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Autore: time_wings    23/09/2021    0 recensioni
[In revisione]
Da… un capitolo:
“Ci siamo trovati sotto un cielo – certo, era simulato, ma questo conta poco – e ti avrei raccontato la storia più bella del mondo, quella che nessuno si prende mai la briga di raccontare perché la tranquillità e la pace forse non fanno la fama. Peccato che, al crescere della gioia, cresceva la più complessa e particolare delle emozioni: la fiducia.
Questa storia è tragica e il mio più grande rimpianto resta quello di averci creduto.
Forse, semplicemente, per noi non c’era speranza."

Questa storia, come molte altre, parla di una grande amicizia, di un amore nascosto, di un fratello abbandonato, di difficili addii. Certe cose nascono alla stazione di un treno, altre finiscono nello stesso posto. Dove ci porteranno? Be', avanti.
O… la storia di come “alla fiera dell'angst per due soldi un malandrino mio padre comprò”.
Genere: Angst, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: I Malandrini, Lily Evans, Marlene McKinnon, Regulus Black | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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33. Il tempo che ci resta

 







Ottobre, 1981

Il sole era sporco di grigio e filtrava putrido attraverso gli intagli nella tapparella, facendosi largo oltre le tende in un bagliore appena accennato sulla moquette. Sopra le loro teste, la pioggia ticchettava insistente, bussando sul tetto come aghi di cielo pronti a fendere e distruggere il loro segreto.
James sbatté le palpebre e sollevò il capo quanto bastava per permettere solo all’avambraccio di liberarsi. Poi poggiò nuovamente la testa sul bicipite e guardò Lily, addormentata e in penombra, a qualche centimetro da lui. Lasciò scivolare una mano tra i suoi capelli, li mosse appena perché la luce ne rivelasse riflessi nuovi e osservò le labbra appena schiuse, come attorno a una parola dolce ancora intrappolata nella gola. Arrotolò un ciuffo di capelli ramati attorno all’indice e guardò la spirale che aveva creato smantellarsi non appena la lasciò andare sul cuscino.
Era una cosa che faceva, guardarla dormire, perché era anche una cosa rara. C’era un mondo diverso, dietro le sue palpebre, un universo che forse era addirittura peggiore di quello in cui vivevano, ma che almeno poteva cambiare solo con un pensiero.
Era una cosa che faceva anche lei, guardarlo dormire. James lo sapeva perché qualche volta si era svegliato con una mano di Lily che gli accarezzava una guancia, o con un dito, delicato come una piuma, che cercava di sciogliere il nodo di tensione tra le sue sopracciglia.
“Che hai sognato?” gli chiedeva quando apriva gli occhi e la metteva a fuoco all’istante, come se avesse fatto parte del suo dormire.
“Che vivevamo tutti in un fienile in Olanda” rispondeva a volte. “Che Sirius comprava un cavallo e lo chiamava Elvendork” replicava altre, in un sussurro. “Che la terra era fatta di gomma da masticare e camminavamo rimbalzando” ammetteva ridendo rauco altre ancora.
Ma James era spento.
Non divorava più il mondo solo con uno sguardo, non dominava più i cieli in groppa a una scopa, non camminava più per i corridoi della scuola come se avessero portato il suo nome.
James era spento. Non si era spento. Spegnersi presupponeva una scelta, una presa di posizione. James era spento perché l’avevano spento, chiuso in una cella strepitosa, perché era con Lily e Harry, ma pur sempre una cella.
Lasciate un uccello in una gabbia con lo sportello aperto e a questo sembrerà solo di essersi messo al sicuro, chiudete lo sportello e non ci sarà fibra del suo corpo che non desidererà di scappare.
Quella mattina rubò qualche minuto dai sogni di Lily. Aveva un fascino che non credeva si sarebbe mai trovato ad ammirare se non a cent’anni, con la morte che soffiava sul collo. Sembrava avere tre anni in meno, l’età che aveva quando si erano messi insieme. Non era cambiata molto. Le lentiggini erano sempre nello stesso posto, la cicatrice sbiadita e invisibile non si era mossa dalla guancia. La prova di quei tre anni stava nel riflesso nei suoi occhi, nel modo in cui la luce rimbalzava e colpiva le sue pupille, nella maniera con cui le sopracciglia si abbassavano sulla curva di un pensiero e gli angoli della bocca si piegavano verso il basso. Con quella prova, James si ricordava che in quei tre anni si erano sposati, avevano avuto un figlio ed erano stati condannati a una cosa più meschina della morte: la sua fuga.
“Buongiorno” sussurrò Lily, concedendosi un respiro profondo, gli occhi ancora chiusi.
La prova di quei tre anni non stava nel riflesso nei suoi occhi, realizzò James quella mattina, perché anche così Lily aveva di nuovo ventun anni.
La prova di quei tre anni stava nel suono che facevano i sogni quando venivano infranti.
“Buongiorno” la voce di James sorrise.
Lily aprì gli occhi per non perderselo, perché ne valeva sempre la pena. “Harry dorme?”
James annuì, felice che quel silenzio fosse solo loro. “Mi sono procurato del cioccolato.”
“Ha un anno, James, e poi noi non possiamo uscire di casa” replicò Lily, la voce infiacchita dalla sonnolenza, ma sorrideva.
“E quindi?” il ragazzo sciolse quell’abbraccio a metà e lottò contro le coperte. Quando fu libero, si sporse oltre l’orlo del letto e raccolse da terra un secchio. Lo scosse perché i dolci al suo interno rivelassero la loro presenza con un fruscio, poi si voltò a guardarla e sorrise come un matto. “Lo faremo in casa. È la notte di Halloween!”
Lily alzò gli occhi al cielo, ma non riuscì a reprimere un sorriso.
“Dolcetto o scherzetto?” domandò lui, facendo ondeggiare le sopracciglia divertito.
“Non puoi fare alcuno scherzetto!”
“Oh, Lily” il sorriso sincero di James scivolò su uno furbo. “Stai parlando con il re degli scherzi, ho sempre un asso nella manica.”
Si sporse in avanti e le rubò un bacio più lungo di quanto aveva inteso all’inizio.
“E poi” continuò, sfilandosi con disinvoltura la maglietta del pigiama, “Halloween è sempre dalla parte di un malandrino.”

