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Autore: Cladzky    19/09/2021    1 recensioni
Il signor Shiel ha finalmente l'occasione di confrontarsi con il suo più grande mito letterario, l'ormai anziano poeta Machen. Purtroppo per lui non sembra essere granché disposto a farsi turbare la giornata da un completo sconosciuto, ma l'insistenza li porterà infine a dialogare, portando però la discussione su temi ben diversi dalle poesie del maestro. Relatività, equazioni, colori, ignoranza, realtà, ormoni e molti altri sono i punti toccati dal flusso di coscienza che è la bocca di Machen.
Genere: Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Signor Machen...”

“La prego, non mi turbi” Replicò l’altro, ancora masticando il suo cheeseburger con voracità, occhi chiusi, guance piene e viso inebriato dal sapore.

“Volevo solo dirle che sono un suo grande ammiratore.” Shiel si torutò le mani, stringenone una nell’altra, ma avrebbe voluto mordersele, come faceva il suo ammirato con il panino, da quanto era in tensione.

“Mi fa molto piacere.” Replicò l’altro prima di mandare giù l’ultimo pezzo, accompagnato da un gran risucchio di Coca Cola senza zuccheri. Quando staccò la bocca, con uno schioppo e sospiro di goduria dalla cannuccia, Shiel, credette che il maestro letterario di fronte a lui stesse per dire qualcosa di importante. Invece si limitò a poggiare un gomito sul tavolo, relativo pugno a sostegno del mento e lo fissò intensamente con i suoi occhi annoiati. “Vuole un autografo?”

“Beh, lo apprezzerei, ma non sono qui per questo” Rise, ma avrebbe voluto sprofondare.

“Allora temo di non poterla aiutare” Scosse la testa, si stiracchiò e si lasciò andare lungo il divanetto imbottito, sprofondandoci dentro, mani dietro la nuca e gambe ben distese sotto il tavolo.

“Tutt’altro” Si affrettò a correggerlo l’uomo, camminando dal suo fianco all'altro lato del piccolo piano quadrato, ingolfato di piattini in plastica e vassoi di polistirolo. Si afferrò alle estremità mobile e lo guardò con due occhi strabuzzati “Lei è l’unico che può aiutarmi!”

“E in cosa posso esserla d’aiuto, signor…?” Alzò un sopracciglio quello, senza scomodare altra parte del corpo.

“Shiel, Matthew Phipps Shiel” Replicò pronto l’altro, così contento che ora il suo maestro lo sapesse. Meditò s cosa aggiungere, se parlare di sè o meno. Optò, piuttosto, per lustrargli un po’ le scarpe, nella speranza di non farlo scappare via ancora “Leggo da anni le vostre poesie”.

“Me ne compiaccio. Vuole forse che gliene dedichi una?” Sorrise.

La proposta lo lasciò senza fiato.

“Lei lo farebbe…?”

“No, che idiozia!” Sbraitò il signor Machen, alzandosi dal tavolo poggiandovi sopra le nocche e allontanandosi con la grazia di un gorilla.A capo chino e mani in preghiera, Shiel lo supplicò di fermarsi, piantandoglivisi davanti, ma arretrando alla cieca quando vide che lo scimmione non si fermava e rischiava di investirlo.

“La prego, mi stia a sentire.”

“Leggo i suoi articoli sul Times, signor Shelly…

“Shiel” Questi sbatté con la schiena contro la cassa. Machen lo spintonò via, per pagare il conto all’imperturbabilmente afflitto commesso.

“Se vuole un’intervista me lo dica chiaramente” Sbuffò il poeta, poggiando una buona somma in banconote e allontanandosi senza aspettare il resto.

“Macché intervista” Esclamò, tallonandolo, il giornalista, quasi sputasse quella parola “Io voglio che lei mi insegni a scrivere.”

