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Autore: edoardo811    27/09/2021    4 recensioni
La Foschia è svanita. I confini del campo sono scomparsi e ora tutto il mondo può vedere i mostri per quello che sono realmente.
DANIEL non è mai stato un ragazzo socievole, per un motivo o per un altro, si è sempre trovato meglio da solo, lontano da tutti, perfino dal Campo Giove. Nemmeno i mostri hanno mai provato ad ucciderlo, come se non fosse mai esistito realmente.
CAMILLE è un pericolo, per sé stessa e per gli altri, una figlia di Trivia abbandonata in fasce, indesiderata, costretta a convivere con un lato di sé che non vuole fronteggiare, per paura di quello che potrebbe scatenare.
KIANA è una figlia di Venere, orgogliosa e testarda, che dovrà fare i conti con le conseguenze delle sue azioni.
Tra auguri scansafatiche, eroici pretori e conflitti interiori nel Campo Giove, tre ragazzi diversi tra loro, tre nullità della Quinta Coorte, si ritroveranno con un obiettivo comune: imbarcarsi in un viaggio tra mostri, traditori, nuovi e vecchi nemici per impedire che il mondo sprofondi nel caos.
Genere: Avventura, Fantasy, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Dei Minori, Ecate, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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I

Una pessima giornata

 

 

Il mattino era sempre la parte più difficile della giornata, per Daniel. Il sole filtrava dalle finestre, la sua luce accecante batteva sul suo volto dopo una lunga notte insonne, scacciando via il buio a cui si era abituato. Dei, quanto lo odiava.

«Alzati García!» gridò qualcuno. Il ragazzo spostò lo sguardo accanto al suo letto, dove un fantasma viola lo stava osservando infastidito. «Non fare arrivare tardi i tuoi compagni un’altra volta!»

Daniel allontanò il suo sguardo annoiato da lui, sospirando pesantemente. Aveva provato un miliardo di volte a spiegare a Vitellio che non lo faceva di proposito, che davvero di mattina non si sentiva mai bene, ma quello continuava a urlargli di essere solamente un pigro, uno scansafatiche, un hircus exsuccus e così via.

Si mise a sedere a fatica, massaggiandosi tra i capelli neri come il carbone, mentre il lare continuava girare per la stanza urlando e sbraitando. Per essere un morto ne aveva di energie.

«Buongiorno Daniel» lo salutò David dal letto accanto al suo, mentre si stiracchiava.

«Buongiorno…» rispose lui. La sua voce era roca di natura, ma quando era anche impastata dal sonno uscivano sempre versi gutturali che ricordavano quelli di un animale incattivito. Per fortuna i suoi compagni di stanza ormai si erano abituati.

Travis saltellò di fronte a loro come nella corsa coi sacchi per infilarsi nei pantaloni, schivando gli altri ragazzi che andavano e venivano. Naturalmente inciampò, suscitando le ire di Vitellio.

Dopo essersi dato una ripulita in bagno, Daniel indossò un paio di jeans neri e la maglietta viola del campo. Afferrò sul comodino la sua piastrina da probatio, infilandosela in tasca con una smorfia. Grazie agli dei – ma non al suo genitore divino – il suo anno di servizio al Campo Giove stava per finire. Già essere non riconosciuto dopo i sedici anni lo rendeva una specie di appestato, essere anche un novellino che non aveva ancora dimostrato di meritarsi di salire di rango non faceva che peggiorare le cose. Concluse indossando un maglione blu scuro, che gli diede una sensazione di gradevole familiarità.

Nei corridoi del dormitorio incrociò gli altri membri della Quinta Coorte. I due centurioni guidavano la folla, scambiandosi parole non molto cortesi con Vitellio che continuava ad urlare loro di sbrigarsi.

«Buongiorno Daniel!» esordì Camille, apparendo accanto a lui con un ampio sorriso. «Come stai?»

Daniel rispose con un mugugno e la ragazza ridacchiò, per poi farsi più apprensiva. «Dormito bene?»

Il ragazzo spostò lo sguardo su di lei incrociando i suoi occhi color ametista. Quel colore lo aveva sempre incuriosito. Si domandava sempre se fosse naturale o se fosse stata lei a renderli così con la magia.

