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Autore: sallythecountess    26/09/2021    1 recensioni
Continuano le avventure dello stralunato Ian e della sua folle V. Riusciranno questa volta ad affrontare la vita matrimoniale e la prole?
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo: Artie
Tre anni dopo il nostro ritorno a Londra, le cose sembravano andare bene: le bambine avevano iniziato la scuola, il piccolo Josh cresceva a vista d’occhio e Ariel era sempre al mio fianco. Tutto perfetto, direte, eppure quella notte non riuscivo proprio a prendere sonno. Avevo visto poco mia moglie, perché tra gli adempimenti di lavoro e il volontariato che avevo iniziato all’ospedale pediatrico ero rientrato tardi, e lei era troppo esausta per chiacchierare dopo cena, anche se mi aveva chiesto più volte cosa avessi e io avevo solo detto “dopo Ari…”.
Dopo però non era arrivato, perché messe a letto le gemelle l’avevo trovata addormentata con Josh, così ero rimasto ad agitarmi per un po’ tra le coperte.
“Non dormi?” mi chiese, completamente addormentata, perché evidentemente la stavo disturbando, ed io le chiesi scusa e le dissi di riposare tranquilla.
“E’ colpa di quel padre folle? E’ tornato alla carica con la tua preside?” chiese, sedendosi a letto, ma io le dissi ancora una volta di non preoccuparsi e di dormire, perché non era successo nulla a lavoro.
“Allora è tornato Artie in ospedale, eh?”concluse seria, ed io annuii soltanto. Arturo, detto Artie, era un ragazzino di dieci anni orfano che tornava in ospedale con una frequenza allarmante. Subiva bullismo e aggressioni fisiche nell’orfanotrofio in cui era, e aveva iniziato a farsi del male per uscire da quell’incubo per qualche giorno.
Ci avevo messo un mese per entrare in sintonia con lui, all’inizio fingeva di non parlare e non capire l’inglese. Fu Ariel ad avvicinarci, perché un giorno venne con me e provò a farmi da interprete, scoprendo la sua presa in giro.
“E’ veramente una fica spaziale…” commentò, quando lo vidi la volta successiva, ma io ero troppo felice che mi parlasse per rimproverarlo. Ci avvicinammo nelle settimane successive, e scoprii la sua storia: Artie era figlio di uno spacciatore morto sei mesi prima in un agguato e di una drogata, che era morta di parto. Non sapeva la verità su sua madre, e da tutta la vita aspettava che lei tornasse a prenderlo, dato che il padre gli aveva raccontato che se n’era andata con uno ricco.
All’inizio non gli piacevo, proprio per niente. Faceva il bulletto con me e con gli altri ragazzi dell’ospedale, ma io riuscii a parlarci e piano piano iniziammo a lavorare sul suo atteggiamento. Era parecchio bruttino, poveretto. Obeso, non molto alto e con una foltissima chioma di capelli neri e ricci che gli faceva assomigliare la testa a un fungo.
L’insicurezza era il suo problema peggiore, unito al disprezzo per se stesso, generati probabilmente dal non aver mai avuto amore nella vita. Io parlavo un sacco con lui, gli facevo regali e cercavo di farlo stare meglio, ma la verità è che avevo soltanto generato un problema perché, ovviamente, non voleva restare più in orfanotrofio sapendo di avere un amico fuori.
“Andiamo a trovarlo quando lo dimettono, così capirà che noi teniamo a lui anche se non è in ospedale…” mi propose mia moglie seria e pensai che fosse una buona idea. Così, provai ad addormentarmi accanto a lei. Lo dimisero dopo qualche giorno, e così nel weekend io e Ariel decidemmo di andare in quel posto, che da fuori ci parve una specie di manicomio infestato.
“Ok, non dobbiamo lasciarci impressionare dalle apparenze…” mi disse, ingoiando la saliva, ma poi mi tenne la mano strettissima per tutto il tempo. Artie fu felice di vederci, abbracciò lei con molto affetto, ma a me diede solo una pacca sulla spalla perché gli “uomini che si abbracciano sono gay…”. Ovviamente Ariel non lasciò andare quella sua frase, e gli spiegò che non era così, che esprimere i propri sentimenti non è una cosa sbagliata e insomma: tutta la solita menata sul rispetto per tutti. Solo che lui abbassando lo sguardo sussurrò “Ariel, mi riempiono di pugni se abbraccio un uomo. E se poi piango, anche di calci...”