“Prenda carta, penna e si levi dal cazzo” Sbucarono oltre le porte di vetro, sul marciapiede sporco di buste e bicchieri di fronte il fast food, nel cuore della città scintillante. Un sole, coperto di nubi, purpureo nonostante fosse mezzogiorno, si levava sui palazzi, ben più luminosi d’insegne neon, lampade alogene, schermi a diodi, i fasci dei proiettori puntati contro il ventre grigio del cielo, non carico di pioggia, ma diossido di nitrogeno, monossido di carbonio, ossido di zolfo, solfuro di diidrogeno, idrocarburi quali metano, propano, benzene, polveri sottili, i figli degli impianti di raffinazione della ghisa, che cuoce negli altiforni, dei locali climatizzati che vomitano anidride carbonica, dai tubi di scarico di macchine strozzate nel traffico, dalle scie degli aeroplani che squarciano l’atmosfera in costante migrazione verso nuovi nidi d’asfalto, dalle esalazioni del triossido di zolfo, spremuto per formare fusti di acido solforico, della naftalina, sublimata dagli armadi, agli insetticidi e diserbanti, sparsi sui campi come semi, il fumo al retrogusto di nicotina di sigari e sigarette, un miscuglio senza calderone in cui cuocere se non la terra stessa. Discutere era molto difficile ora, in un’ora di punta arrogante nel suo premere  il clacson, nel suo ruggire di motore, i suoi schiamazzi, i suoi litigi, le sue risate, le sue grida di dolore e la sua eco di cantieri.

“Voglio scrivere sul serio io” Shiel afferrò il divo per la giacca in pelle che ancora stava issandosi addosso, levandogliela dalla schiena, ancorata alle braccia e strappagliandola, aprendo uno strappo insanguinato di lana. Troppo eccitato per rendersene conto, insistette a parlare, senza mollare la presa “Voglio scrivere poesie che muovano le persone”.

“Ma guardate che avete fatto, imbecile!” Furibondo, sfiatato, alzò il capo d’abbigliamento verso il molestatore e gliela buttò addosso “L’avevo comprata ieri per seicento dollari. Dovrei denunciarmi e farvene un comprare un’altra. Voi potete pure tenere quello straccio ormai”.

“Signor Machen” Il giornalista si tolse la giacca dal viso e la studiò. Apparte quello strappo a una spallina era del tutto intonsa, un paio di passaggi con l’ago e nessuno si sarebbe accorto di nulla.

“Volete che vi ringrazi per la recensione che avete lasciato alla mia ultima antologia? Beh, grazie al cazzo che l’avete trovata brillante, gentaglia come voi troverebbe rivoluzionario anche un errore di battitura.”

“Lei non mi sta ascoltando, dico bene?” Stavolta fu Shiel ad infuriarsi, gettando fra le cartacce quel pezzo di cuoio nero “Le ho detto che voglio imparare a scrivere poesie!”

“E perché diavolo lo chiedete a me? Non avete fatto le elementari?”

Shiel ingoiò la propria saliva e quasi soffocò dall’improvviso imbarazzo. La rabbia gli era sparita d’un baleno e si rese conto di star litigando con un vecchio poeta verso cui, invece, doveva ora fargli una dichiarazione d’amore.

“Perché voi siete la mia più grande ispirazione. Durante la mia vita mi sono visto morire Bradbury, Saramago e mi sono promesso che mai più mi sarei lasciato sfuggire l’occasione di apprendere dai geni contemporanei prima che passino alla storia.”

L’artista si ravanò veloce i coglioni.

“E perché dovrei farlo?”

“Se sono i soldi il problema…” Shiel rovistò velocemente in tasca, cacciando fuori il portafoglio, ma si trovò sventolato davanti al muso uno ben più fornito del suo.

“No che non lo sono, si figuri se faccio il sofista.” Rimise a posto il tutto e poi si placò, comprendendo di avere a che fare con un disperato piuttosto che un violento. Proseguì verso il parco, immaginandosi di venire pedinato dall’esasperante individuo, e così fu. Provò a farlo desistere a parole, che di denunce ne aveva fatte abbastanza. “Il problema è che non voglio insegnare e basta, altrimenti lo farei da tempo. Con lei poi, che messaggio darei? Che basta scocciarmi abbastanza per convincermi a prendere uno studente? No, per carità, creerei un inopportuno precedente a cui tutti i miei ammiratori si appellerebbero. A lui sì e noi no, capisce cosa intendo?”

