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Autore: SkysCadet    02/10/2021    0 recensioni
La cittadina di Filadelfia sembra un borgo tranquillo, in cui la gente comune passa la giornata senza occuparsi degli strani avvenimenti che accadono da diverso tempo. Tuttavia, Simon si ritrova - suo malgrado - a combattere per la salvezza delle anime sfuggite al potere dei Lucifer. Tra questi c'è Joshua, un ragazzo con un dono particolare. Il giorno in cui Ariel - una matricola impulsiva dell'università di Filadelfia - lo incontra per la prima volta, capisce che in lui c'è qualcosa di diverso dagli altri ragazzi. Solo un nome sembra in grado di cambiare il corso degli avvenimenti, un nome che i Lucifer non possono nominare...
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La pioggia battente picchiettava sull'ampia finestra posta al lato del corridoio del terzo piano del Centro di aggregazione, creando rigagnoli d'acqua trasparente; una pioggia che cadeva copiosa sugli alberi di pepe rosa che ornavano il cortile del Centro e visibili dal punto in cui Ariel era in attesa di parlare con Simon, con i palmi sul davanzale di marmo, immersa in oscuri pensieri che le fecero appoggiare la fronte al vetro dell' ampia finestra, chiudendo gli occhi in un lungo sospiro.

Da lì, poté vedere l'arrivo di Heliu e Lucia che correvano schizzando dalle pozzanghere, completamente sudici d'acqua ma stretti l'uno a l'altra sotto la giacca di pelle del ragazzo.

Non avrebbe voluto vedere anche quella scena che le procurò fitte allo sterno come stalattiti conficcate nell'animo.

Così si voltò verso la porta, dopo aver atteso il coraggio di comunicare a Simon la sua volontà: andare alla festa annuale del Dark Lithium.

Era la festa a cui tutti i laureandi cercavano di infiltrarsi e che si svolgeva nel lido appartenente alla famiglia Damian ogni anno da almeno cinque estati e Ariel non era mai riuscita ad entrarci, osservando dal parapetto del lungomare le giovani figure dei colleghi dell'università muoversi sinuosamente, al suono della tipica musica latina del Dark Lithium.

Dopo tutto quel pensare, Ariel bussò leggermente alla porta di legno massello dello studio di Simon, quasi senza sfiorare la superficie legnosa e ruvida, aspettando il suono delle parole del padre che la invitavano ad entrare.

«Avanti!»

Aprendo la porta vide Simon con la fronte poggiata sui polpastrelli della mano destra, con gli occhi chiusi e il respiro concitato.

Ariel deglutì in un momento di ripensamento.

Cosa stai facendo, Ariel?

Una voce, risalente dal cuore palpitante, la richiamò, mentre si avvicinava lentamente alla scrivania.

«Simon...» disse, incerta.

«Sì, Ariel. So già cosa vuoi dirmi.»

Ariel fece un profondo sospiro, chiudendo gli occhi e serrando la mascella, decisa nel compiere il suo proponimento, qualunque cosa le avrebbe detto Simon.

Così attese, stringendo le braccia al petto, senza sedersi.

«Non penso, certo, che tu voglia chiedermi il permesso per andare alla festa del Dark Lithium...» sospirò il padre, volgendo lo sguardo accigliato alla giovane «Tuttavia, speravo che il mio parere contasse di più per te.»

La ragazza avvertì un colpo al cuore, considerando quelle parole come una lama affilata, capace di ferire l'anima, con rude sincerità.

«Quindi, è così. Hai deciso anche tu di non credermi»

La voce di Simon era un soffio flebile, di chi è stanco di pronunciare parole che sarebbero state gettate al vento; lo sguardo duro e scavato dalle occhiaie, le incuteva timore.

Così si avvicinò alla scrivania, accarezzandone i bordi levigati con i palmi sudati.

«Io voglio solo trovare Joshua» disse, fissando gli occhi nei suoi e curvando la schiena nella sua direzione.

«No» rispose atono il padre, «tu vuoi vendicarti di Acab.» guardando oltre la sua figura.

«Può essere» commentò, abbassando il mento.

«E pensi sia così semplice? Sei davvero così sicura di cavare dalla bocca di Acab la verità?»

«Certo che no!»

«E allora cosa farai di fronte ad un seduttore come Acab?»

«Farò quello che lui ha fatto a me»

Le labbra di Simon scomparvero nella folta barba rossiccia e gli occhi nocciola inchiodarono quelli di Ariel.

«Stai commettendo un grossissimo errore, Ariel. Tu non puoi rispondere al male col male.»

Ariel, al sentire quelle parole, sospirò rumorosamente, mostrandogli la schiena e le mani che affondavano nei capelli.

«Ah, già. Il perdono!» esclamò in tono acuto, rivolgendo lo sguardo di nuovo a Simon.

«Tu non ci credi più, non è così?» le domandò, con un sorriso sghembo.

