Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Rosa Marina    22/09/2021    1 recensioni
«Come ti chiami Cadetto?»
«Nanashi E-basta» rispose il ragazzo dagli occhi incredibilmente verdi semi celati dalla lunga frangia.
«Molto bene, Cadetto Nanashi E-basta, sei pronto ad offrire il tuo cuore per il popolo Eldiano e per la libertà?»
«Lo sono » rispose il ragazzo, mentre la mano stretta a pugno raggiungeva il suo cuore.
Fece un passo avanti mentre pronunciava un solenne «Shinzou wo Sasageyo»
Quel giorno soffiava una lieve brezza ed i suoi capelli corvini brillarono mossi dal vento mentre sollevava lo sguardo rivolgendolo verso il palco delle autorità.
Dei presenti, oltre ai sopravvissuti del 104mo corpo Cadetti, erano rimasti in pochi a ricordare l’aspetto di un giovane cadetto che sembrava aver fretta di morire, di nome Eren Jeager. Tra questi Rico Brzenska che rammentava chiaramente i suoi singolari occhi verdi. Ricordava distintamente anche sua sorella adottiva, (che a lei e suoi compagni non era sfuggito fosse anche la sua innamorata), una fanciulla dai tratti somatici caratteristici e serici capelli corvini, quindi, appena il Cadetto pronunciò il suo giuramento, non potè non notare l’incredibile somiglianza tra il giovane in piedi difronte a lei e il ricordo che aveva di Eren Jeager e Mikasa Ackerman
Genere: Drammatico, Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Armin Arlart, Levi Ackerman, Mikasa Ackerman, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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- Questa storia fa parte della serie 'Shingeki no Kyojin Chronicles'
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Correva l’anno 864. L’ultimo decennio dal termine della guerra aveva visto una Paradise Island rilanciata sia economicamente che militarmente, industrializzata e politicamente attiva. Le alleanze con i popoli del Continente avevano permesso al rinnovato Impero di Eldia di svilupparsi in breve tempo e poter ricominciare. Il nuovo governo investì risorse in più settori oltre a quello militare, come l’istruzione e la sanità, l’agricoltura e l’edilizia e le nuove generazioni che sia affacciavano verso il domani avevano molte più possibilità di scelta sul come affrontare il futuro rispetto a quelle che ebbero i loro genitori. Molti giovani sognavano di poter, una volta terminati gli studi, raggiungere il Continente, del quale conoscevano la situazione socio-politica attraverso le principali testate giornalistiche che mettevano la popolazione di Paradise Island al corrente di ciò che avveniva al di là del mare.

Negli anni che seguirono il termine del conflitto, la Regina Historia ordinò, inoltre, più di un censimento che venne eseguito da un nuovo e compatto Corpo di Gendarmeria capitanato da Hitch Dreyse, volto a riunire il più possibile le famiglie disperse. Molti bambini che si trovarono all’orfanotrofio poterono così riabbracciare anche dopo anni, almeno un parente ed in parecchi casi anche uno o entrambi i genitori. Alcuni di loro riuscivano, posti difronte a delle fotografie, vagamente a ricordare i volti famigliari, in particolare i più piccoli quello della mamma. Per altri invece queste persone parevano estranee e ci volle tempo perché si abituassero. Alcuni poi non sapevano cosa fosse questa “mamma” che sentivano spesso chiamare piangendo dai loro compagni più grandi.

Col passare dei mesi l’orfanotrofio, che pullulava di fanciulli senza una casa, andò lentamente svuotandosi quasi del tutto. Oltre ai bimbi che provavano la gioia di riunirsi alla famiglia, c’erano quelli che venivano adottati mentre i più grandi, una volta raggiunta l’età del consenso per lo più si arruolavano come Cadetti nel nuovo esercito paradisiano o si sposavano dando origine a nuove famiglie numerose e garantendo in questo modo all’isola di Paradise di aumentare demograficamente in modo esponenziale.