“Certo ma…” Avrebbe voluto ribattere ancora ma si rese conto di non avere argomentazioni contrarie. Potè solo abbassare la testa. “Mi spiace averla disturbata, ma ci tenevo a…”

Gli apparve la strada e alzò lo sguardo. Senza rendersene conto, stavano attraversando una strada gremita di persone, scalpicciando bitume pitturato di bianco come un Karo etiope, insieme a decine di altre paia di suole sintetiche. Corpi caldi, sotto le vesti profumate di sudore, sgomitavano per guadare il fiume nero prima che i musi da coccodrillo delle utilitarie fossero sciolti dal domatore elettronico che brillava di sangue.

“Bah, immagino che dovrei essere grato di avere un pubblico così appassionato” Meditò il signor Machen, rassettandosi la mise “E forse, quando anch’io ero appassionato, avrei fatto lo stesso. A vederla sembrate me, quando incontrai Arthur C. Clarke per la prima volta, ma raggiunta la mia posizione cominciate a perdere il senso di reverenza per certi individui. Una volta al loro livello vi rendete conto che non c’è alcun livello, ma solo gente che anticipa le mode per il pubblico.”

“Ma i vostri scritti non sono pura moda. Io li adoro, non possono essere così mondani, ci dev’essere di più!”

“Ovviamente chi segue una moda non dura a lungo, ma chi la crea è a cavallo. Ho sempre avuto una certa predilezione per capire di cosa ha bisogno il pubblico prima che glielo chieda.” Oltrepassarono i cancelli del parco, arruginiti di verde e seguirono un viottolo in ghiaia giallastra, fra aiuole e abeti. Le cicale spaccavano l’aria. Machen scosse un braccio, come a scacciarne una, ma era solo un gesto di stizza. “Dio cane, qui finisce che un’intervista ve la faccio davvero.”

“La prego, non la smetta.”

“E invece la smetto eccome!” Gracchiò il poeta, mettendosi a sedere su una panchina in ferro battuto di fronte il laghetto. L’acqua, di uno scuro appena blu, era quasi ferma, con una superficie di vetro, sporco dai cumuli di foglie morte. Un’impressionista lo aveva considerato un così bel soggetto da farci un quadretto, qualche metro più vicino la riva. “Se avete così tanta voglia da discutere di poesia perché non l’adoperate, piuttosto, per scrivere?”

Shiel non si considerò abbastanza importante per sedergli accanto e rimase in piedi a gesticolare.

“Non posso cominciare di punto in bianco, scriverei castronerie. Vorrei almeno un parere da parte vostra per cominciare al meglio.”

“Che razza di problemi che vi fate. Io ho cominciato d’autodidatta e sembra abbia funzionato.”

“Avrete avuto anche voi le vostre ispirazioni, come voi lo siete per me.”

Machen gli rise in faccia, con uno sghignazzo da tosse cronica.

“Certo, anch’io ho avuto i miei Shakespear e Milton, ma dai lavori degli altri si impara ben poco. Se anche ti leggessi la Bibbia per intero non avresti una minima percezione di dio, perché stai solo leggendo l’interpretazione altrui, che vale solo per chi l’ha scritta. Gli esseri umani mettono su carta quello che provano con i loro sensi, e i sensi di ciascuno sono diversi, non esiste gente che provi le stesse cose” A questo punto del discorso, con gran disappunto di Machen, Shiel si sentì autorizzato a sedere anch’egli sulla panchina, quasi uno scolari che seguisse la lezione. Il poeta roteò gli occhi e riprese, sbuffando. “Guarda la realtà che ti sta attorno, ecco tutto. Scrivi quello che provi, come fosse un diario. La gente fa l’errore di credere che poetare sia fatto per mezzi matematici, misurando bene le parole, scegliendo la lunghezza, il suono e il ritmo di una frase, inserendo significati criptici, sostantivi austeri e riferimenti arcaici. Quelle sono buffonate per darsi un’aria di importanza. La vera poesia è un getto libero, un orgasmo, non è strutturata, è solo un resoconto, è incomprensibile per tutti meno che sè stessi.”

“Eppure le vostre opere mi toccano, riesco a capirle.”

Machen rise ancora e gli diede una pacca sulla spalla.

“Perché quello che spedisco al mio editore non è poesia, solo equazioni.”

“Io non capisco.” Balbettò Shiel. “Si spieghi meglio.”

“Ancora spiegazioni, non sei mai soddisfatto.” Machen lo pugnalò con l'indice rinsecchito, affondandoglielo sulla lana del maglione. “Ora lasciami, ho cose più importanti a cui pensare.”