Uscimmo letteralmente sconvolti da quell’incontro, dopo aver provato per un’ora a spiegare alla suora che gestiva il posto la situazione. Lei rispose solo con una banalità di tipo religioso che neanche ricordo adesso, qualcosa come “Cresceranno e Dio gli mostrerà la strada” ed io fui costretto a portare via Ariel quasi con la forza, perché voleva picchiarla.
Restammo in silenzio in auto, entrambi troppo sconvolti per dire qualsiasi cosa, e poi lei espresse esattamente le stesse parole che stavo pensando io, ma che non avevo il coraggio di dire, perché temevo si sarebbe arrabbiata.
“Ian non possiamo lasciarlo in quel posto. E’ un ragazzino fragile, non è cattivo, ma se resta lì ne faranno un mostro…”
“O lo massacreranno. Oppure un giorno invece dei soliti taglietti sul braccio sbaglierà e si farà del male sul serio…” conclusi portandomi le mani al viso, perché ero davvero sconvolto.
“Chiederemo l’affido Ian…” disse piano, molto, molto seria ed io la fissai soltanto. Erano settimane che ci stavo pensando, ma non avevo il coraggio di proporglielo, perché era una cosa troppo grossa.
“Lo so che lo vuoi, ho visto la tua cronologia del computer. Non ti sei accorto che c’era il mio account aperto, e mi sono trovata tutti questi siti…” aggiunse sorridendo ed io risi soltanto.
“E’ una cosa grossa e impegnativa, e non è giusto che tu decida adesso…” le dissi serio, ma lei scosse la testa e mi spiegò che ci pensava anche lei da un po’.
Lasciammo passare una settimana, e poi ci ritrovammo entrambi in soggiorno alle sei del mattino e lei mi disse solo “facciamolo” con un sorriso splendido.
Artie arrivò a casa nostra due settimane dopo, e ci fece immensamente pena, perché sembrava non volesse fare nulla per contrariarci. Non si era neanche difeso quando Olive (che aveva un caratterino da despota antipatica a volte) gli aveva urlato che la carta della merendina andava gettata in un contenitore diverso e aveva concluso con “ma da dove vieni per non saperlo?”
Artie era morto di vergogna poverino ed era diventato tutto rosso, ma ovviamente Ariel intervenne.
“Non rimproverarla, ha ragione…” le disse, mettendole una mano sulla spalla ma Ariel con un sorriso gli spiegò che essere arroganti e supponenti ti mette sempre e comunque nel torto. E lo so cosa state pensando: sì, sì proprio lei faceva queste lezioni. Lei che voleva quasi uccidere Jeff quando lo aveva incontrato.
Ci vollero un po’ di mesi prima che Artie si rilassasse e iniziasse a vivere in modo più sereno, e a mostrarci il suo carattere. Ariel disse solo “beh i cani che escono dal canile ci mettono 6/7 mesi ad ambientarsi, quindi è giusto che ci metta un po’ anche lui” ma io non avevo idea di cosa aspettarmi. E poi, una sera, lo beccai a fissare Ariel che consolava Josh in lacrime dopo una lite con le sorelle. Gli piacevano molto i miei figli e andava molto d’accordo con il mio piccolo terribile, ma quella sera mi disse solo “che cosa si prova Ian? Cosa si prova ad essere guardati in quel modo? Ad essere coccolati, ad avere qualcuno che ti asciuga le lacrime? Cosa si prova ad avere una madre?”
Lo strinsi soltanto, e gli sussurrai che lui aveva noi che ci saremmo sempre presi cura di lui, ma ovviamente non fu semplice lasciarsi andare. E poi capitò, come nel più classico dei film, che Artie si beccasse il morbillo. I nostri figli erano stati vaccinati, ma nessuno si era preso cura di lui, quindi era letteralmente esposto a qualsiasi malattia al mondo.
Stette molto male poverino, con febbre molto alta, e io e Ariel preoccupatissimi ci alternammo al suo capezzale, coccolandolo e cercando in ogni modo di farlo stare meglio. Nel delirio della febbre chiamava la sua mamma, ed io mi commossi un sacco per quella cosa, ma Ariel gli rispose solo “sono qui, piccolino, non stancarti…” facendomi sorridere. Quando si svegliò senza febbre per la prima volta e se la trovò accanto sorrise in modo bellissimo.