Tra coloro che ancora vivevano nell’orfanotrofio che ora, rimodernato e reso più accogliente, aveva più l’aspetto di una casa famiglia, vi era un ragazzino ci circa sette anni dai penetranti occhi verdi e una ribelle chioma corvina. Portava una lunga frangia che gli celava in parte lo sguardo.

Quel giorno era seduto su un tronco del giardino e stava giocherellando con una foglia d’erba. Nessuno lo chiamava mai per nome, in realtà tutti si rivolgevano a lui con l’epiteto “senza nome” tanto che lui stesso si era ormai persuaso che quello fosse il suo modo di chiamarsi. Quella mattina, una ragazzina più o meno sua coetanea che si trovava da sempre in quella casa con lui e che ad essere sincero gli era anche molto simpatica, era salita in automobile con una donna bellissima che le somigliava molto. Quando era scesa dall’auto la sua amica le era corsa incontro con le lacrime agli occhi e la donna si era chinata per stringerla a sé, piangendo anche lei. Quando lui e l’amica poco più tardi si salutarono lui le chiese chi fosse quella donna. Lei gli rispose «la mamma».

 

Mamma…

Aveva già sentito questa parola quando era piccolo all’orfanotrofio pronunciata da molti bambini mentre dormivano. Un giorno provò a chiedere a qualcuno che cosa significasse e un bimbetto gli indicò la giovane dai capelli biondi che veniva ogni giorno a giocare con loro, effettivamente la bambina che la accompagnava sempre e che solo qualche tempo dopo scoprì chiamarsi Ymir, si rivolgeva a lei sempre chiamandola “mamma”. Si persuase quindi che una “mamma” fosse quella donna bionda e non ci pensò più almeno fino al giorno in cui, qualche tempo dopo parlando con la piccola Ymir, non venne a scoprire che di mamme ce ne sono tante e ognuno ha la sua, «lei è la mia mamma!» gli spiegò Ymir, indicando Historia che la salutava sorridendo «tu hai la tua!»

Una mamma tutta sua! Questa scoperta lo sconvolse non poco, e dov’era?

 

Quel giorno, stava riflettendo su una cosa che aveva notato solo la mattina osservando la tenerezza con cui la mamma della sua amica la stava guardando. Istintivamente il suo pensiero era corso alla giovane donna dai capelli neri che, da sempre, veniva a trovarlo. Era stata da lui anche qualche giorno prima e avevano trascorso insieme l’intera giornata facendo un pic nic e raccogliendo fiori per abbellire la cucina dell’orfanotrofio. L’aveva da sempre chiamata “M” e non si era mai domandato il perché, non fino a quel momento.

La settimana a seguire, quando “M” venne a trovarlo, era un giorno grigio e piovoso, quindi rimasero in casa, questo favorì la conversazione. Lei gli chiese come andavano gli studi e se avesse dei progetti per il suo futuro, sapeva che aveva una cotta per la ragazzina, poco più grande di lui che se n’era andata la settimana precedente, ma le erano evidenti anche il suo carattere risoluto e la sua inclinazione a proteggere i più deboli.

 

«Perchè “M”?» le chiese lui a bruciapelo trafiggendola con lo sguardo.

«Co...come? Rispose lei confusa sbattendo le ciglia.

«Perchè mi hai insegnato a chiamarti “M”? sta forse per “Mamma”? Tu sei mia madre?”

A quella domanda così diretta Mikasa si sentì mancare, anche se mantenne la sua naturale compostezza rendendo il suo sguardo uno specchio impenetrabile agli occhi scrutatori del ragazzino.

Per un istante (dal momento che lo aveva praticamente capito da solo) pensò di rispondere in modo affermativo rivelando al bambino tutta la verità. Sentiva il suo sangue, quello degli Ackerman pulsarle nelle tempie mentre con la mano si accarezzava il polso fasciato e valutò per un istante la possibilità di sbendarlo e mostrare il marchio degli Azumabito a suo figlio, ma poi difronte a quegli occhi verdi che le parlavano solo di libertà, decise altrimenti.

«Mikasa» rispose in un soffio.

«Che?»

«”M” sta per “Mikasa”, il mio nome».

 

 

 

   
 
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