***

Settembre, 1979 

La Hope Valley si trovava sul confine a nord-est del Derbyshire e aveva un paesaggio da mozzare il fiato. Era tutta prati verdi, monti e cespugli di lavanda: stringhe viola che facevano capolino nel prato come spettatori intransigenti ma in un certo modo rassicuranti. Il sole di giugno filtrava tra fili d’erba color paglia e si lasciava tagliare da cime che sembravano allontanarsi, man mano che ci si avvicinava.
L’aria, da quelle parti, era rarefatta.
Non era l’altitudine, era più il sentore di essere sull’orlo di qualcosa.
Sarebbe stato un posto delizioso in cui venire a fare un gita. In un’altra vita lui, il resto dei Malandrini e le ragazze si sarebbero avventurati per quei prati verdi, sempre più in alto, a giocare a trovare il punto più panoramico da cui osservare la vallata. Avrebbero impacchettato sandwich di pollo in stupide carte colorate e si sarebbero sentiti come la compagnia dell’anello, a camminare e vagare e camminare ancora.
Ma Remus fu costretto a scartare di lato, rapido. Un incantesimo gli sfiorò meschino un orecchio, in un sibilo simile a una frustata.
Era giorno, pomeriggio inoltrato. Forse erano le sette, ma il sole era già prossimo a tramontare.
Avevano iniziato a sparare da lontano, colpi lenti e arcuati come bengala la notte di Capodanno. Non una gentilezza degli avversari, neanche per idea, più un’ostentazione delle loro possibilità, un grido al retrogusto saccente di: ‘guarda che so fare!” Non un avvertimento, no, una minaccia.
Erano lì perché l’Ordine stava facendo il suo lavoro egregiamente, perché erano a caccia dei luoghi, in giro per l’Inghilterra, in cui il Signore Oscuro doveva aver nascosto una tanto discussa e poco confermata arma segreta. Se la conferma era da qualche parte, ragionò Remus, era in quell’attacco, nella maniera con cui i Mangiamorte stavano impedendo loro di scendere di quota.
Calò il silenzio, uno di quei veli dalla trama spessa e asfissiante. Era un silenzio sospeso, quello che sostava su una corda di violino un attimo prima che incontrasse il crine di cavallo di un archetto. Era un silenzio completo, quello che riempiva una stanza e lasciava così poco spazio per respirare che pareva di galleggiare nel cotone. Era un silenzio totalizzante, quello che si incontrava, magico, nell’occhio del ciclone.
Quattro figure ammantate scivolarono via dalla curva di una collina, la lavanda frusciò muta a ritmo coi loro vestiti.
Poi fu rumore.
Tutti attaccarono. Getti verdi e rossi e blu si mischiarono al giallo di scintille e mantelli turbinanti. Remus udì Alice gridare e scagliare un getto viola. Non aveva idea di cosa fosse ed era troppo occupato a schivare e attaccare per accertarsene dalle condizioni del suo avversario.
Era ingiusto, ovviamente. Lo era sempre. Erano in inferiorità numerica. Dieci contro cinque, per la precisione, ma il fatto era che il Signore Oscuro, in questa fase, puntava sul numero e non sulla qualità dei suoi guerrieri. Puntava a un esercito, a un mare di gente vestita e marchiata di nero, a dei sostenitori che lo vedessero come un dio, il simbolo della paura, la fine del mondo, qualunque cosa che emanasse potere e sembrasse forte abbastanza per ridisegnare il mondo magico.
E quindi dieci contro cinque non era impossibile.
Remus sorrise, poi tirò un incantesimo ad ampio raggio e stordì due dei suoi avversari. Agitò la bacchetta e attirò a sé le loro. Li guardò negli occhi quando le spezzò e gliele lanciò contro con una violenza di cui, da ragazzo, aveva sempre avuto paura.
“Lily, serve una mano?” domandò gettando un’occhiata nella sua direzione. Qualcosa nelle tenebre nel cielo preannunciava rinforzi. Non i loro, però.
“Ma ti pare? Ce la…”
Tutt’a un tratto, gli avversari rimasti in piedi indietreggiarono e si arrestarono a una distanza che faceva sembrare tutte quelle figure ammantate in piedi su una collina un rito di iniziazione, più che una battaglia. Nel tempo in cui i ragazzi si scambiarono occhiate confuse, un altro seguace si avvicinò lentamente a loro, affiancandosi agli altri.
Remus lanciò un’occhiata di sottecchi a James, perché lo sentì inspirare ed espirare profondamente. Capì cos’era perché gli entrò nelle vene e si diffuse come veleno fin sulla punta delle dita.
Era paura, nella sua forma più annichilente.
Non era un altro seguace. Non era neanche un seguace.
James attaccò.
Senza cerimonie, senza attendere tutte quelle stupide elucubrazioni che finivano sempre per costare la vita ai cattivi nei libri.
L’avversario respinse l’attacco come se fosse stato marmellata colata per errore sulla sua camicia pulita: sdegno e noncuranza si scontrarono e poi si fusero in un solo gesto elegante.
“Ci si inchina prima, ragazzo. Sapevo che la qualità dei vostri insegnamenti fosse drasticamente calata, ma non credevo che si fosse estesa anche alle buone maniere” parlò il Signore Oscuro.
James se ne infischiò, e questa volta anche Lily, Alice e Frank. Attaccarono tutti e quattro come guidati da un’intesa che Remus doveva essersi perso.
Prima che se ne rendesse conto, Remus stava di nuovo al centro di getti caleidoscopici e sibili che sussurravano solo morte e dolore. Non sapeva dove colpiva, mentalmente non teneva il passo, ma il suo corpo si muoveva per lui e non doveva governarlo.
“Andiamo, andiamo, andiamo” sussurrò in una preghiera a Sirius, Fabian e Gideon. Scartò di lato ed evitò per un pelo un impatto con un Mangiamorte che, per lo slancio a vuoto, cadde a terra e attaccò dal basso in tempo record.
Poi un’esplosione a valle attirò l’attenzione dei nemici. Remus gongolò per un attimo di inappropriato orgoglio, perché il piano era suo.
Lord Voldemort rivolse uno sguardo furioso ai suoi cinque avversari, poi si umettò le labbra secche con un gesto rapido della lingua.
Prima che i ragazzi dell’Ordine potessero attaccare, i Mangiamorte e il loro Signore si ritirarono, scomparsi nel nulla e rimpiazzati da aria carica ancora della loro magia.