“Sei sveglio…” gli sussurrai, portando la colazione per lei, ma lui annuì soltanto e mi chiese scusa, ancora una volta perché avevo dovuto allontanare la famiglia per colpa sua.
“Tu sei della famiglia, scemo…” gli dissi con un sorriso e lui sorrise appena in cambio.
Ci volle un anno prima che io e Ariel riuscissimo a formalizzare la sua adozione e ragazzi ne capitarono veramente di ogni: mettemmo Artie a dieta, gli pagammo gli allenamenti di calcio (che era la sua passione) e lui si rimise in forma. Scoprimmo che aveva già le sue prime pulsioni sessuali, e mentre io gli spiegavo che non c’era assolutamente nulla di strano o perverso, Ariel serissima sentenziò soltanto che “il porno va bene, può essere divertente, ma come il sesso è accettabile solo se consensuale. Se la donna dice no, o ha bevuto o altro è stupro, e quella è una cosa terribile…” facendoci arrossire entrambi.
Ariel lo massacrò di discorsi femministi, ovviamente, e litigarono spesso per la musica che lui ascoltava, e a me toccava fare da paciere, cercando di spiegare a lei che era la moda, e a lui che definire le donne “belle puttanelle” non era rispettoso nei loro confronti.
Fu un anno di crescita per Artie, sia fisica che emotiva, dato che in quei dodici mesi litigò un sacco di volte con le gemelle, vide milioni di partite con mio padre e Josh, che ormai lo vedeva come una specie di eroe e lo imitava in tutto, lesse dei libri insieme a me, partecipò alle manifestazioni con tutta la famiglia e legò tantissimo con Buck. S’innamorò anche, e io e Ariel cercammo in ogni modo di aiutarlo a fidanzarsi con questa ragazzina, ma lei non volle saperne e mia moglie (da vera romantica!) concluse solo che bisognava rispettare la sua scelta “e mandarla a fanculo”.
Successe una cosa molto importante in quell’anno, anche se a voi sembrerà assurda. Vedete, Artie ci considerava una specie di zii, e sebbene noi gli avessimo detto che volevamo essere i suoi genitori, non usava mai le parole “mamma” o “papà” per chiamarci.
E poi un giorno il signorino si beccò una sospensione, letteralmente da zero, perché non era un ragazzino litigioso, e io ed Ariel fummo chiamati dal preside per capire la questione. Artie era in un angolo e non ebbe neanche la forza di guardarci quando entrammo. Il preside spiegò che si erano azzuffati, ma era stata una cosa lieve, e lui aveva mollato la presa quando l’allenatore lo aveva richiamato, per questo avrebbe avuto una punizione più lieve.
“Che cosa ti ha fatto arrabbiare, Artie?”gli chiese mia moglie seria e lui negò più di una volta di parlare, ma quando l’altro ragazzino si difese dicendo di non aver detto nulla di strano, lui urlò “no hai solo insultato mia madre…”
Sua madre era il suo punto debole, era comprensibile, così gli misi una mano sulla spalla, pronto a spiegargli che non era la violenza la soluzione giusta, quando l’altro aggiunse che aveva fatto solo un complimento, non aveva insultato nessuno.
“Ah perché secondo te dire che è una bella puttana è una cosa gentile? Sei un troglodita…” concluse e io ed Ariel ci fissammo sgomenti.
“Lo ha detto di me?” chiese lei, con un filo di voce e molto commossa, e lui annuì soltanto, senza neanche fissarla.
Ariel si commosse in quel momento e avvicinandosi al suo viso gli sussurrò piano “hey rispondimi” ma lui alzò la testa e ruggì “di chi altro avrebbe potuto dirlo?” ma poi quando le lacrime le caddero sulla guancia le disse piano “non piangere, non volevo farti arrabbiare, scusa…”
Fu un momento terribilmente intenso, e persino il preside si commosse quando spiegai che era la prima volta che Artie chiamava Ariel “mamma”. Così, data la maturità che aveva dimostrato, la spuntò soltanto con un giorno di sospensione.