«Sì, stranamente sì» ammise, stringendosi nelle spalle. «È stata una notte tranquilla.»

Camille annuì, spostandosi una ciocca di capelli albini dietro l’orecchio. Di solito li teneva chiusi in una crocchia, ma forse quella mattina non aveva avuto tempo di farsela. «È una bella cosa, no?»

«Credo… di sì.»

«Ehilà, zombie.» Qualcuno gli sferrò una sonora pacca sulla schiena, facendogli serrare le labbra. Riconobbe immediatamente quella voce e, soprattutto, quella mano capace di frantumare una pietra.

Kiana lo affiancò con il suo solito sorrisetto arrogante. O meglio, torreggiò. Quella ragazza era alta almeno un metro e novanta, con braccia scolpite e il fisico tonico. A prima vista nessuno l’avrebbe davvero scambiata per una figlia di Venere. Da come si allenava – e da come picchiava, anche – pareva più una figlia di Marte.

«Sì, ehilà…» mugugnò lui, ricacciando indietro parole peggiori.

«Dai, Kiana» la rimproverò Camille, trattenendo a stento una risatina. «Lo sai che di mattina è un po’ suscettibile.»

«Oh, lo so.» Kiana gli sferrò un’altra pacca. «Lo so molto bene.»

Daniel serrò le labbra, decidendo di lasciar perdere con un sospiro, mentre le due ragazze ridacchiavano. A distanza di così tanto tempo, ancora non capiva perché quelle due si ostinassero ad essere amichevoli con lui e non lo ignorassero invece come faceva tutto il resto del Campo Giove.

Non piaceva molto alle altre coorti, Daniel. Nemmeno ai lari, o ai fauni. E se perfino i fauni preferivano stargli lontano piuttosto che chiedergli spiccioli, significava che forse c’era davvero qualcosa che non quadrava in lui. Ma non era un problema; meno gente che gli parlava significava meno ronzii fastidiosi per le sue orecchie.

Come tutte le mattine, nella mensa l’aria era satura di elettricità. Occhiate velenose volavano in ogni direzione, da parte di tutte le coorti. Il bersaglio preferito, però, era sempre la quinta. Non che a Daniel importasse granché, a dire il vero. La sua preoccupazione maggiore era riuscire a farsi riconoscere e, soprattutto, stare alla larga dai guai.

E anche cercare di capire che cosa significassero quei maledetti incubi che lo assalivano da mesi e mesi.

Rimase a mangiare in silenzio, mentre accanto a lui Camille e Kiana chiacchieravano serene. Quelle due erano poli opposti: una era bassina, gracile e un po’ impacciata, la pelle pallida come un lenzuolo e i capelli albini che le arrivavano al collo; l’altra era alta, il corpo a clessidra con muscoli ben definiti, la pelle scura e un’impressionante chioma di capelli che dal castano tendevano al nero.

Formavano una strana coppia, eppure erano inseparabili. E, per qualche motivo a Daniel ancora sconosciuto, avevano cercato di includere anche lui in quella cerchia, quando era arrivato al Campo Giove quasi un anno prima.

Forse serviva uno di altezza e corporatura media per fare da mezzano.

«García.»

Daniel drizzò la testa dal suo doppio – anche triplo, quadruplo – caffè, trovandosi di fronte gli occhi di ghiaccio di Marianne, che lo scrutavano severi dall’altra parte del tavolo. Quella ragazza aveva appena diciott’anni, eppure sembrava già una trentenne, con il volto un po’ scavato e i capelli mossi che scendevano ai suoi lati come tende.

«Quando hai finito qui, vai al tempio di Giove. L’augure vuole vederti.» Il centurione si allontanò senza nemmeno attendere una risposta.  

«L’augure?» domandò Cam, stupita.

«Che hai combinato, zombie?» Kiana spalmò della marmellata su un toast, rivolgendogli un ghigno.

Daniel scosse la testa, sorpreso tanto quanto loro. «Non ne ho la più pallida idea.»

Vide Camille giocherellare nervosamente con uno dei suoi orecchini a forma di triquetra, che indossava come rimando a sua madre Trivia. «Forse… vuole chiederti dei tuoi sogni?»

«Non credo. Voi siete le uniche con cui ho parlato dei miei incubi.»

