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Autore: Fiore di Giada    22/09/2021    3 recensioni
Ad un tratto, da una strada laterale , apparve un motociclista, in sella ad una Ducati rossa.
Genzo sbarrò gli occhi, sorpreso. Impallidì.
Poi, strinse le mani sul volante e premette il piede sul freno. No, doveva impedire una tragedia!
L’auto, tuttavia, non si fermò e investì la Ducati.
La moto cadde e il corpo del motociclista venne sbalzato a diversi metri di distanza.
L’energia dell’impatto piegò il metallo del paraurti e il parabrezza, con un forte scricchiolio, si infranse.
Il braccio destro del giovane si piegò in un angolo innaturale e l’osso squarciò la pelle.
Poco dopo, l’atleta nipponico si accasciò sul volante, quasi privo di conoscenza. Era dunque finita?
Sarebbero morti insieme?
La BMW, con un lungo, fastidioso stridio, si fermò, lasciando lunghi solchi sull'asfalto, simili a nere ferite.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Genzo Wakabayashi/Benji
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Genzo, con fatica, sollevò le palpebre.
Una densa tenebra, come la volta d’un sarcofago, sovrastava il suo sguardo, mentre il suo corpo era inerte, quasi pietrificato da un incantesimo.
Cauto, provò a stringere la mano a pugno.
Una fitta di dolore, implacabile, trapassò la sua spalla.
Genzo sbarrò gli occhi, aprì la bocca e un flebile rantolo morì sulle sue labbra, simile al lamento d’un animale agonizzante.
Ansimò e strinse gli occhi, cercando di frenare le lacrime, che minacciavano di rigargli le guance. Quella sofferenza, come una stilettata, gli aveva ricordato l’accaduto.
Era stato coinvolto in un incidente terribile ed era sopravvissuto.
Il forte dolore, che si irradiava lungo tutte le sue membra, era un segnale di vita.
Eppure, non riusciva a sentirsi sereno.
Il suo istinto lo avvertiva di un evento tragico, malgrado fosse sopravvissuto.
Che cosa era successo? Perché sentiva una tale, orribile emozione?

Sbatté le palpebre e l’oscurità si dissolse.
Si accorse di essere disteso su un letto d’ospedale, collocato in una stanza rettangolare.
Una lampada a neon, appesa al soffitto, illuminava d’una luce gialla l’ambiente e una finestra si apriva sulla parete di destra, rivelando un giardino alberato, immerso nella luce del sole primaverile.
Immersa nel suo braccio sinistro, era una flebo, da cui gocciava soluzione fisiologica
– Ben svegliato, bell’addormentato! – urlò una voce maschile, vibrante di gioia.
Il giovane girò la testa e, seduto accanto al suo letto, scorse Hermann Kaltz, mentre, appoggiato al muro, era Karl Heinz Schneider, le braccia incrociate sul petto.
Per alcuni istanti, il giovane nipponico fissò sui suoi amici uno sguardo confuso, stralunato. Malgrado le loro espressioni ferme e controllate, scorgeva sui loro visi l’ombra della tensione.
Ed era ben differente dall’emozione di una partita.
– Che cosa è successo? Mi sembra di essere qui da molto tempo. E non capisco perché… – domandò, sorpreso.
Un mezzo sorriso sollevò le labbra di Karl.
– Sei stato dieci giorni in stato di coma farmacologico. Hai riportato una frattura esposta al braccio destro e ha preso infezione. Hai avuto anche febbre alta. – rispose Karl, pacato. Quando aveva ricevuto la notizia dell’incidente del suo amico nipponico, si era sentito travolgere da un’ondata d’angoscia.
Aveva creduto di perderlo.
Quasi era crollato, vedendolo inerme, abbandonato sul letto, circondato dai macchinari della terapia intensiva.
Si era affezionato a quell’ombroso giovane nipponico e quei dieci giorni erano stati un crudele logorio.
L’ansietà aveva reso difficoltoso il suo gioco, perché faticava a trovare la concentrazione.
Per fortuna, si è ripreso., pensò. Certo, era debole e provato, ma era vivo.
Con un’adeguata cura, avrebbe potuto tornare a giocare a calcio.
Irrigidì la mascella. Certo, era sopravvissuto, ma quel terribile incidente non era rimasto privo di conseguenze.
E Genzo doveva conoscere la verità.
Ma come avrebbe potuto dirgliela, senza annientare il suo spirito?

