò senza battere ciglio. L’uomo che aveva provato a trafiggerlo fece un’espressione di terrore puro, che rimase impressa sulla sua testa rotolante.

Il suo respiro divenne un ringhio. Gli sembrava di avere le mani più grosse. Non riusciva a tenere la bocca chiusa, come se non ci fosse più spazio a sufficienza per i denti.

I mortali caddero ai suoi piedi uno ad uno. Non riuscivano nemmeno a colpirlo e i pochi attacchi che andarono a segno rimbalzarono sul suo corpo senza neanche scalfirlo. Non potevano fermarlo. Nessuno poteva.

Da una parte, vedeva rosso, come se si trovasse di fronte ad una vetrata di quel colore. Dall’altra, invece, riusciva a vedere normalmente il cielo nuvoloso e il santuario grigio e silenzioso.

E poi, lo vide: arancione, fiammeggiante, con pennacchi di fumo che si sollevavano dal suo corpo. Kagu-Tsuchi era arretrato, il volto sfigurato da un’espressione attonita oltre che le cicatrici. L’armatura sibilava ad ogni goccia di pioggia che ci cadeva sopra.

Accanto a lui erano rimasti soltanto tre mortali. Dov’erano finiti tutti gli altri? Come avevano fatto a finire in quella situazione?

Non aveva importanza. Niente aveva importanza. L’unica cosa che contava, era la vendetta.

«M-Mio signore» disse uno dei mortali, con voce flebile. «Non… non possiamo… AGH!» La katana di Kagu-Tsuchi lo trafisse al petto all’improvviso. Gli altri due uomini gridarono di sorpresa, mentre il dio estraeva la spada e lasciava che il corpo cadesse a terra a peso morto. Si volto verso i suoi altri sottoposti, sogghignando, dopodiché uccise anche loro, sotto gli sguardi atterriti di entrambi e di quello disinteressato di Naito.

Cominciò a ridere, mentre gettava via l’ultimo corpo come un torsolo di mela ai porci. La spada si incendiò nelle sue mani, emanando forti bagliori, poi gliela puntò addosso. «I miei complimenti, Naosuke. Hai ucciso questa feccia inutile, ma ora voglio proprio vedere…»

L’urlo di Naito riecheggiò in tutto il santuario, smarrendosi nell’etere, così forte che le sue stesse orecchie non riuscirono a sopportarlo. Poi si fiondò contro il dio, che per un istante pareva aver perso la voglia di ridere.

Lo vide sollevare una mano verso di lui; una coltre di fiamme ne scaturì, ma Naito la evitò senza alcun problema. Alle sue spalle udì il boato delle mura del santuario che esplodevano. Continuò ad accorciare la distanza che c’era tra loro ed estrasse la katana, il cui manico sembrava più piccolo del solito.

Kagu-Tsuchi lo tempestò di fiamme, ma nessuna lo colpì: era troppo veloce, riusciva a vederle ancora prima che si riversassero fuori dal suo palmo. Balzò su di lui e mirò con la katana al collo, l’unico punto vitale scoperto dall’armatura. Sentì caldo all’improvviso. Vide la sua katana, il suo braccio, il suo intero corpo circondato dalle fiamme. L’aveva colpito.

E a lui non importò. Niente, niente, poteva fermarlo. Non si sarebbe fermato finché non avrebbe sentito Kagu-Tsuchi implorarlo di risparmiargli la vita. Avrebbe avuto la sua vendetta. Quel bastardo avrebbe pagato.

Non riuscì a raggiungere il collo; la katana cozzò contro quella di Kagu-Tsuchi, che muggì per lo sforzo. «Ma… ma che cosa?!» disse, prima che Naito roteasse, mulinando la spada verso il suo volto. Il dio deviò l’attacco e saltò all’indietro, allontanandosi mentre il ragazzo atterrava di fronte a lui, ancora in fiamme.

Non sarebbe fuggito ancora. Tutto quello sarebbe finito lì, in un modo o nell’altro, con lui a terra morto, o con lui in piedi sul cadavere di quel figlio di cagna.