L’espressione della ragazza cambiò all’improvviso, facendosi angosciata. «D-Davvero? Non l’hai detto a nessun altro?»

«No.»

Camille distolse lo sguardo da lui, facendo di tutto per non incrociarlo più. Daniel serrò le labbra, percependo un’impellente sensazione di fastidio. «Cam?»

«S-Sì?»

«Hai parlato a qualcuno dei miei sogni?»

Nessuna risposta. Quelle iridi viola rimasero incastonate sul piatto di brioches integrali riposto sul tavolo. E la cosa non fece che irritarlo ancora di più. «Si può sapere perché l’hai fatto?!» sbottò, con voce più alta di quanto avrebbe voluto.

Diversi sguardi si posarono su di lui, facendolo irrigidire. Odiava quando gli altri lo fissavano. Si ricompose prima che Marianne arrivasse a conciarlo per le feste e si voltò di nuovo verso Cam, usando un tono più moderato: «Te ne ho parlato in confidenza, ricordi? Doveva essere solo una cosa tra di noi!»

«Ehi, ehi, zombie.» Kiana si sporse verso di lui, scrutandolo severa con i suoi occhi cangianti. «Non prendertela con lei. È soltanto preoccupata per te. Voleva aiutarti.»

Daniel grugnì, distogliendo lo sguardo da lei.

«Ho… ho soltanto detto che facevi fatica a dormire, e che eri… turbato» mormorò Camille.

«E a chi l’avresti detto?»

Camille farfugliò qualcosa, con voce così fioca che Daniel ebbe perfino il dubbio che avesse parlato. «A chi, scusa?» ripeté.

«A-Ashley» bisbigliò Cam, per poi voltarsi – saggiamente – da un’altra parte.  

«ASH-» Daniel si zittì quando altre dieci teste si voltarono verso di lui. Marianne lo folgorò con un’occhiataccia, mentre il suo collega centurione, Allen, sospirava scuotendo la testa. I gemelli Vega sghignazzarono, mentre David volse uno sguardo angosciato verso la loro direzione.

Travis, invece, si sbracciò verso uno dei vassoi fluttuanti per chiedere il bis, la bocca e la maglietta ricoperte di briciole.

«Ashley?» ripeté lui, sentendo il sangue ribollirgli nelle vene. «Di tutte le persone a cui avresti potuto dirlo, proprio Ashley?!»

«È… è il nostro pretore» provò a spiegare Camille. «A chi altro avrei potuto dirlo?»

«Magari a nessuno!»

Cam non rispose. La paura, lo sconforto e la tristezza che trapelavano dal suo sguardo erano così forti che Daniel avrebbe quasi potuto toccarle con le dita.

«Dacci un taglio, Daniel» sbottò Kiana, posandole una mano sulla spalla per tranquillizzarla. «C’ero anch’io con lei. L’idea è stata di tutte e due. Se vuoi arrabbiarti, allora prenditela anche con me.»

La figlia di Trivia la osservò stupita, mentre Daniel serrava le labbra. Sapeva riconoscere le bugie quando le sentiva e Kiana ne aveva appena detta una. Stava solo cercando di proteggere Camille. Tuttavia, decise di lasciar perdere una volta per tutte. Ormai quell’impicciona aveva spifferato tutto, arrabbiarsi non sarebbe servito a nulla.

Anche se tra tutte le persone, Ashley era di gran lunga l’ultima che avrebbe voluto scoprisse che di notte aveva gli incubi.

Si alzò dal tavolo senza curarsi di finire di mangiare, la fame ormai gli era passata del tutto. Lanciò un ultimo sguardo verso le sue “amiche” e fece una smorfia. «Mi ricorderò di non dirvi mai più nulla.»

Se ne andò senza nemmeno attendere una risposta. Per tutto il tempo sentì gli sguardi di quelle due puntati sulla sua schiena.

 

***

 

Percorse la Via dei Templi cupo in volto, mentre il sole picchiava con insistenza su di lui, irritandolo. Avrebbe dovuto smetterla di vestire con colori scuri.