Erano i primi giorni difficili di un’estate che stava per cedere il posto all’autunno. Quella breve battaglia nella Hope Valley, nel settembre del 1979, fu la terza e ultima volta che Lily e James e Frank e Alice combatterono contro Lord Voldemort, incontrando le condizioni di una profezia non ancora pronunciata. Poi i tempi si complicarono e l’Ordine adottò approcci più tattici.
Nel buio di una stanza in un cottage tra Manchester e Londra, dieci anni e un numero vertiginoso di cicatrici dopo, Remus si chiese egoisticamente cosa sarebbe successo se al posto di Lily o James avesse combattuto chiunque altro, quel giorno. Se un dolore a una caviglia, una ferita precedente, un’altra missione avessero potuto cambiare le loro vite o se avessero cambiato invece la profezia.
Quanto di quello che era accaduto era una scelta e quanto, invece, era destino?

***

Settembre, 1981

“Abbiamo poco tempo.”
Sirius si fece strada in casa di James e Lily con la mascella serrata. Abbandonò il cappotto sull’appendiabiti e si passò nervoso una mano tra i capelli.
“Non ce ne serve tanto in ogni caso” lo informò James. Aveva un’aria rilassata, ma a un occhio esperto non poteva sfuggire la rassegnazione.
Peter, seduto sul divano e dritto come un fuso, aveva tutto l’opposto di un’aria rilassata. Sirius lo guardò come se avesse voluto prendergli le misure, ma James sembrò non farci caso.
“Silente ci ha spiegato tutto, dobbiamo solo eseguire l’Incanto Fidelius e poi…”
E poi cosa? Ci salutiamo?
“Remus dov’è?” domandò Lily all’improvviso. Se ne stava appoggiata al ripiano della cucina come a supervisionare. Sembrava la versione terrificante e adulta delle loro dinamiche scolastiche.
“Non lo so.”
James scosse la testa. “Secondo me ti sbagli, dovrebbe essere qui, dovrebbe sapere.”
“Meno siamo e meglio è comunque, no?” ribatté Sirius, un velo di rabbia gli oscurava il tono.
“Io mi fido di tutti voi” confesso James, cercando il suo sguardo.
Sirius abbassò gli occhi, Lily si guardò i piedi. Nessuno vide il colorito abbandonare per sempre la faccia di Peter Minus.
“Sono felice di sentirtelo dire,” iniziò Sirius, teso. “Perché non sarò io il Custode Segreto.”
Lily soffocò una risata nel naso. “Non ti fidi neanche più di te stesso? Tu hai perso la testa, nell’ultimo anno.”
“Una volta capito dell’incantesimo non ci metteranno molto a fare il collegamento. Giochiamo d’astuzia. Possono farmi quello che vogliono, ma non possono arrivare a voi se si concentrano sul farmi parlare quando non sono io il Custode Segreto.”
James aggrottò la fronte. “Silente ha detto che il segreto non può essere estorto in ogni caso, che, se il Custode parlasse sotto tortura, non funzionerebbe.”
“Fidati di me, per una volta…”
“Mi sono sempre fidato di te, ma non ha senso!”
“Non conosciamo le loro armi, per quanto ne so potrebbero usare la Pozione Polisucco, diventare te e farmi parlare per sbaglio. Oppure un ricatto, un controincantesimo di cui non sappiamo niente, non ne ho la più pallida idea! Ma se il Custode Segreto è Peter…”
“IO?”
“Tutto questo non ha senso, tu…”
“Ha ragione” si intromise Lily, a braccia conserte. Allacciò lo sguardo a quello di Sirius e annuì lentamente. “Avete fatto esplodere fuochi d’artificio e Caccabombe per sette anni e la McGranitt quasi dimenticava ogni volta di punire anche Peter. È più sicuro per tutti. Ovviamente se anche lui è d’accordo…”
Tre paia d’occhi si posarono impazienti su Peter. Lui mormorò un’insensatezza, poi annuì e alzò lo sguardo in quello di James. “Va bene per me. È… è davvero meglio per tutti.”
Sirius annuì, pratico e nervoso come se fosse stato reduce da una maratona di caffeina. “Questo scambio resta tra noi quattro, non deve uscire da qui.”
James annuì, Sirius poteva vedere l’idea prendere forma anche nella sua testa e convincerlo di secondo in secondo.
“Allora io vado.” Sirius riprese il suo cappotto dall’appendiabiti e diede loro le spalle, mentre raggiungeva la porta. Si appoggiò con una mano alla maniglia e la tirò in basso, poi si voltò. “Ci vediamo dall’altra parte, ragazzi.” Sorrise si allontanò da Godric’s Hollow.
 