«Come… com’è possibile?!» sibilò Kagu-Tsuchi. Naito emise un altro ringhio, poi scattò nuovamente. Azzerò la distanza in un istante e ancora una volta la katana sbatté con un assordante clangore contro quella di Kagu-Tsuchi, il cui sguardo mutò ancora una volta. Non sembrava più così sicuro di sé.

«Aspettavo questo momento da tanto tempo» rantolò Naito, prima di urlare di nuovo.

La pioggia batté su di loro mentre le katane si scontravano con ferocia, emanando fiamme e scintille che si disperdevano nell’aria. Naito sentiva il calore delle fiamme propagarsi su di lui, intenso e soffocante. O forse quel calore proveniva da dentro di lui. Kagu-Tsuchi non sembrava più forte come prima, tantomeno veloce. Sembrava perfino più basso. Come se anche lui fosse diventato un mortale come gli altri che aveva ucciso. Naito saltò e urlò a perdifiato, schiantando la spada con tutta la forza che aveva contro quella del dio, che fu costretto a piegare le ginocchia sotto il suo peso.

«Tu cadrai» disse ancora, cavernoso.

Kagu-Tsuchi digrignò i denti e lo allontanò facendo pressione con la katana. Sollevò di nuovo la mano per incenerirlo, ma Naito era già scattato. Le gocce di pioggia rimasero ferme accanto a lui per un istante. Subito dopo si ritrovò il volto del dio di fronte, che non riuscì a fare altro che spalancare gli occhi.

Uno di loro sarebbe caduto. E quel qualcuno non era Naito.

Gli conficcò la spada nel collo fino all’elsa. Un gorgoglio soffocato provenne da Kagu-Tsuchi, che stramazzò a terra con Naito sopra.

«Credevi che avresti trovato di nuovo un bambino spaventato, figlio di cagna?» sibilò Naito, con quella voce roca e possente. «Credevi che avrei avuto paura di te? Credevi che me ne sarei rimasto fermo dopo che hai distrutto tutto quello che avevo?!»

Kagu-Tsuchi non rispose. Era troppo occupato a dimenarsi per gli spasmi e ad affogare nel suo stesso sangue color oro.

Naito rigirò la katana, facendolo gorgogliare ancora più forte. «RISPONDI!» urlò, riversando tutta la sua collera sul dio. Gli aveva portato via tutto. Solo perché era nato.

Lo avrebbe squartato. Lo avrebbe fatto a pezzi microscopici e lo avrebbe gettato ai porci.

Sentì le fiamme esaurirsi. Aveva caldo. C’era odore di bruciato. Si accorse di avere i vestiti a brandelli e la pelle sotto di essi ustionata ed annerita. La pioggia continuò a scendere, mentre il crepitio delle fiamme tutt’attorno a loro continuò incessante.

«Hai ucciso mia madre. Hai ucciso Hachidori. Hai bruciato il Bushido. Pagherai. Pagherai per ciò che hai fatto» rantolò Naito. Estrasse la katana. Kagu-Tsuchi era un dio, era immortale. Non sapeva come ucciderlo. Ma avrebbe trovato un modo. «Finalmente… avrò la mia vendetta

Mentre si preparava a decapitarlo, il suo sguardo scivolò sul cortile. E per la prima volta riuscì a vedere bene quello che era successo.

Non c’era più un esercito di mortali, lì. C’erano soltanto cadaveri irriconoscibili, mutilati, sfigurati, fatti a pezzi in tutti i sensi. Isolotti di carne sopra laghi di sangue, mentre le pareti di legno del santuario erano coperte di fiamme che stavano consumando lentamente ogni cosa. Il suo sguardo scese su Kagu-Tsuchi, esanime, che aveva il collo squartato e gli occhi serrati.