Il suo sguardo scivolò su tutte quelle costruzioni dedicate agli dei e gli altarini stipati di doni per loro. Lì in mezzo avrebbe dovuto esserci anche quello dedicato al suo genitore, eppure ogni volta che il suo sguardo passava sopra tutti quei palazzi stravaganti non riusciva a provare nulla. Nessuno di quei templi gli diceva mai nulla. Il tempio di Bellona, quello di Mercurio, quello di Giove, di Plutone, non sentiva di avere niente da spartire con nessuno di loro. E lo stesso valeva per quelli delle divinità minori.

Ogni volta che passava di lì, ogni volta che li osservava, si sentiva un estraneo. Si sentiva come se in realtà non appartenesse a quel luogo. E i suoi sogni non facevano altro che alimentargli questa convinzione.

Sapeva che Camille aveva cercato di aiutarlo, ma non riusciva a capire perché. Che cosa sperava di ottenere? Non lo voleva il suo aiuto. Detestava quando gli altri si impicciavano nei suoi affari. Ormai era troppo tardi. Avrebbe incontrato l’augure e avrebbe sentito che cosa aveva da dirgli, sperando che non si trattasse di domande proprio sui suoi incubi, perché non gli andava affatto di parlarne.

A Camille e Kiana non aveva mai raccontato che cosa vedesse in quei sogni. Aveva soltanto detto che faticava a dormire per causa loro. Non aveva raccontato loro delle voci che sentiva e che – con quella lingua che era certo di non avere mai sentito in vita sua, che però in qualche modo lui sapeva comprendere – gli ordinavano di distruggere il Campo Giove. Non aveva raccontato delle visioni terrificanti che lo perseguitavano, di quella terra che sembrava ribollire, con creature disumane che vi si riversavano fuori come eruttate da essa, qualcosa che la sua mente non avrebbe potuto, e dovuto, comprendere.

Non aveva idea di come avrebbero potuto reagire Camille e Kiana sentendo qualcosa del genere. Non voleva nemmeno saperlo.

Il tempio di Giove apparve di fronte a lui. Era di gran lunga il tempio più grosso e maestoso di tutta la via: la sua figura si poteva intravedere dal campo, come se Giove cercasse di attirare l’attenzione di tutti in qualsiasi momento. E soprattutto come se volesse ricordare a tutti gli altri dei che i loro templi rispetto al suo erano insignificanti.

Ora Daniel sapeva da chi avesse preso Ashley.

Superò le ampie colonne all’ingresso e s’avviò verso l’altare su cui l’augure compiva i rituali. Il suono dei suoi passi riecheggiò sul pavimento di marmo, dispendendosi nell’ambiente silenzioso, mentre avvertiva le spalle rilassarsi: nell’ombra del tempio, lontano dalla luce del sole, si sentiva molto meglio.

Si guardò attorno, corrucciando la fronte. In un angolo vide alcuni pupazzetti di peluche squartati e buttati a casaccio: orsetti, leoni, lupacchiotti, perfino una zebra.

«Dante?» chiamò, incerto. Nessuna risposta. L’augure non c’era. Daniel sbuffò. «Che perdita di tempo.»

S’avvicinò alla gigantesca statua di Giove posta al fondo del tempio, dietro all’altare. Osservò quell’omaccione dal basso, concentrandosi sul suo sguardo severo e austero. Era solo una statua, eppure sentì la propria schiena formicolare in sua presenza.

Avvertì una sensazione strana, sgradevole, come se si trovasse di fronte ad un nemico. Lo sguardo rigido dell’uomo scolpito lanciava lo stesso messaggio con cui anche le voci nei suoi incubi amavano torturarlo: “Non appartieni a questo luogo.”

Daniel fece schioccare la lingua. «E cosa pensi di fare a riguardo? Vuoi forse cacciarmi?» La statua non disse nulla, e il ragazzo annuì. «Già, lo immaginavo.»

Si accorse di decine e decine di fogli sparsi sopra l’altare. Rotoli di pergamene, mischiati a blocchetti degli appunti, post-it e perfino pagine di quaderni scolastici a righe e a quadretti. Erano ricoperti di scritte in latino, greco e inglese.

Un forte ronzio attirò la sua attenzione, facendolo sussultare. Arrivava da dietro l’altare. Daniel fece il giro, con passo lento, e spalancò gli occhi. Chiuso in un sacco a pelo lunghissimo, incastrato tra l’altare e la statua di Giove e intento a russare beato, c’era un ragazzo con un delirio di capelli castani e spettinati sopra la testa e una barba corta.