***

Ottobre, 1981
 
La fotografia era un po’ storta su un lato e dava l’impressione di stare su una barca. Pareva che le onde la trasportassero da un lato all’altro del muro e sembrava che qualcuno avesse scattato una fotografia di una fotografia conservata sottocoperta.
James guardò se stesso e i suoi amici cadere per la milionesima volta nel cortile della scuola. L’avevano scattata i primi di aprile del loro quinto anno, quando Sirius aveva deciso di modificare una macchina babbana e darle qualcosa di magico. James era stato entusiasta di quella foto. Era cresciuto tra scope volanti, aste di legno che mandavano scintille e coriandoli incandescenti, ma nulla gli era parso un miracolo quanto l’amicizia e la nascita di suo figlio. E quella fotografia era la prova della prima.
Quando la patina bianca che nascondeva la foto si era diradata, svelando loro quattro che cadevano sulla collina, a James per poco non era caduta la mandibola dalla sorpresa. Gli altri non l’avevano capito mica, che cosa significava!
Allora noi dall’esterno siamo così.
Si era guardato allo specchio tante volte, aveva guardato qualcuno dei suoi amici guardarsi allo specchio, ma c’era qualcosa di magico nel guardare i fili che lo legavano agli altri con tanta chiarezza.
James inclinò il viso su un lato, seguendo la direzione della fotografia storta, poi alzò un dito e la raddrizzò.
Lily spuntò alle sue spalle proprio in quel momento e gli poggiò una mano su una spalla. “Sei stanco?”
James rispose con un grugnito d’assenso, continuando a fissare la fotografia senza vederla, con la testa ancora storta.
“Mi sembra di impazzire” confidò lei. Aveva fatto scivolare la mano sul suo petto e aveva appoggiato il mento sulla spalla da cui aveva cominciato. James continuò a guardare dritto davanti a sé, da qualche parte in quello strappo temporale. “Vi adoro entrambi, dico sul serio. Ma non ricordo se la torta di mele l’abbiamo fatta ieri o un mese fa. Ho pulito due volte il piano cottura perché credevo di averlo fatto una settimana fa, l’ultima volta. Prima volevo mettermi a leggere, poi mi sono ricordata che il libro l’ho finito ieri.”
James annuì attraverso un sospiro.
“Ho finito le cose da raccontarti il terzo giorno. Quando vedo un uccello sul davanzale mi sembra di avere in mano un tesoro: qualcosa di cui parlare a cena. Conservo la storia tutto il giorno, me la ripeto in testa per renderla il più avvincente possibile, impaziente di venirtela a dire. Ti amo, ma se mi racconti di nuovo di quella volta in cui ti si è incastrato il caschetto rosa in testa mi butto giù.”
“Pensavo di avertela detta…”
“Solo un paio di volte” intercettò Lily, annuì sulla sua spalla. “Non è così.”
James non sorrise.
“E noi siamo qua, a guardare gli uccellini, sparare stelle filanti la domenica, leggere e cucinare torte di mele, in attesa che ci vengano a dire chi è il nuovo morto. Intanto il tempo passa tutto uguale e quelle foto ci ricordano che non era questa la vita che quei ragazzi immaginavano per loro, quando sognavano di lasciare la scuola.”
James dimenticò la contemplazione distratta della fotografia e rischiò uno sguardo preoccupato oltre la sua spalla. Di nuovo, non sorrise.
“Mi sembra di guardarci invecchiare prima del tempo, a volte.” Confessò Lily così, senza peso. James tornò a guardare la foto e arricciò il naso un paio di volte.
Quel genere di tristezza era diventato una costante. Da quando avevano iniziato a nascondersi e a fare sul serio a riguardo, da quando avevano salutato Peter, Sirius e tutto il contatto umano che non fosse reciproco, avevano iniziato ad avere quei momenti a distanze sempre più ravvicinate. All’inizio scappavano l’uno dall’altra, si proteggevano per non dover subire due volte lo stesso dolore, una volta avevano anche finito per urlarsi contro.
Poi avevano imparato ad aiutarsi.
“Facciamo una torta di carote? È una settimana che mi va.”
“Oggi è Halloween. Non volevi festeggiare?”
James annuì, sulle labbra un broncio ironico.
Lily ridacchiò. “Ti prometto che la facciamo domani, però.”
“Oh, Lily” lui si voltò finalmente a guardarla. La circondò con le braccia e alzò gli occhi al cielo. “Non vorrei stare chiuso in casa con nessun altro, credimi.”
Le lasciò un bacio veloce sulle labbra, poi si scostò.
“È ora della lezione di scopa di Harry.”
James fece per andare di sotto, ma Lily lo afferrò per un braccio. “Ha un anno. E questa casa non è un campo da quidditch.”
“Queste due cose già le so.” Lily sollevò le sopracciglia. James si diede un’occhiata attorno e poi si avvicinò, come se avesse voluto accertarsi di essere lontano da orecchie indiscrete. “Non possiamo rischiare che giochi come Sirius. Ne va del mio onore, Lily. Non sto scherzando, se mio figlio è una schiappa, io muoio.” Lily rise, il suono si diffuse alto e cristallino tra le mura di una casa invisibile. James sorrise di rimando. “Lily, non sto scherzando! Quindi adesso se vuoi scusarmi…” accennò con lo sguardo alla mano di lei ancora stretta attorno al suo polso.
Lily però smise di sorridere, rinsaldò la presa e lo guardò dritto negli occhi. “Stai bene?”
“Che vuoi dire?”
Lily spostò lo sguardo sulla fotografia appesa al muro solo una volta, poi tornò su di lui, un sopracciglio sollevato eloquentemente.
“Sì” e lo disse in tono quasi interrogativo, come se l’ipotesi di Lily fosse stata completamente infondata. Scrollò il braccio e riprese possesso del suo polso. “Sai cosa mi farebbe stare veramente bene? Una torta di carote.”
Lily gli sorrise. Era un sorriso che diceva, questa volta chiudo un occhio. Poi lo seguì di sotto, perché James, durante quelle lezioni, si limitava a spostare solo gli oggetti fragili da sopra le mensole e quindi Lily doveva occuparsi anche di quelli pesanti ma non fragili, visto che una volta avevano fatto cadere una padella sul gatto.
La padella non si era fatta male, il gatto neanche, a dire il vero, ma gliel’aveva fatta pagare con un broncio che era durato giorni.
 