Fu come se la sua mente avesse subito uno strappo. Smise di vedere rosso. Riuscì di nuovo a chiudere la bocca. La spada divenne più pesante nelle sue mani e un bruciore agonizzante cominciò a pervadergli il corpo, al quale nemmeno la pioggia sembrava riuscire a porre rimedio.

Rilassò le spalle e la katana scese lungo il suo fianco. Il respiro si fece pesante e il cuore rischiò di esplodergli nel petto.

Era… era stato lui. Lui aveva fatto tutto quello. Aveva fatto a brandelli quegli uomini. E aveva sconfitto un dio. Nella sua mente, Orochi lo guardò con una scintilla di malizia nello sguardo. «Hai visto, Naito? Non era difficile.»

«Uhhh…» Kagu-Tsuchi riaprì gli occhi, mentre il collo cominciava a rimarginarsi. «Tu… schifoso… bastardo… lurido mezzosangue…» sibilò. «Come hai osato… ferire un dio?! Come hai…»

Si interruppe quando Naito avvicinò la katana al suo volto. Anche se non si sentiva più invincibile come prima, poteva comunque colpirlo ancora, con tutta la forza che aveva, ed era sicuro che Kagu-Tsuchi l’avrebbe sentito.

«Vattene» sibilò Naito, con il fiato pesante. «Lasciami stare. Non cercarmi più. Mai più. O la prossima volta finirà molto peggio per te.»

Kagu-Tsuchi strinse i denti. «Credi davvero che te la caverai così, sporco mezzo…»

«VATTENE!» La voce di Naito si incrinò per la rabbia. «Lasciami stare! Non farti più vedere! E sta' alla larga dagli altri mezzosangue…» Avvicinò la katana al naso di Kagu-Tsuchi, che si ritrasse con un sussulto. Gli rivolse lo stesso sguardo spaventato che aveva visto decine, centinaia di altre volte, nei visi delle persone che aveva ucciso. «… hai capito? Sparisci.»

Il dio incrociò il suo occhio e non disse nulla. Sembrò accorgersi solo in quel momento dell’incendio che divampava che stava consumando tutto il santuario. A quel puntò, chiuse la bocca e il suo corpo cominciò a brillare di un’accecante luce arancione. Le fiamme lo circondarono e Naito saltò all’indietro prima di essere investito.

Vi furono una luce accecante, da cui Naito distolse lo sguardo, e un’altra esplosione, seguita da una vampata di calore. Le ustioni sul corpo del ragazzo si rianimarono, assieme alle sue ferite. La pioggia smise di scendere, per un istante. Dopodiché, Kagu-Tsuchi era svanito.

La pioggia riprese di nuovo a cadere. E Naito crollò in ginocchio. Rinfoderò la katana e si osservò le mani tremanti, i guanti consumati dalle fiamme, macchiati di sangue. Fece vagare di nuovo lo sguardo lungo il santuario. Le mura continuavano a crepitare, il fuoco aveva intaccato anche gli alberi e il ricettacolo con le preghiere dei visitatori. Neanche la pioggia sembrava riuscire ad arrestarle.

La vista di tutti quei cadaveri gli provocò una fitta di dolore più grande di qualsiasi altra avesse mai provato. Che cosa aveva fatto? Aveva ucciso quegli uomini. No… li aveva fatti a pezzi. Come una belva affamata.

Dopo tutto quello che era successo. Dopo Konnor, Edward e Miyamoto… aveva sterminato un esercito intero

Cominciò a tremare incontrollabile. Che cosa era successo? Come ci era riuscito?

Non riuscì più a reggere quella visuale. Sentiva di poter vomitare, disgustato da ciò che stava vedendo, da quell’odore nauseante e, soprattutto, disgustato da sé stesso.

Con tutti suoi buoni propositi, le sue buone intenzioni, il desiderio di cambiare… aveva finito di nuovo con il fare quello che Orochi aveva sempre preteso da lui. Era diventato un mostro.

E adesso? Che diamine avrebbe fatto?

«Na… ito…»

Quella voce flebile lo fece trasalire. Hachidori sollevò debolmente una mano. Naito si precipitò da lei. «Hachidori!»