Eccolo lì, l’augure, Dante. Non aveva niente a che vedere con il poeta da cui prendeva il nome, ma chiaramente la progenie di Apollo adorava avere nomi aulici, forse per compensare il fatto che nella realtà non avessero niente d’interessante.

Non era sicuro che si potesse dormire lì dentro, ma dopotutto Dante non era esattamente un semidio modello da seguire. E in ogni caso il ruolo dell’augure non aveva più la stessa importanza di un tempo, dopo che uno di loro aveva quasi causato la fine del mondo, una ventina di anni prima. Ormai era un titolo come un altro, che soltanto i più pigri e scansafatiche decidevano di assumere per evitare d’allenarsi e di combattere. Dante era un maestro in quello. Non aveva idea del perché l’avessero mandato lì, ma era certo che ci fosse lo zampino di Ashley dietro.

Lo punzecchiò con il piede per svegliarlo.

«No, dai, Babbo Natale… sono stato buono quest’anno, lo giuro…» Dante si rigirò dall’altra parte, russando come una mietitrebbia.

Daniel alzò gli occhi al cielo, sospirando profondamente. «Magnifico.»

Riportò l’attenzione sui fogli scarabocchiati, concentrandosi sulle scritte che poteva comprendere.

 

Un giuramento verrà infranto. 4 stelle su 5 –Rotten Tomatoes.

Il Caos e la Morte nel mondo irromperanno. Diretto da J.J. Abrams nel 2004. 

E con la morte di un araldo, essa dovrà terminare. Da servire freddo.

 

«Ma… ma che diamine…» bisbigliò Daniel, scorrendo tra i fogli. Tutte le frasi erano così. Cominciavano con qualcosa di cupo e minaccioso, morte, tenebre, sangue, e si concludevano con assurdità come recensioni di film, ricette di cucina o pettegolezzi vari.

Un verso era cerchiato di rosso.

 

Un mezzosangue dall’Abisso ascenderà. 

La Notte più profonda con sé porterà.

 

Non c’erano altre frasi. Nessuno sproloquio assurdo su qualche serie televisiva, nessun segreto su come rendere la carne più tenera o chissà che altro. Solo quello.

Un lungo brivido percorse la schiena di Daniel, mentre si rendeva conto che doveva essere il verso di chissà quale profezia. I suoi occhi si impressero sopra quelle due parole. Abisso. Notte.

Come nei suoi incubi.

Un urlo lo fece sobbalzare. Si dimenticò dei foglietti di carta e fece per correre a perdifiato fuori dal tempio, quando si accorse di Dante seduto sopra il sacco a pelo. Era lui che stava gridando.

«AAAAAAH! Ah… ah…» fece poi, una volta calmo. Si massaggiò tra i capelli, prima di chiudere gli occhi e crollare di nuovo nel sacco. «Era… solo un sogno… solo un sogno…» mugugnò, con voce impastata. Un paio di secondi dopo e stava già di nuovo russando.

Non s’era nemmeno accorto di non essere solo nel tempio. Con il cuore che batteva all’impazzata per lo spavento, Daniel rimase a osservare il ragazzo addormentato senza né fiato né parole. «Ehi! Svegliati, Dante!» esclamò, alzando la voce. Quell’altro lo ignorò beatamente.

Daniel alzò gli occhi al cielo e si accovacciò accanto al sacco a pelo, prima di iniziare a strattonarlo. «Svegliati!» urlò.

«Non urlare, sto dormendo» si lamentò l’augure, ancora più disordinato di prima.

«Ma sei tu che mi hai detto di venire!»

«Mh?» Dante riaprì un occhio. Ci impiegò un po’ più del dovuto, poi la sua vista appannata dovette riuscire a metterlo a fuoco. «Ah… okay…»

Si liberò dal sacco a pelo e si stiracchiò, con un altro rumoroso sbadiglio. «Certo che potevi venire ad un orario più consono…»

«Ma se è mattina!»

«Eh? Davvero?» Con uno sforzo che ricordava quelli di Daniel quando si allenava sulla sbarra, Dante s’issò in piedi reggendosi all’altare.