Quando scese la sera, il contrasto tra il buio e le luci gialle della casa sapeva di decisione e accoglienza.
James si lasciò cadere accanto a sua moglie sul divano e sospirò rilassatissimo. Fece vagare una mano sul viso di suo figlio, in braccio a lei, e gli accarezzò una guancia, sbadigliando.
Le lezioni di volo erano sempre uno spasso per entrambi, ma James ne usciva zuppo di sudore e stanco morto.
Chiuse gli occhi per un attimo, la testa abbandonata sullo schienale imbottito. “Secondo te, dopo, dovrei continuare?” domandò a Lily, gli occhi chiusi contro la luce artificiale appesa al soffitto. Per un attimo desiderò di spegnerla e affidare l’illuminazione della stanza all’abat-jour, ma non aveva intenzione di alzarsi né di verbalizzare quel pensiero.
Sentì gli occhi di Lily su di sé, quando parlò. “Continuare cosa?”
“Il quidditch. Potrei studiare per diventare Auror, abilitarmi, giocare a quidditch a livello professionale e fare l’Auror a carriera finita.”
Schiuse un occhio solo per trovarsi davanti il sorriso di Lily. “Mi sembra un’ottima idea.”
James sorrise a sua volta. “Tu che vuoi fare dopo la guerra?”
Lo disse come se al posto di ‘guerra’ avesse potuto dire qualunque altra cosa. Tu che vuoi fare dopo cena? Che film vogliamo vedere al cinema? Quale camicia mi sta meglio, quella rossa o quella blu?
“Non ci ho pensato.”
“Non ne hai bisogno” James scrollò le spalle. “Con i tuoi voti non devi preoccuparti di non essere accettata da nessuna parte! Puoi fare letteralmente qualunque cosa, ti basta desiderarla.”
Lily gli sorrise. Il motivo stava da qualche parte fra l’imbarazzo e la naturalezza con cui James aveva parlato.
“Non c’è niente che desideri?”
A Lily sembrò assurdo. Parlavano di futuro quando si stavano nascondendo per assicurarsene uno. Parlavano di futuro come due bambini durante la merenda e intanto lei aveva un figlio tra le braccia e una fede al dito. “È che tutto quello che ho sempre sognato da piccola non ha mai tenuto conto della società magica. Quando sono arrivata a scuola, ho continuato a non immaginare concretamente null’altro di magico al di là dei suoi confini!”
“Non devi lavorare nella società magica, se non è quello che vuoi. Sei brillante più o meno in ogni mondo, Lily.”
“Però” lo sorprese lei, un sorriso furbo che si spandeva in viso, mentre si concedeva un sogno piccolo e innocuo, “c’è una cosa in particolare che non mi dispiacerebbe proprio tentare!”
James sollevò un sopracciglio. “Ah, sì? E cosa?”
Lily si strinse nelle spalle. “Te lo dico...” iniziò, sporgendosi in avanti e rubandogli un bacio sulle labbra. Lui registrò e tentò di ricambiare quando lei si era ormai già alzata in piedi, “dopo aver messo Harry a letto.”
James sorrise e chiuse nuovamente gli occhi. “Lily” chiamò, la voce impastata di quella sonnolenza tipica della confortevolezza, “hai visto la mia bacchetta?”
Lei si fermò a un passo dal primo gradino, alzando gli occhi al cielo per richiamare il ricordo alla mente. “No, non credo.”
Lo sentì sbuffare dal divano e fare per alzarsi.
“Se è per la luce, la spengo io” lo fermò, schiacciando un dito contro l’interruttore. Il salotto piombò nel buio, le luci della strada si infilavano a strisce, illuminando porzioni casuali della stanza.
“Sei un angelo” lo sentì mormorare, sprofondando nuovamente nei cuscini del divano. “Dopo torni qua e mi dici i tuoi progetti?”
Lily ridacchiò. “Sì” disse piano, e non fu certa che l’avesse sentita. 
Quindi si incamminò di sopra.
James chiuse gli occhi e si chiese se non fosse da sfigati crollare così sul divano. Non aveva in mente di passare la notte lì, gli sarebbero bastati solo cinque minuti per ricaricarsi. Ci si stancava molto più facilmente quando bisognava restar fermi in un posto ad aspettare.
I pensieri iniziarono a confondersi, a sovrapporsi a quelli vorticosi che precedevano i sogni. Dietro le palpebre, visualizzò una grossa porta in legno in mogano senza serratura. Avvicinandosi, scoprì che era intagliata. Ricami di legno stretti e bruschi si sovrapponevano e si avvolgevano su loro stessi, ma erano tutti ornamentali. Nessuno di quei tagli suggeriva la possibilità di una chiave da infilare, un meccanismo da attivare, un pomello da ruotare. James sentì bussare, all’altro capo della porta. Era un suono sempre più insistente, quasi violento.
Non sembrava che qualcuno volesse essere liberato, non sembrava una richiesta d’aiuto. Pareva che, dall’altra parte della porta, qualcuno volesse…
Aprì gli occhi di scatto.
La porta era falsa, il suono era vero.
Si alzò col cuore in gola.
“Lily” disse, il tono fermo perse consistenza ai bordi. Odiò sentirlo trasformarsi in quello di un animale in trappola. Si avviò verso l’ingresso senza pensarci due volte. Il cuore urlava che era un bambino venuto a fare dolcetto o scherzetto, la testa gli ricordava che non era possibile. Fu la passeggiata verso la porta più lunga della sua vita.
Fu anche l’ultima.
La porta si aprì con uno schianto nello stesso istante in cui lui si voltò indietro per gridare: “Lily, prendi Harry e corri! È lui. Vai, scappa! Io lo trattengo...”
La voce non sembrava la sua, la casa non sembrava la sua. Aveva paura, ma non per lui. Si portò una mano su un fianco e si riscoprì in pantaloni di tuta, senza tasche e senza bacchetta. Una sola emozione gli rovinò addosso con la potenza di un incantesimo di cui già sentiva il sapore. Non era frustrazione, non era impotenza o senso di colpa.
Era nostalgia.
Del cortile di scuola e del viso adulto di suo figlio. Della casa in cui era cresciuto e dei primi capelli bianchi di Lily.
Guardò Lord Voldemort nei suoi occhi rossi e pensò che suo figlio sarebbe morto, che Lily sarebbe morta. Indietreggiò e sperò che fossero scappati. Forse sarebbe potuto arrivare alla sua bacchetta in tempo, forse avrebbe potuto seguire Lily e Harry all’esterno, nell’aria fredda di fine ottobre. Non importava che avesse già la punta della bacchetta del suo avversario puntata contro, non importava che questi avesse già separato le labbra, sull’orlo di una parola.
Poteva fare tutto, no? Lui era invincibile.
Poteva seguirli all’esterno. Non avrebbe dovuto dare retta a Sirius. Puzza di foglie secche. Riesco ad arrivare alla bacchetta. Ci riesco di sicuro. Voleva seguirli fuori. Lo voleva con ogni fibra del suo corpo. Cosa avrebbe voluto fare Lily in futuro? Non glielo aveva detto. Avrebbe voluto alzare le mani, chiamare un time out, come se fosse stato un gioco. Avrebbe potuto provare. Forse la guerra era falsa. Sfido, pensò, avanti, fallo. Era come il quidditch? Se cadeva potevano fermare il gioco. Non si poteva veramente morire. Ma poi così? Così come un idiota? Scrollò una mano, invano. D’altronde, non era mai stato bravo con gli incantesimi senza bacchetta. Voleva seguire Harry e Lily all’esterno. Attraverso la porta aperta riusciva a percepire l’aria fredda di ottobre entrare a ondate, la stessa aria che avrebbe potuto respirare se posse riuscito a…
Si fermò, smise di indietreggiare e udì il sibilo dell’espirazione. Scoprì che il Signore Oscuro era già a metà formula, una striscia verde scalpitava alla fine della sua bacchetta.
Non era mai stato un vigliacco e non lo sarebbe stato allora.
Lo guardò e respirò profondamente per l’ultima volta. Era un padre, era un figlio, era un marito, era un amico, era diplomato, era un adulto, ma la sua espressione non doveva tradire più di undici anni.
 