S’inginocchiò e le prese il volto tra le mani. Un lungo brivido gli percorse il corpo. Era ancora viva, ma non sarebbe mai sopravvissuta. Il taglio nel ventre era troppo profondo, era pallidissima, e non sembrava nemmeno riuscisse a vederlo. La schiena di Naito fu colpita da uno spasmo. Abbassò la testa, stringendo i denti. «Perché… perché ti sei sacrificata, Hachidori? Perché...»

«Non… non potevo abbandonarti…» sussurrò Hachidori. Gli sorrise con le labbra intrise di sangue. «Mi… dispiace, Nato-kun…» Avvicinò la mano alla sua guancia, carezzandolo. Nonostante fosse gelida, nonostante la pioggia che batteva su di loro, Naito sentì comunque il calore di Hachidori avvolgerlo. «… ti ho… tradito. E imbrogliato. Ho… ho avuto quello che meritavo.»

«Hachidori…»

«Perdonami… Naito-kun. Non avrei… non avrei dovuto farlo. Non avrei dovuto… ignorare i tuoi sentimenti. Meriti… meriti meglio di così.» Una lacrima solcò la guancia di Hachidori. «… ai… ri…»

«Che cosa?» sussurrò Naito, con voce rotta.

«K-Kairi» boccheggiò Hachidori, prima di sorridergli di nuovo. «Mi… mi chiamo Kairi.»

Naito gemette di nuovo. «È… è un nome bellissimo…»

«Anche… Naosuke è un bellissimo nome. Non… non vergognarti… di quello che sei… sei… straordinario, Naosuke. Ricordatelo sempre.»

Altre lacrime scivolarono sulle sue guance. «Non sono straordinario… Kairi.» Naito abbassò la testa, incapace di ignorare quello che era appena successo. Aveva trucidato quegli uomini. Voleva cambiare le cose, voleva far capire al mondo che i mezzosangue non erano quello che tutti credevano, voleva… essere diverso. E invece si era comportato proprio come voleva Orochi. «Sono… sono un mostro…»

«Non sei un mostro… Naosuke. Un mostro… non si comporta come te. Tu… sei diverso. Tu… provi emozioni… emozioni pure. Devi solo… smettere di reprimerle.» Lo accarezzò di nuovo, distendendo quel sorriso. «Non… non lasciare che… che quello che è successo oggi ti segni per sempre … non rinunciare… ai sentimenti. Non rinunciare… a ciò che ti fa stare bene. Ridi, se vuoi ridere. Piangi, se vuoi piangere. Ama… se vuoi amare. Lo farai?»

Naito strinse i denti per il dolore al petto. Alcune lacrime cominciarono a scendergli dagli occhi. Cercò di ricacciarle, ma non ci riuscì. «Lo… lo farò» sussurrò.

«Me… me lo prometti?»

«Quando un samurai esprime un’intenzione… essa è già da considerarsi compiuta.»

Kairi riuscì a ridacchiare. «G-Giusto…» Gli asciugò le lacrime, tremando come una foglia. «Sii felice… Naosuke-kun. Te lo meriti.»

«Ka… Kairi…» bisbigliò ancora Naosuke, prima di chinare la testa. Un forte gemito gli scappò dalle labbra, mentre le spalle gli si alzavano e abbassavano contro il suo volere. Si sentì come quando aveva rivisto casa sua. Gli sembrò di sprofondare, schiacciato dal peso del mondo. Avrebbe voluto soffocare sotto la pioggia, svanire per sempre, senza lasciare tracce.

Perché si sentiva così? Kairi l’aveva tradito. L’aveva usato. Perché era così triste? Perché… non voleva perderla?

La mano di Kairi si separò dal suo volto. Ricadde a terra, accanto a lei. Chiuse gli occhi, con quel sorriso impresso sul volto.