Ci volle molto più tempo affinchè chiamasse me papà, ma io lo trovavo comprensibile. Artie aveva avuto un padre, un bastardo che lo ignorava e fingeva che non esistesse, ma era pur sempre un padre. Rispettavo l’esistenza di quell’uomo, ma allo stesso tempo il mio legame con quel figlio stava diventando sempre più forte. A undici anni lo portai per la prima volta a vedere il Manchester, la sua squadra preferita. Lui sapeva che dovevamo andare ad una fiera del libro e ovviamente avevo dovuto pregarlo per accompagnarmi, ma aveva iniziato a mangiare la foglia trovando il nonno in auto.
Fu felice come mai prima quel giorno, e la prima volta gli venne spontaneo dirmi “papà, guarda…” ma quando vide il sorriso sulle mie labbra, capì che per me era una cosa importante e ripetè quella parola di proposito un po’ di volte.
Artie divenne nostro figlio ufficialmente il giorno del settimo anniversario di matrimonio mio e di Ariel, e posso dire che quella data è stata una delle più importanti della nostra vita.
Volete sapere se è stato semplice crescere anche lui? No, per un cazzo. Pensate che tutte le teorie sul discutere senza litigare di Ariel abbiano funzionato e che dunque a casa mia non ci fossero grosse liti? Ma avete iniziato a drogarvi?
Fu molto difficile crescere Artie, esattamente quanto lo fu crescere Olive, Audrey e anche Josh (anche se fu quello che ci diede meno pensieri, devo ammetterlo) ma non ho mai, neanche per un istante, rimpianto la mia scelta.
 
Epilogo
Dieci anni dopo l’arrivo di Artie nella nostra vita, parte della famiglia Watt era in aeroporto. Sempre noi: Ian, V, Audrey, Olive e Joshua. Eravamo ancora una volta in procinto di rientrare al nostro piccolo cottage, dopo un viaggio lunghissimo, che ci aveva cambiati tutti e che ci aveva portato via un pezzo di cuore.
“Smettetela di distrarvi, uomini, o dimenticherete i vostri zaini…” mi disse, la mia amata bionda particolarmente triste, e io mi strinsi nelle spalle e le spiegai soltanto che ormai mi legavo lo zaino al braccio a prova di distrazione.
“…e poi l’ultima volta è stata proprio lei a dimenticare il trolley con tutti i nostri libri, e si permette anche di giudicarci!” rispose severo un ragazzone di tredici anni, ed io sorrisi e le dissi solo “touchè” facendola infuriare. Ancora una volta provò a giustificarsi dicendo che secondo lei non serviva portare i libri in vacanza, altrimenti che vacanza era? Io avrei spiegato loro tutto quello che era necessario, e una meravigliosa biondina con occhi verdi e capelli super ricci rispose solo “come no. Perché papà secondo te è in grado di spiegarci la chimica e la biologia magari? ”
No, figuriamoci, non ci capivo assolutamente nulla, e infatti avevo chiesto a dei colleghi di farli allenare un po’ in quei due mesi di pausa, cogliendo la meravigliosa occasione di far studiare i miei figli con insegnanti di varie parti del mondo.
“Ringrazia che Audrey è una secchiona che legge qualsiasi cosa, altrimenti non avremmo avuto il tablet per prepararci al college…” concluse la biondina furiosa.
Ariel seccata fece per allontanarsi, con il suo solito atteggiamento da “questa è una congiura” ma io la raggiunsi e stringendola forte le dissi solo “dieci ore Ari. Dieci ore e poi finalmente le ragazze andranno da qualche amica con il nome che finisce in y e Josh si rivedrà con i suoi compagni di squadra. Dieci ore e finalmente io e te potremo tornare a fare il bagno da soli, stretti e nudi nell’acqua come a Lima…”
Ero in  vena di coccole,ma sapevo che lei era parecchio triste, perciò non mi aspettavo grandi cose.
“Dieci ore, e saremo dall’altra parte del mondo rispetto a nostro figlio…” concluse sospirando ed io le sorrisi e spiegai di nuovo che era adulto ed era giusto che lui facesse questa esperienza.
“Credi che non lo sappia? Che non mi ripeta mille volte che sono orgogliosa di lui per aver deciso di lavorare con una ong e costruire case per i senzatetto?” ribattè seccata, ma poi mi chiese scusa ed io la accarezzai soltanto.