“È libero qui?” domandò un ragazzino, infilando la testa nello scompartimento.
Il treno sbuffò incalzante e James non consultò la passeggera che viaggiava con lui e annuì stringendosi nelle spalle. Gli aveva detto che si chiamava Lily e poi si era stropicciata gli occhi e aveva smesso di parlare.
Il ragazzo entrò senza aggiungere altro, un sorriso sbrigativo poggiato sulle labbra. Si diede un’occhiata alle spalle e chiuse la porta della cabina come se avesse scongiurato così l’attacco di un Molliccio.
James lo guardò sedersi di fronte a lui e inspirare pesantemente tra i denti. Si guardò attorno, passando velocemente in rassegna con lo sguardo la ragazzina dai capelli rossi e l’arredamento scarno dello scompartimento, poi si concentrò su di lui. “Sirius Black,” disse, piazzando una mano sotto il suo naso.
“Black?” disse James, sollevando un sopracciglio e fermandosi con il palmo a un passo dal suo. Il cognome gli ricordava qualcosa. “Sei ricco?”
Sirius fece una smorfia, poi annuì piano. “Diciamo così” disse poi, uno sguardo di ghiaccio lo sfidò a stringere quella mano e farla finita una volta per tutte. James pensò che i suoi occhi potessero pietrificarlo, ucciderlo sul posto, leggergli l’anima e i segreti. Faceva un po’ paura, ma qualcosa nel suo petto gli fece desiderare di piacergli.
“James Potter” disse, accettando la mano, “perché sei qui?”
Il viso di Sirius si aprì in un sorriso. “Sto scappando” confessò, con aria di modesta noncuranza.
James si limitò a sorridergli, poi il treno sbuffò ancora un paio di volte, la sirena trillò e i ragazzi si misero in viaggio, lasciandosi cullare dallo sferragliare costante delle ruote sui binari.
Dopo solo qualche minuto di campagna sconfinata, cieli azzurri e nuvole di zucchero filato, un ragazzino dai capelli scuri quasi quanto i suoi ma non altrettanto puliti, infilò la testa nella loro cabina. Senza dire una parola, fece scorrere la porta quel tanto che bastava per farsi largo nel loro scompartimento e si lasciò cadere senza troppe cerimonie nel sedile accanto a quello di James.
“Non voglio parlare con te” sussurrò la ragazzina con i capelli rossi seduta di fronte a loro. James si rese conto solo in quel momento che aveva pianto. Lanciò un’occhiata di sottecchi al ragazzo seduto accanto a lui, come se fosse stato responsabile dell’umore di Lily.
“Perché?” domandò quello, mantenendo la voce bassa come se la cabina fosse stata grande abbastanza da nascondere le sue parole agli altri passeggeri.
James e Sirius si scambiarono un’occhiata curiosa.
“Tunia mi… mi odia perché abbiamo aperto la lettera di Silente.”
“E allora?”
“Allora è mia sorella!” sbottò lei, alzando la voce.
“È solo una…” il ragazzo si strinse nelle spalle. Per un attimo James temette che gli scivolassero dei pidocchi via dai capelli. C’era qualcosa in lui che non gli piaceva proprio. La voce forse, oppure l’atteggiamento, il modo in cui parlava a Lily. Magari il solo fatto che avesse qualcosa di cui parlare con lei. “Ma ci stiamo andando!” esclamò poi. A James non piacque neanche il suo sorriso. “Ci siamo. Stiamo andando a Hogwarts!”
Era un’osservazione parecchio stupida da fare, secondo il suo modesto parere, quindi James alzò un sopracciglio e colse lo sguardo di Sirius, abbozzando un sorriso.
“Speriamo che tu sia una Serpeverde.”
James non resse un attimo di più. “Serpeverde?” domandò, voltandosi finalmente verso di loro. “Chi vuole diventare un Serpeverde? Io credo che lascerei la scuola, e tu?”
Sirius, che fino a quel momento non aveva fatto altro che scambiare sguardi divertiti con lui, si strinse nelle spalle come se la cosa gli importasse ben poco. A James piaceva quell’aria disinvolta che lo portava a sedersi come se più che prendere posto si stesse stravaccando, ma c’era qualcosa nella sua postura rilassata che non quadrava. “Tutta la mia famiglia è stata in Serpeverde.”
“Oh, cavolo” commentò James. “E dire che mi sembravi uno a posto!”
“Forse io andrò contro la tradizione” Sirius scrollò le spalle. Era più o meno la duecentoventinovesima volta che lo faceva. “Dove vorresti finire, se potessi scegliere?”