“Che cosa?” Ma l’artista non rispose subito, troppo distratto dalle cosce di una jogger che sfrecciò davanti la panchina.

“Contemplazione, per che altro verrei al parco a fare alla mia età? Ora sciò, me la disturbate.” Machen incrociò le braccia.

“Se voi mi spiegaste meglio giuro che me ne vado.”

“E quando sarete soddisfatto, si può sapere? E chi mi assicura che domani non tornerete con altre domande?”

“Per favore”.

“E va bene, ma sappiate che la prossima volta che ci vedremo sarà la volta buona che vi guadagnate un ordine restrittivo.” L’anziano sospirò a braccia conserte. “Come dicevo, le mie opere ufficiali sono equazioni. Prima ho detto che chi crea una moda campa benone e per creare una moda bisogna sapere come sono fatte le persone per toccarle o indurle a credere di essere toccate. Dimentica le baggianate diffuse da certi empirici, l’uomo non è una macchina poi così complessa, perché alle basi di tutti ci sono sempre le stesse basi biologiche. Il nostro cervello reagisce agli stimoli e rilascia di conseguenza ormoni nel resto del corpo. La felicità, la tristezza, la rabbia, l’invidia, non sono altro che stati del nostro umore, indotti dal rilascio di specifici ormoni. Ebbene, io ho sintetizzato certe tecniche nei miei scritti, delle equazioni appunto, che mi permettono di indurre i cervelli dei miei lettori a rilasciare gli ormoni che desidero.”

Shiel si trasse indietro, sbigottito, mano sulla gote sbiancata.

“Impossibile. Voi mi prendete in giro. Semplici parole non possono avere questo effetto.”

“Ma certo che possono. Sembra impossibile, ma pensa a un contesto diverso. Voi, deduco, avete stimoli sessuali, dico bene?”

“Sì, ma cosa c'entra con…?”

“La smetta di essere sgomento e mi lasci spiegare, non è quello che vuole?” Machen si prese la libertà di sbattere il palmo della mano sulla fronte del suo interlocutore. Shiel subì in silenzio. “Il nostro cervello, una volta maturo, è impostato a provare attrazione in determinate cose, sia esso il corpo umano, o una sua parte specifica, un animale o anche una macchina e ciò è detto feticismo. L’industria pornografica non andrà mai in fallimento, perché la richiesta di feticismi non si esaurirà mai, essi producono ossitocina, un bisogno primario dell’uomo e l’uomo ha anche bisogno di buone letture. Così, come un pornografo, io somministro ai miei lettori la chiave per rilasciare i loro ormoni, attraverso un processo matematico.”

“Ma avevate detto che la poesia non era un processo matematico”.

Un altro schiaffetto da parte del signor Machen.

“E ho anche detto che quello che mando in stampa non è vera poesia. Lei ha presente la teoria cromatica di Goehte?”

“Non particolarmente.”

“Lo immaginavo. Vedi, i colori, disposti in un certo modo, possono ingannare i nostri occhi e anche indurci in determinati stati d’animo. Guardi le raffigurazioni sacre, gli spettacoli teatrali, i cartoni animati. Personaggi e ambientazioni sono rappresentati con determinati colori per suggerire cosa deve sentire lo spettatore. La madonna è rappresentata di azzurro, perché simbolo di purezza, come un cielo senza nuvole; la rabbia è rossa, come il sangue e Apollo è d’oro, come il sole e quindi ardente e forte. I nostri occhi fanno associazioni immediate che neppure si registrano nel nostro pensiero, ma sono involontarie. Questo vale anche per gli altri sensi, ovviamente. Qualunque uomo vi dirà che Una notte sul monte calvo suona come la monumentalità del male e che L’uccello di fuoco giunge alle orecchie come la danza di una fenice. Così sono le mie equazioni, unioni di parole che, disposte con un certo metodo, inducono le persone a emozionarsi nella maniera che voglio. Serotonina, dopamina, adrenalina, tutti le hanno e io so come sbloccarle.”