«Oh» fu il suo unico commento, quando si accorse del sole mattutino che illuminava il tempio. «Beh… immagino di aver fatto un po’ tardi ieri notte» aggiunse, mentre si grattava il fondoschiena, sopra la tunica.

Ed eccolo, l’augure del Campo Giove, in tutto il suo splendore. Colui che de facto deteneva il maggior potere dopo i pretori e il Senato.

«Allora…» cominciò Dante, afferrando una tazza sopra l’altare. Doveva arrivare dalla mensa, perché si riempì da sola fino all’orlo di un liquido scuro e fumante, sicuramente caffè. Ne sorseggiò un po’, mentre lo studiava con attenzione con i suoi occhi iniettati di sangue.

Nonostante Dante non fosse un combattente, Daniel si sentì comunque a disagio di fronte a quello sguardo inquisitorio. Sembrava capace di leggergli nell’anima, e forse c’era un briciolo di verità in quello. Magari aveva visto il suo futuro in qualche profezia senza nemmeno saperlo. Magari era a conoscenza di verità sconvolgenti su di lui, qualcosa che non si sarebbe mai immaginato di sentire. Poteva sembrare innocuo quanto voleva, ma rimaneva l’augure, non andava sottovalutato.

«… scusa, ma perché ti ho chiamato?» disse Dante in quel momento, interrompendo i suoi pensieri.

«E io che cavolo ne so?!» rispose Daniel. «Sei tu che dovresti saperlo!»

L’augure sorseggiò altro caffè, mandandolo giù facendo gli stessi rumori che avrebbe fatto un bambino con un frappè di frutta.

«Non me lo ricordo» concluse, sollevando le spalle.

Daniel schiuse le labbra. Aveva sempre saputo che quel tizio avesse qualche rotella fuori posto, ma non si era mai aspettato qualcosa di simile. Realizzò che le sue riflessioni di poco prima erano state inutili. Dante era pericoloso tanto quanto un fauno. Anzi, forse un fauno avrebbe fatto più danni.

Per un momento, Daniel ponderò se suggerirgli o meno che forse l’aveva chiamato per domandargli dei suoi incubi, ma esitò. Alla fine, aveva fatto ciò che gli avevano chiesto, era andato dall’augure. Mica era colpa sua se quell’altro non aveva idea del perché volesse parlargli.

«Tu sei ancora in probatio, giusto?» gli domandò Dante all’improvviso, dandogli le spalle. Posò la tazza e cominciò a rovistare tra i fogli sparsi sull’altare. «Perdona il disordine, stavo… ehm… sistemando, ma… mi sono addormentato per caso. Sì. Per caso.»

Daniel ignorò le sue confabulazioni e rispose alla prima domanda, con un moto di stizza. «Sì…»

«E quanti anni hai?»

«Quasi diciassette…»

Dante si voltò di scatto verso di lui, con un luccichio folle negli occhi. «Interessante. Non sei stato riconosciuto dopo i sedici anni. E sei arrivato con tre anni di ritardo al Campo Giove, giusto?»

«Ehm… sì.»

Lo sguardo dell’altro non mutò affatto. Si gratto la barba, mentre un lungo mugugno gli scappava dalle labbra chiuse. «Curioso, non trovi?»

«In realtà, no. È solo fastidioso» sbottò Daniel, domandandosi perché gli stesse facendo quelle domande. Era una storia risaputa la sua, ormai. Tutte le coorti erano a conoscenza del ragazzo arrivato tardi al campo e con un genitore che non sembrava affatto desideroso di riconoscere il proprio figlio.

Ricordava i due pretori quando l’avevano interrogato il giorno del suo arrivo. Ashley ed Elias l’avevano osservato come un roditore riuscito a evadere da qualche laboratorio segreto. Gli avevano chiesto come avesse superato le selezioni di Lupa, e lui aveva risposto che non aveva idea di chi fosse questa Lupa.

Aveva quindi scoperto che l’unico modo per arrivare al Campo Giove era passare prima per la Casa del Lupo, dove la dea Lupa metteva alla prova i semidei romani per stabilire se erano pronti o meno per il Campo Giove, e lui non aveva fatto niente del genere.