James levò una spada immaginaria, un gesto plateale che non aveva provato mille volte allo specchio, ma che aveva sperato di avere l’occasione di fare. “Grifondoro, culla dei coraggiosi di cuore! Come mio padre.”
Il ragazzo seduto accanto a James fece un suono a metà tra uno sbuffo e una risata.
“Qualcosa che non va?”
“No,” rispose quello. James pensò che se gli avesse aperto la testa e avesse saltato sui suoi nervi, gli avrebbe dato meno fastidio. “Se preferisci i muscoli al cervello…”
“E tu dove speri di finire, visto che non hai nessuno dei due?” intervenne Sirius. James sperò vivamente che diventassero amici. Gli venne naturale scoppiare a ridere.
“Andiamo, Severus, cerchiamo un altro scompartimento” mormorò disgustata Lily, alzandosi. 
James ebbe il tempo di gridare loro un ‘ci si vede, Mocciosus’ dietro, prima che sparissero nel corridoio del treno.
I ragazzi rimasti si guardarono per un attimo solo, prima di scoppiare a ridere.
E, proprio così, la miccia prese fuoco.
Qualche anno dopo, Sirius aveva detto a James che crescere era una cosa da vecchi, e che loro invece avrebbero dovuto spassarsela. 
Crescere era una faccenda complessa. Qualunque cosa ci fosse alla fine di quella strada, fin da quando si iniziava a percorrerla si sapeva una sola cosa: il percorso era costellato di errori. Commetti i più gravi, e potresti non giungere mai alla meta. Ci si trovava spesso a chiedersi come riconoscere questi inevitabili errori, tutti questi equivoci, fallimenti, parole e gesti ammassati a formare un ostacolo.
La soluzione al dilemma era ovvia, un trucco vecchio quanto il mondo, la risposta che rendeva così ostica la matematica: più la soluzione era semplice, meno la vedevi.
Per riconoscere un errore bisognava assaggiare un successo.
Se esistevano successi, nel percorso che portò James Potter a morire a metà di un pensiero la notte di Halloween del 1981, il primo fu Sirius Black.
Rise con lui su quel treno e fu aderenza.
Era il primo di un’infinità di lucchetti che si chiudeva, la chiave in una toppa, il pezzo del puzzle mancante, una scintilla che si accendeva sul finire di una stella filante. Era un’esplosione, ma sommessa. Era una domanda, resa certezza.
L’amore a prima vista esiste, solo che nessuno pensa mai di pubblicizzarlo in tutte le sue declinazioni. Di queste, l’amicizia è la più fraintesa. 
James era salito su quel treno entusiasta ed era stato pure fortunato. Non aveva mai avuto un amico, fino a quel momento, ma non c’era bisogno di esperienza per capire certe cose. L’intesa era una cosa inspiegabile. Una sorta di condanna, un legame che si stringeva al collo e tirava fino a non poter far altro che accettarla e, in fondo, godersela dal primo istante.
La porta dello scompartimento scivolò sui suoi binari ancora una volta. Un ragazzino che doveva certamente avere undici anni, ma sembrava averne insieme molti molti di meno e molti molti di più, si congelò sul posto. “Credo di aver sbagliato cabina…” mormorò, tirando la testa all’indietro come per guardare quelle adiacenti e cercare la sua. James ebbe modo di notare una cicatrice che partiva dalla base della mandibola e scendeva in un percorso irregolare, infilandosi sotto il colletto della camicia già appuntata.
“Credo di sì” confermò Sirius.
Il ragazzino tornò a guardarli e dovette leggere qualcosa di brutto nei loro occhi, perché abbassò la testa di scatto, a disagio. “Sì, scusate” mosse un passo indietro, e fece di nuovo scorrere la porta finché non si chiuse.
“Come diamine ha fatto a sbagliare? È l’ultima cabina del treno.”
James si strinse nelle spalle. “Forse è pazzo. Mi sembrava avere qualcosa che non andava.”
“Puoi dirlo forte. Io con uno così preferirei non avere a che fare.”
James annuì e lasciò cadere lo sguardo per un attimo sul paesaggio che scorreva oltre la finestra. “Ehi, vuoi una Cioccorana?” domandò a Sirius, infilandosi una mano in tasca per tirarne già fuori due.
Sirius sorrise e annuì deciso.
“Se esce Gunhilda di Gorsemoor però me la dai? Mi manca.”