Shiel rimase ammutolito un momento e si guardò spaesato attorno. Una visione piuttosto cinica dell’uomo, ma pareva fondata. Eppure non voleva accettarla, perché avrebbe significato la morte della stima per il suo maestro, della poesia, se non di dio stesso. Per anni, il suo più grande fondamento di ottimismo in un piano irrazionale e idealista a cui l’uomo potesse accedere era sempre risieduto nella credenza che le emozioni non potessero essere semplici fenomeni chimici, ma qualcosa di inspiegabile. Spiegato il miracolo della gioia non c’era più alcun miracolo e forse neanche la gioia stessa. Sentire una tale spiegazione del cervello umano, quasi fosse una macchina, lo avviliva. Si sarebbe potuto dire che lo deprimesse, ma non era neppure una triste delusione, quanto più uno stato di apatia. Possibile che tutti quei sorrisi, lacrime e sospiri fossero solo risposte automatiche agli imput esterni? Gli sembrava che ogni suo sogno, successo e fallimento perdesse di importanza. Viveva in un gigantesco gioco dell’oca.

“Ci dev’essere qualcos’altro” Si ripetè, più a sè stesso che al poeta “La vita non può finire qui”.

“Non si abbatta in questo modo” Machen si lisciò i capelli. Shiel scattò la testa nella sua direzione.

“E come posso tornare alla vita di tutti i giorni sapendo che è solo un gioco? Che ogni mio problema è solo dovuto alla mancanza del giusto ormone? A questo punto che senso ha faticare tanto per amare, divertirsi, stare in salute, quando basterebbe iniettarsi della giusta sostanza per tornare a stare bene? Ogni lutto, perdita, sconfitta non è una tragedia, ma solo un rilascio di droghe del nostro cervello che ce la fanno sembrare tale. Anche ora, io sento di disperarmi, ma so ormai che non mi dovrei preoccupare, è solo il mio cervello che mi sta sedadno in risposta a uno stimolo. Nulla ha più valore.”

“Esatto.” Machen si alzò, sgranchendo le vecchie ossa cigolanti. “E infatti, i nostri più grandi maestri, in questo campo, sono i bambini.”

Il poeta puntò il dito. Shiel seguì quella traccia fino a vedere un gruppo di infanti, sotto i dieci anni, giocare alla cavallina e saltare la corda.

“Certo, per loro è facile non annichilirsi.” Meditò ad alta voce l’inconsolabile. “Ancora ignorano che ogni cosa che fanno non ha vere conseguenze, che è tutta una messinscena solo per scatenare gli ormoni giusti nei nostri cervelli. Ogni loro amore estivo non ha alcuno scopo se non scaturire abbastanza vasopressina, i loro mostri nel buio rilasciano solo cortisolo e, se non li avessero affatto, rimarrebbero inermi anche di fronte alla morte.”

“Il considerare l’ignoranza come l’unica forma di felicità è una filosofia di Lovecraft, ma io verto più per Socrate.” Mirarono il verde prato, al di là del laghetto, dove stavano quelle figure così spiritate. Era così fuori luogo in mezzo all’architettura sistematica della grande città in cemento e acciaio, parevano scimmie inconsce di essere in gabbia. Certo, dovette constatare osservando il loro rincorrersi, che l’uomo, anche se cerca di negarlo, resta sempre nella stessa famiglia dei bonobo. L’artista proseguì. “L’ignoranza è sì una culla di conforto, ma limita le nostre visioni.”

“Visioni per cosa?” Gracchiò Shiel. “Per cosa rimane lottare?”

“I bambini sono molto bravi a pretendere che la realtà sia diversa, nevvero? Ma guardali, ora giocano a guardie e ladri. Sanno benissimo di non essere nè l’uno e l’altro, ma per loro è preferibile fingere che sia così.”

“E quindi io dovrei fingere che non sono i miei ormoni a controllare il mio umore.” Chiese piccato il suo ammiratore.

“Precisamente. L’uomo assorbe la realtà e la sintetizza. Se tu non conosci una cosa essa non esiste per te e anche se la conoscessi puoi sempre far finta che non esista. I sogni ne sono la dimostrazione: cavalcare un pegaso ti porterà felicità, mentre il demonio ti farà sudare freddo. Nessuna delle due creature esiste realmente, sono solo proiezioni mentali, ma per il cervello, che si inganna da solo, sono tangibili quanto la panchina su cui sediamo. E allora, visto che noi siamo i padroni assoluti della realtà, cambiamola come ci aggrada! Diciamo pure che non sono gli ormoni la fonte delle emozioni, ma qualcosa di più alto, trascendente, che sia la poesia o come la vuoi chiamare!”