«Ti… ti amo, Kairi» sussurrò, prima che la voce gli si incrinasse. «Ti ho… sempre amata…»

Non gli rispose. Non poteva più rispondergli. Naosuke prese il suo volto tra le mani, accarezzandola. «Addio… colibrì. Vola… vola libera.» Il dolore si amplificò nel suo petto. Si accasciò sopra di lei, non riuscendo più a contenersi. La sollevò, premendo la fronte contro la sua, bagnandole il viso di lacrime mentre la pioggia grondava su di lui.

Non aveva idea di quanto tempo trascorse così, piangendo. Sapeva solo che non credeva di poter più smettere. Non pianse soltanto Kairi. Pianse anche Akane. Pianse casa sua e tutto quello che aveva perso.

Non era riuscito a piangere davvero la morte di sua madre, a causa della sua fuga continua. Non era riuscito a piangerla mentre era con Orochi, perché non gliel’aveva mai concesso. Non era riuscito a piangerla dopo, perché si era presentato suo padre, che l’aveva quasi ucciso. Non era mai riuscito a tirare fuori davvero quel dolore dentro di sé. Quella volta, non ci fu nulla a fermarlo.

Doveva esserci lui al posto di Kairi. Avrebbe dovuto esserci lui al posto di Akane. Tutto quello che era successo… era stato solo per causa sua. Aveva coinvolto tutte le persone con cui era entrato in contatto. Aveva fatto del male a chiunque si fosse avvicinato a lui. Non avrebbe dovuto essere ancora vivo. Non era giusto.

Pianse finché non esaurì le lacrime. Si sentiva vuoto, consumato. Allo stesso tempo, tutto il dolore provato si era affievolito. Era ancora presente, ma meno intenso. Si passò una mano sopra la guancia, per asciugarsi le poche lacrime rimaste, e prese una lunga boccata d’aria. Ora, con la mente più lucida, realizzò quanto futili fossero stati i pensieri di poco prima. Aveva detto a Kairi che non avrebbe permesso a quello che era successo di segnarlo e l’avrebbe fatto.

Non aveva idea di come, ma l’avrebbe fatto. Avrebbe mantenuto la parola, come un vero samurai, come il Bushido gli aveva insegnato.

Un rumore si alzò in aria all’improvviso. Una specie lungo lamento, fastidioso e acuto. Dapprima basso e distante, cominciò a farsi sempre più forte. Naito sollevò lo sguardo, accorgendosi di diverse luci, rosse, gialle e blu che balenavano nel cielo ormai notturno. Il rumore si fece così forte da diventare assordante.

Naito strinse i denti. Non aveva idea di cosa stesse succedendo ma non aveva alcuna intenzione di rimanere lì per scoprirlo. Afferrò Kairi sotto la schiena e le ginocchia e la sollevò. Non l’avrebbe lasciata lì.

Cominciò a correre, la sorgente di quel rumore pareva ormai alle sue spalle. Le luci tingevano il cielo, ad intermittenza, e in mezzo al frastuono e al ticchettio della pioggia udì alcune voci, di uomini. Spiccò un balzo e arrivò sopra il tetto del santuario, da dove poté scorgere decine e decine di quelle automobili mortali, dalle quali uomini vestiti di nero e blu si stavano riversando fuori per correre dentro al santuario. C’era anche un altro mezzo, rosso, gigantesco, pilotato da mortali che avevano indosso lunghi cappotti gialli e marroni. Alcuni di loro sollevarono un tubo e iniziarono a spruzzare acqua contro le pareti ancora in fiamme, per domare l’incendio.

Osservò tutta quella folla riversarsi nel cortile del santuario e si ritirò in mezzo alle tenebre della sera calante. Non voleva essere nei paraggi quando si sarebbero accorti di quello che era successo lì.

Ne aveva abbastanza di quel luogo. Ne aveva abbastanza di Tokyo, dei mortali, di tutto quanto.

Con il favore della notte fuggì dal Santuario Meiji prima che qualcuno lo vedesse, con un macigno nello stomaco, le gambe distrutte, le ferite che ancora sanguinavano e lo spirito più a brandelli che mai.

 

   
 
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