Sua madre era morta quando era un neonato, non ricordava nemmeno di averla mai conosciuta, e a quanto pareva suo padre era un dio che si era dato alla macchia. Aveva vissuto in orfanotrofi e case famiglia finché non aveva compiuto quindici anni, poi era scappato. E in qualche modo, un anno più tardi, era finito lì nella Bay Area.

Naturalmente, in qualche modo non era una spiegazione convincente, ma era la verità. Si era sentito come se qualcosa lo avesse spinto in quella direzione. E quando aveva scoperto la verità sul mondo che lo circondava non aveva nemmeno battuto ciglio. Dentro di sé, era stato come se avesse sempre saputo che fosse tutto vero, che gli dei esistevano veramente e che tutte le favole sui grandi eroi del passato in realtà non erano affatto favole.

Gli avevano chiesto come aveva fatto a sopravvivere ai mostri, e lui per tutta risposta aveva detto di non averne mai visto uno. E anche questo era vero. Gli avevano insegnato che, come esistevano gli dei, esistevano anche i mostri che li avevano combattuti, e che si divertivano ad andare a caccia di semidei per sterminarli, ma lui non ne aveva mai incontrato uno. Per qualche motivo, non erano sembrati interessati a lui.

«Forse perché è così debole da non emanare nulla» aveva suggerito un senatore, con un ghigno divertito.

Alla fine, dopo un lungo processo al Senato, per stabilire se accoglierlo o meno vista la situazione straordinaria in cui erano capitati, Ashley, dall’alto della sua benevolenza, l’aveva scaricato alla Quinta Coorte, facendolo sembrare come il gesto più eroico e altruista di sempre.  

C’era anche Dante durante quel processo. Era rimasto seduto in disparte a sonnecchiare per tutto il tempo e nessuno si era preso la briga di svegliarlo. Forse era per questo che ora gli stava facendo quelle domande.

«Su, su. Presto ci sarà la Festa della Fortuna» lo incoraggiò proprio l’augure, mentre era chino sull’altare, girato di spalle. «Magari il tuo genitore si farà vivo lì!»

«Siamo a ottobre» mormorò Daniel, sempre più incredulo. Non capiva se quel tizio lo stesse prendendo in giro o no.

Dante smise di armeggiare con le pergamene e si voltò di nuovo verso di lui. «Cos… davvero?!»

Un lungo sospiro sfuggì dalle labbra di Daniel. Più tempo trascorreva con quel tizio e più si sentiva contagiato dalla sua idiozia. «Posso andare ora? Ritornerò se ti torna in mente cosa dovevi dirmi.»

«Ah, sì, cer…» Dante si interruppe. Un sorrisetto apparve sul suo volto stropicciato. «Aspetta, ora ricordo! Avevo chiesto che qualcuno venisse ad aiutarmi a riordinare qui!»

Daniel inarcò un sopracciglio. «Davvero?»

«Sì, sì! Vieni, forza» lo invitò l’augure, sollevando una manciata di fogli. «Aiutami con questi!»

«Stai cercando una scusa per non fare tutto da solo?» domandò l’altro, per nulla convinto, mentre lo affiancava.

«Nooooo, ma come ti viene in mente?»

Se Daniel avesse avuto un pizzico di malizia in più gli avrebbe chiesto di giurare sullo Stige, ma sapeva che era meglio non turbare la dea più del dovuto. Non era famosa per la sua gentilezza. A volte si domandava se fosse proprio figlio suo.

Decise comunque di non discutere e di rimanere ad aiutare Dante. Non era affatto in vena di tornare così presto da Camille e Kiana. Afferrò i fogli e cominciò ad impilarli, ma Dante si alterò. «Fermo, fermo, ma che fai?! Devi metterli in ordine!» Indicò un numerino minuscolo, riposto sull’angolo in basso di un post-it. «Ecco, vedi? Sono numerati.»

Daniel ricacciò un altro sospiro e si diede da fare.

«Che cosa significano queste frasi?» disse, dopo un attimo di silenzio in cui il fruscio della carta fu l’unico rumore a riempire il tempio vuoto. Rivolse un’occhiata angosciata a quel verso cerchiato di rosso che l’aveva attirato prima, ma Dante non se ne accorse, preso com’era dallo sfogliare i post-it.