***
 
La felicità è una cosa molto più complessa di quanto si legga sul volto di un bambino che ha appena imparato a sorridere, è molto più insidiosa, è molto più rischiosa. È quel tipo di forza impetuosa, meravigliosa e terribile come un’onda e discreta come la specie d’uccello che gli ornitologi ancora non hanno scovato.
C’è chi si diletta a stanarla, chi l’ha trovata e convive oggi col rischio di perderla.
Se si aguzzavano le orecchie, alcuni muri a Hogwarts erano disponibili per raccontar storie. Non era vero, naturalmente, erano impressioni, tracce e orme che non avevano niente a che fare con la magia.
Erano ricordi.
Figli di un tempo che sapeva di essere stato inclemente e che cercava di farsi perdonare come meglio poteva.
Teneva in vita spettri e fantasmi, ricordi di quello che avevano vissuto, mentre continuavano a gridare nei corridoi ormai distrutti che loro erano stati lì, che avevano fatto la storia. Che lì avevano riso, che avevano sussurrato. Avevano percepito così finemente da poterci affilare sopra un coltello, avevano pagato ricordi e scambiato esperienze, ignari di un mondo che alla fine li avrebbe piegati.
Era un mondo che avevano avuto in pugno, che avevano creduto di avere in pugno, mentre questo si dispiegava alle loro spalle in tutta la sua disarmante crudeltà. Era un mondo disonesto, a cui non avevano fatto proprio niente per essere destinati a tanto dolore, se non sostare sull’orlo.
Anche se le cose a volte non andavano come programmato, c’era sempre spazio per non sprecare neanche un attimo, appropriarsene invece e strapparlo alle lancette.
Stava tutto nel trovare un modo per poter dire, alla fine, di aver vissuto. Anche e soprattutto, mentre ci si lasciava il mondo alle spalle.








 
Notl: Diventerò via via più sentimentale in queste note, è inevitabile.
RAGAZZI, questo capitolo è stato difficilissimo da scrivere, pensare, MA SOPRATTUTTO correggere e mettere qua. Non mi lamento, però, non mi aspettavo nulla di diverso. Quando ho finito di scrivere questa storia, un paio di giorni fa, ero abbastanza tranquilla, ma ora che la vedo finire veramente ammetto di sentirmi un po' mancare la terra sotto i piedi. MA NON SIAMO QUI PER PARLARE DI ME.
Allora gente io questa volta non so bene che dire, ci sto troppo dentro, mi sembra tutto piatto e senza emozione ma mi sembra il minimo dopo aver letto e riletto 'sta roba duecento volte, quindi non sarò io a giudicare. Il capitolo è pieno di easter eggs, robe del passato, e fatti simili perché io non mi so proprio mantenere, se li trovate tutti non lo so vi posso dire 'bravi' di più non posso fare, però se mai dovessimo vederci vi darò una bella cosa, non lo so, una barretta kinder tipo.
Enough, non so che dire, se non mi fermo adesso divento un fiume in piena. QUINDI vorrei finire la storia entro settembre (così, personal goal), quindi ci vediamo con un epiloghino, un fatteriello per cui vorrete picchiarmi, tra sette giorni, il 30, se non finisce il mondo prima.
A questo punto io vi ringrazio dal profondo del cuore per essere arrivati alla fine e se pensate che le note del prossimo capitolo saranno così brevi siete dei poveri illusi.
Ma sul serio, grazie :')

El.

 
   
 
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