Genzo, accortosi del mutamento d’umore del compagno, sussultò. In quel momento, un solo pensiero poteva turbare la calma granitica del suo amico tedesco.
E il ricordo di quell’orribile evento, prima nebuloso, si spiegava nella sua mente, come una lugubre pellicola.
L’incidente aveva coinvolto lui e un motociclista e a quel giovane era toccata la sorte peggiore.
Ricordava bene l’incoscienza del suo corpo, a stento animata dal debole battito del cuore.
Gelidi brividi attraversarono la sua schiena, come scosse elettriche, e la sua mano sana si strinse attorno al lenzuolo del letto. Che cosa era accaduto a quel motociclista?
Era vivo? Era morto?
Un nodo gli strinse la gola. No, non poteva essere accaduto.
Entrambi dovevano essere sopravvissuti a quella violenta collisione.
Certo, erano feriti, ma dovevano essere vivi.
Entrambi dovevano riprendere a condurre le loro esistenze.
Cauto, girò la testa e il suo sguardo cupo, lucido d’affanno, si fissò in quello ceruleo di Karl.
– Per favore, dimmi cosa è successo. Devo saperlo. – mormorò, supplichevole.
Il giovane calciatore tedesco provò a parlare, ma le parole rimasero imprigionate, come se le sue labbra fossero coperte di colla. Aveva sempre creduto che la verità rendesse liberi, ma, in quel momento, non riusciva a proferire parola.
L’angoscia dell’amico gli rendeva arduo un simile compito e sentiva la gola stretta, come se gli avessero applicato una garrota.
– E’ morto. – intervenne Hernann, lapidario.
Karl lo fulminò con lo sguardo e, a stento, trattenne un ringhio di furore.
Un pallore spettrale si diffuse sul viso di Genzo e ansiti sempre più rapidi sollevarono il suo petto.
Strinse la mascella e chiuse gli occhi, cercando di frenare le lacrime. Non c’era più speranza.
Si era macchiato d’omicidio.
Le sue mani erano rosse di sangue.
Con la sua macchina, aveva distrutto una famiglia e distrutto le speranze e i sogni d’un innocente.
Brevi singhiozzi, ad un tratto, straziarono il suo petto e, d’istinto, girò la testa dalla parte opposta.
– L’ho ucciso… L’ho ucciso… – balbettò. Avrebbe dovuto essere più reattivo, come era sui campi di calcio!
– Ehi, guarda che tu non hai colpa. Sarebbe morto in ogni caso! – affermò Hermann.
– Usciamo. Genzo, se hai bisogno di qualcosa, non esitare a chiamarci. – intervenne Karl, con tono imperioso. La reazione di Genzo era limpida.
Lo sconcerto e il dolore l’avevano annientato e desiderava rinchiudersi nella solitudine, per non rivelare a nessuno la sua pena.
Il suo desiderio di solitudine e riservatezza meritava rispetto.
Perplesso, il centrocampista seguì il capitano tedesco.


Percorsero alcuni metri e si fermarono davanti ad un distributore.
– Ti sembra il caso, Kaltz? – lo aggredì Karl. Con quelle parole, prive di qualsiasi delicatezza, Hermann si era confermato un completo idiota.
Genzo era appena uscito da un danno potenzialmente mortale e la notizia della morte di quello sfortunato motociclista lo aveva annientato.
Aveva visto negli occhi del suo compagno la tenebra del rimorso.
– In un modo o nell’altro, lo avrebbe saputo. E nutrire speranze irrealistiche gli avrebbe fatto ancora più male.– rispose Hermann, piccato. Non voleva provocare dolore ad una persona da lui rispettata e ammirata, ma la menzogna gli sembrava un insulto all’intelligenza del portiere.
Non era stupido e si era ben accorto del disagio di Karl.
Si passò una mano tra i corti capelli biondi. In quei giorni, per loro assai duri, erano andati in onda servizi giornalistici vergognosi, che dipingevano Genzo con i colori dell’infamia.
Davano di lui un ritratto di ricco annoiato e cinico, assolutamente lontano dalla realtà, che aveva investito un motociclista sfortunato per il puro piacere della velocità.
Oltre al dovuto procedimento in tribunale, lo attendeva un delirante processo mediatico.
I mezzi di comunicazione di massa si erano assunti il ruolo di giudice, giuria e boia.
Sentì un accesso di nausea montare alla bocca, come un fiotto di veleno. Come poteva la gente essere tanto stupida?
Eppure, avevano avuto modo di conoscere la limpidezza di Genzo, ben celata dalle sue maniere ruvide.
– Karl, c’è un altro problema. – mormorò il difensore.
Con un cenno della testa, l’attaccante della nazionale tedesca lo invitò a continuare.
– A causa della setticemia, non poteva andare a testimoniare in tribunale. Adesso la situazione è cambiata e dovrà farlo. Ma, in quelle condizioni, non è in grado di scegliersi un avvocato. – spiegò.
Karl, a stento, trattenne una risata cinica e amara. Nel suo stato attuale, Genzo non era in grado di creare un pensiero semplice.
La sua mente era dominata da un rimorso cieco e si macerava nel tormento.
– Sì, hai ragione. E penso sia il caso che ci pensiamo noi. – affermò.
Hermann corrugò le sopracciglia, perplesso.
– Perché? Pensi che la sua famiglia o lo staff della nazionale giapponese non si preoccuperebbero per lui? – domandò.
– No. Anzi, sono sicuro che non si tirerebbero indietro pur di aiutarlo. Ma il diritto giapponese e quello tedesco non sono uguali. Non del tutto, almeno. – rispose, pacato. Non metteva in dubbio la sollecitudine della famiglia Wakabayashi e della nazionale nipponica, ma preferiva affidarsi ad un legale teutonico, ben addentrato nell’ambiente giudiziario.
Un avvocato nipponico, per quanto esperto e abile, avrebbe potuto essere ingannato e il loro amico e rivale aveva bisogno della migliore assistenza.
– Capisco. Non perdiamo tempo. – affermò Hermann.
Karl annuì e i due giovani si avviarono verso l’uscita dell’ospedale.




   
 
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