“E’ solo così lontano…” sussurrò piano, ed io la strinsi forte e le sussurrai che dieci ore erano poche, era proprio quello il senso del mio primo commento, facendola sorridere.
“Mancherà anche a me da morire Ari, ma ha vent’anni, è innamorato, vuole salvare il mondo, ed io sono terribilmente fiero di tutto quello che fa…” le spiegai con occhi lucidi e lei annuì con un sorriso, ma poi ci distraemmo perché una scena molto divertente si consumò davanti ai nostri occhi.
Olive e Audrey avevano scelto di fare questo viaggio con noi prima di trasferirsi definitivamente a Londra per iniziare il college. Erano davvero molto belle, ma totalmente diverse: Olive identica a sua madre, con i pantaloncini corti, i vestiti succinti e il carattere forte, Audrey più simile a me (ma più bella) con la sua timidezza, le felpone gigantesche e mille libri sempre dietro sul tablet. Se ne stavano abbastanza lontano da noi, a ignorarsi amabilmente, ognuna con il naso sul proprio telefono, quando due ragazzetti provarono ad abbordarle.
Audrey non li degnò neanche di uno sguardo, perché era fidanzata da un anno con un ragazzino timido e aspirante fumettista, e si amavano da impazzire. Olive li squadrò per un istante, poi notò che uno dei due aveva una tshirt di una serie tv che guardavamo insieme, perciò decise di dargli il beneficio del dubbio e farci amicizia. Per venti secondi, fino a quando non gettò la carta nel contenitore della plastica, scatenando l’ira delle mie gemelle super ambientaliste.
“Lo sai…” dissi alla loro madre, che le fissava con un sorriso orgoglioso dipinto in viso, “quando ci eravamo lasciati e provavo a immaginare tuo figlio, lo avevo descritto esattamente così. Biondo, riccioluto, tosto, con le magliette dei gruppi rock e capace di darti lezioni sull’ambiente con tono di supponenza…”
“Beh è anche colpa tua, però…” mi disse divertita, osservando i due francesi che ripiegavano con la coda tra le gambe, mentre Olive gli urlava di recuperare la carta gettata male.
Io chiesi in che universo una cosa così potesse essere colpa mia, dato che me ne stavo beatamente a inquinare con il mio suv e i miei vestiti prodotto dello sfruttamento dei bambini nei paesi sottosviluppati prima di conoscerla, ma lei ridendo scosse la testa e rispose “Sì, questo una volta. Chi è che le ha portate da bambine ai Fridays for future? Chi le ha cresciute leggendo loro gli obiettivi dell’Onu per lo sviluppo sostenibile? E di chi è la responsabilità delle loro scelte per il futuro? Insomma davvero? Biologia e letteratura? Non ci vedi il tuo zampino in tutto questo, uomo che parlava con loro in latino quando erano nella mia pancia?”
Sì, ok era vero. Ma facevo l’insegnante, dannazione e il mio compito era quello di sensibilizzare i giovani, così avevo iniziato da casa mia. Solo che forse, e dico forse, quelle due cresciute a pane e petizioni per salvare foche e delfini si erano sensibilizzate un po’ troppo.
“…e devo davvero ricordarti chi è che ci ha convinti tutti ad andare in Perù per stare due mesi con Artie e dedicare le sue vacanze all’insegnamento dell’inglese ai bambini?” aggiunse, fissandomi con due bellissimi occhi innamorati e allora la baciai. I ragazzini si lamentarono un sacco per quelle nostre coccole, e così le dissi che avrei dovuto provare a lavorare alla loro educazione sentimentale, e così ripresi il mio solito discorso noioso sul romanticismo, e sui personaggi dei romanzi, che di solito li annoiava a morte.
Li tormentai così fino all’imbarco, ma a poche ore dal decollo, mentre Ariel dormiva sulla mia spalla, qualcuno arrivò e si sedette accanto a me soddisfatta.
“Tesoro?” chiesi un po’ confuso, e Audrey mi disse piano “ho finito Miss V…” facendomi ridere.
“Allora quanto è stato strano da uno a ‘oddio i miei genitori fanno sesso’?” le chiesi, perché avevo evitato per due anni di farle leggere quella storia, ma poi una sera in Perù aveva litigato con il fidanzato, non smetteva di piangere e le avevo inviato via mail i primi due capitoli.