“Ma sono solo inganni, lo dici tu stesso”. Shiel non si raccapezzava e andava a tormentarsi inutilmente i capelli.

“Da un punto di vista oggettivo sì, ma fortunatamente siamo incapaci di sperimentarlo. Se ogni cosa passa dai nostri sensi perché per il nostro cervello sia reale o meno, fingere di vedere un elefante volare è perfettamente giusto, perché anche se nessun altro lo sperimenta all’infuori di noi che ci importa? Noi non siamo nessun’altro se non noi stessi e la realtà è la nostra, non di tutti, ognuno ha la propria.”

“Credo vi stiate contraddicendo.”

“Potete crederlo e allora sì, per voi mi sarò contraddetto, ma dal mio punto di vista ho perfettamente ragione e siete voi lo stupido. Non è meraviglioso?”

“E insomma” Cercò di chiudere la faccenda Shiel, la cui testa stava ormai girando. “Se io volessi scrivere poesie da dove accidenti devo partire?”

“Comportarvi come un bambino, ecco tutto. Rendete l’universo il vostro parco giochi, fate finta di scrivere poesia ed esso lo sarà davvero, ma solo per voi. Se invece volete scrivere equazioni dovrete fare lo sforzo, come me, di guardare le cose dagli occhi degli altri. Non è facile, ma il mercato è questo.” Machen si allontanò, non prima di rivolgere un’ultima raccomandazione al giornalista. “Questo è quanto. Non voglio mentire, è stato catartico parlare con voi, ma se vi vedo un’altra volta giuro che vedrete molto da vicino un’aula di tribunale. Arrivederci.”

Si congedò con un cenno del capo ch’era un piccolo inchino, voltandosi e celando dietro la schiena un sorriso da felino. Si diresse verso l’impressionista che aveva appena finito la propria opera. Si scambiarono qualche parola sottovoce. Parevano vecchie conoscenze. Infine ci fu una stretta di mano e una rendita di cartamoneta alla pittrice. Il signor Arthur Machen si allontanò con un gran ghigno e una tela all'acquerello ancora fresca. Il signor Matthew Phipps Shiel guardò tutto con sguardo d’apprensione, come dovesse individuare un particolare codice in ogni movimento di quell’uomo. Quando ormai il poeta era sparito lungo il viale in ghiaia, diretto all’uscita, si riprese e scattò anche lui dalla panchina per rincorrerlo. Che lo avesse preso in giro? Che gli avesse rivelato la più grande verità? E se anche fosse stata una verità, secondo la logica del suo mito, poteva inverocchè trattarsi di una stupidaggine. Ma niente da fare, il poeta era sparito e così ulteriori spiegazioni. Guardandosi alle spalle anche l’impressionista aveva preso le sue cose aveva lasciato le tende. Vagò verso il lago con il pensiero rapito in macchinazioni che non riusciva a disincastrare. Sulla sponda terrosa, lambita dall'acqua, vide in quest’ultimo un riflesso bianco. Alzò lo sguardo e un pallone da calcio gli finì nelle mani. Sorpreso, diresse la testa verso un coro di voci all’altra riva. Il gruppo di bambini di prima era rimasto e gli pregava, in un brusio indistinto, di rimandargli indietro la palla. Senza pensarci troppo lo fece, prendendo rincorsa e spedendolo con un pallonetto sopra lo specchio. Atterrò giusto alle spalle dei ragazzi, che si buttarono a ricnorrerlo, ringraziandolo distrattamente, allotanandosi per riprendere la partita da qualche parte dove il loro giocattolo non potesse rischiare di affondare. SI levò il vento e con esso il canto di quelle voci bianche. Una stupida canzone, popolare di recente, che lui aveva sempre detestato ogni volta facesse capolino dalla radio, eppure, stavolta era diverso. Si diresse all’uscita, contando le rondini che vagavano in cerchio e il polline nell’aria, fischiettando anche lui quel motivetto. Quella canzone era diventata la sua nuova poesia preferita.

   
 
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