«Oh… ehm… niente di che» disse proprio l’augure, strappandogli dalle mani un pezzo di carta che recitava: “Con la sparizione del velo invisibile, apparirà la minaccia più temibile. Aggiungere una scorza di limone.” «Non… non li hai letti, vero?»

La domanda dell’augure sembrava tanto una supplica quanto una minaccia. Daniel corrucciò la fronte. «No…» mentì.

Dante sembrò riprendere a respirare correttamente all’improvviso. «Uh, bene. Aiutami a rimettere in ordine e… ehm… non leggere, per favore.»

«Okay…» borbottò Daniel, decidendo di lasciar cadere la questione e imponendosi di darsi una mossa per alzare al più presto i tacchi da lì.

Non passò molto prima che trovasse due fogli diversi con lo stesso numero. Quando lo fece presente a Dante, quello corrucciò la fronte. «Uhm… hanno “A” o “B” accanto al numero?»

«Non hanno niente» mugugnò Daniel.

«Ehm… tienili da parte, poi vediamo…»

Daniel si rabbuiò ancora di più: quella giornata si preannunciava peggiore del solito.

 

 

 

 


Ehilà gente. Sì, sono di nuovo io. Sì, continuo a rompere le scatole con queste stupide storie. Ehm… no, non smetterò, scusate. 

A tutti i lettori neofiti, salve, e benvenuti. Questa è una storia creata con personaggi originali, ambientata nel Campo Giove e in questo universo post-libri che ho creato, con personaggi originali, senza più gli eroi della vecchia guardia, quindi non ci saranno i vari Percy, Frank, Hazel, Leo, eccetera, ma verranno menzionati di tanto in tanto. Rimangono, tuttavia, tutti i personaggi immortali, Talia, Reyna, Chirone e gli dei ovviamente.

Ho scritto anche una storia ambientata nel Campo Mezzosangue, la Spada del Paradiso, di cui consiglio la lettura. Non è proprio fondamentale per capire questa storia qui, ma ci saranno molti rimandi ad essa. 

Altra cosa che voglio precisare, la premessa di questa storia è simile a quella di un’altra utente, di nome partyponies, chiamata “Dietro la Foschia” che è stata scritta quest’anno. Vorrei dire che l’idea per questa storia ce l’avevo in mente già da molto tempo, durante la stesura della Spada del Paradiso, quindi vi parlo del 2019/20, adesso non ricordo bene, ma non l’ho mai iniziata perché ero preso dalla Spada, e poi ho scritto l’Elisir, e non sono capace di portare avanti troppe cose alla volta.

Quindi, insomma, non si tratta di plagio, o copie o cose così, anche perché non credo nemmeno che siamo gli unici due a toccare questo argomento, e comunque ho letto Dietro la Foschia e posso assicurare agli altri che l’hanno letta che le nostre due storie divergeranno un bel po’.

Ok, adesso mi rivolgo perlopiù a chi mi conosce già. Dunque, questo trio di romani ce l’avevo in mente da tanto tempo, dai giorni in cui ancora stavo scrivendo la Spada del Paradiso. Certo, ovviamente hanno subito cambiamenti, e Daniel non aveva un nome, nemmeno le altre due in realtà, con lui ho fatto più fatica, però alla fine ho iniziato ad apprezzarlo come nome. 

Dunque, questa storia, come si evincerà in futuro, è ambientata dopo i fatti della Spada del Paradiso, quindi comunque rientra in quel canone e rientra nella serie. Avrebbe dovuto essere questo il seguito non ufficiale, all’inizio, ma poi è nata l’idea per l’Elisir di lunga vita e ho voluto prima finire quello, visto che, cronologicamente, si pone un pochino prima di questa storia. 

Comunque questo primo capitolo è solo un teaser, non credo che aggiornerò questa storia per diverso tempo, prima voglio finire l’Elisir, e poi devo anche finire la raccolta (ebbene sì gente, presto rivedremo il nostro quintetto originario). Però comunque, ecco, ci tenevo a pubblicare questa storia, perché… boh, non so, volevo farlo.

Beh, che dire gente, grazie mille per aver letto e ci becchiamo alla prossima!

 

 

   
 
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