“E’ bello papà. E’ tanto dolce sapere che siamo nate da una storia così…” mi disse, stringendosi contro il mio petto, ed io sorrisi soltanto e commentai che almeno ora sapeva che non erano state un errore, ma che le avevo desiderate.
“Dovresti scrivere un epilogo, papà. Concludere la storia, dicendo come sei adesso, sarebbe carino…” concluse serio e allora lo feci.
Presi una penna e scrissi queste ultime parole.
E così eccoci qui, amici, a diciotto anni dalla famosa notte sul Tower Bridge, con un sacco di rughe e tragedie sulle spalle, ma anche più saggi. Forse. O meglio dire qualche volta. Perciò, se mi date il permesso, vorrei chiudere come avevo iniziato.
Questo sono io, Ian Watt. Non sono un fico, non ho particolari abilità oltre a quella di avere ancora i capelli a cinquant’anni, quella di stordire la gente con migliaia di parole inutili e quella di controllare venti ragazzini per volta, ma non sono nessuno, o almeno nessuno di speciale. Faccio l’insegnante, e cerco sempre di non piangere quando le mie classi terminali mi lasciano, ma onestamente non mi riesce benissimo. Sono uno distaccato e autoritario che tiene il silenzio e impone la disciplina? Neanche per sogno, ma riesco comunque a ottenere il loro rispetto e a divertirmi un sacco con loro, e a me basta.
 Sono anche un ex alcolista, diventato a mia volta uno sponsor per i nuovi arrivati. Sono arrivato a quindici, ma non ho intenzione di fermarmi. Adoro i casi disperati, quindi nel tempo libero faccio volontariato in orfanotrofio e cerco di far sorridere i bambini che pensano di non avere nessuno che li ama.
Ho una moglie, bellissima e bionda, che purtroppo ha undici anni meno di me, e quindi non è ancora invecchiata rovinosamente come il sottoscritto. La amo, e penso che nulla nella mia vita avrebbe mai avuto senso senza di lei. Ariel è il presidente della sezione di Greenpeace di Londra da qualche anno, e gestisce un sacco di eventi e raccolte fondi, a cui spesso partecipano anche loro, il mio enorme orgoglio: i quattro ragazzi Watt.
Il mio figlio più grande, dopo aver capito che lo studio non era esattamente adatto a lui, ha iniziato a lavorare per una serie di associazioni, e poi si è innamorato di una ragazza peruviana di nome Linda, che ci ha convinti tutti ad andare a fare volontariato lì. Non so se e quando Artie tornerà, so solo che prima di salutarci ci ha detto che vorrebbe sposare Linda, e noi siamo molto felici per lui. 
Numero due e tre della famiglia, sono due terribili gemelle, in piena adolescenza, che fanno di tutto per incasinarmi la vita, ma che sono brillanti e speciali. Hanno ereditato tutto dalla signora madre: la bellezza, il desiderio di salvare il mondo e aiutare gli animali, l’intelligenza e anche la capacità di farti sentire come se fossi un povero sfigato se butti la carta nella plastica, come aveva appena appreso il mio amico francese. Ero orgoglioso da morire di loro, ma anche del mio piccolo ragazzo timido. Joshua, un ragazzo di tredici anni con i capelli rossi e pieno di lentiggini esattamente come me. Pacato, timido e amante dello sport ma anche del cinema, come suo padre.
Mia moglie sostiene sempre che Josh sia quello più simile a me, nonché quello che ci darà più preoccupazioni, ma per ora non è mai successo. Tutti i miei figli sono legati alla famiglia, ma lui ha un legame speciale con i suoi nonni, Raul e Matt, ed entrambi sostengono che sia uguale a loro, ma lui in realtà era troppo straordinario per assomigliare a qualcuno. E così, amici, questi siamo noi, Miss V e la sua sgangherata famiglia, e spero che siate stati felici di conoscerci.
 Nota:
Eccoci qua, abbiamo finito un'altra storia. Io mi commuovo sempre un po' quando devo salutare i miei personaggi. Spero vi sia piaciuto il percorso di Ian e di V, e di non aver deluso le vostre aspettative. Grazie a tutti per aver letto questa storia e spero di "leggervi" presto, anche con altre storie. Un abbraccio
 
   
 
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