«Penso che il tuo digiuno e la tua preghiera non bastino più. Guardati, ti stai logorando.» gli occhi le divennero lucidi, osservando la figura di Simon, che appariva, da qualche tempo, inconsistente.

«Ariel, ti prego, non prendere lo spirito di Joshua o» chiuse gli occhi con un nodo in gola «o perderai la tua anima... »

«E cosa dovrei fare?» domandò con astio, battendo i pugni sulla superficie del tavolo.

«Perdonare.»

«No! Non puoi chiedermi questo!»

«Ariel,» sospirò, chiudendo gli occhi e abbassando il capo alle mani congiunte «mi hai dato la stessa risposta che mi diede Joshua, la sera della Cattedrale»

«Che intendi dire?»

«Intendo dire: che se vuoi vincere il seduttore devi credere alla mia parola»

«Non posso perdonare. Mi dispiace.»

La risposta di Ariel non aveva bisogno di altre considerazioni, tanto che, una volta avvicinata alla porta per uscire dallo studio, Simon le disse solamente: «Io non posso impedirti di andare all'inferno. È questo il libero arbitrio.»

***

Mentre Acab passeggiava di fronte alle sbarre della cella di Joshua, facendo echeggiare le suole delle sue scarpe eleganti all'interno del tunnel che ospitava il martire giacente inerme al suolo, constatò che si trovava lì, nella medesima posizione, ormai da settimane, con la guancia incollata al pavimento roccioso e umido di quel covo, aspettando l'arrivo di Lilith che ogni giorno gli riservava pene singolari.

La sera precedente l'aveva fatto mettere in ginocchio e, tenuto con catene ai polsi, gli aveva affondato le mani nei capelli bagnati, tirandoglieli fino a far piegare la testa all'indietro per fissare il suo sguardo, ormai spento e contornato da lividi.

Si era posta alle sue spalle, con gambe divaricate, reggendo nella mano sinistra una frusta di cuoio, che schioccò quasi a lambire il viso del giovane.

«Che strana situazione» pensò ad alta voce «non trovi, Acab?»

Il ragazzo, ormai fermo e appoggiato al muro antistante la cella, se ne stava con le braccia e le gambe incrociate, in attesa del flagello, mentre i lunghi capelli corvini gli sfioravano gli zigomi.

Storcendo le labbra, Lilith sbuffò e, senza ricevere risposta dal fratello, iniziò a ferire Jhoshua con un paio di colpi alle spalle, che iniziarono a rigarsi di sangue.

Gemette, senza riuscire ad emettere alcun urlo da quelle corde vocali ormai lacerate.

«È strano perché...» iniziò Lilith «sembri tanto il tuo Signore, nel momento della flagellazione» e rise di gusto «I nostri antenati ne hanno sparso del sangue che ora tanto venerate. Non è così, Joshua?» gli domandò sussurrando, piegandosi fino al collo del ragazzo e sfiorandogli le orecchie con le labbra, mentre il giovane faceva tremare le spalle intonando un silenzioso pianto disperato.

Acab rifletté sulle parole della sorella, e, dopo aver sentito crepitare l'ultimo colpo di frusta, si staccò dal muro di pietra e si avvicinò alla cella.

«Perché facciamo questo?» domandò Acab, con aria interrogativa, mentre Lilith gettava malamente il suo strumento di tortura in un angolo e gli si avvicinava.

Lo guardò aggrottando le sopracciglia, rispondendo dopo averlo studiato con gli occhi glaciali: «Non ti conviene fare domande. Obbedisci e basta, se vuoi vivere ancora a lungo.»

Acab sentì pulsare le pareti dello stomaco che si contorse, provocando uno sguardo accigliato e una mascella serrata.

«Quale vita, Lilith? Quella in cui io sto qui ad inalare zolfo e ad ascoltare il picchiettare del sangue che cola dalle pareti, con le urla di bambini che rimbombano nelle mie orecchie mentre voi organizzate feste e vi divertite alle mie spalle? Eh?» la strattonò.

«Per voi la mia vita vale meno dell'ultimo dei vostri scagnozzi» gli ringhiò a denti stretti e voce bassa, avvicinandosi al viso pallido della sorella.

Le vene visibili e pulsanti delle tempie, fecero comprendere alla giovane che Acab avrebbe potuto farle rimangiare qualsiasi altra parola, se solo avesse continuato ad imporgli un silenzio che durava ormai da troppi anni.

Così deglutì e gli voltò le spalle, salendo le scale ferrose che cigolarono sotto i passi lenti.

A differenza della sera precedente, un suono di tacchi femminili non sembrò ricordargli affatto l'andatura della sorella.

«Sorellina, non pensi di aver fatto abbastanza ieri?» scherzò, appoggiato con una spalla al muro di pietra.

Una donna, avvolta in un manto nero e coperta da un cappuccio, si materializzò sbucando fuori da una nuvola di fumo nero alle spalle del giovane facendolo sussultare.

Il moro fissò i suoi occhi vitrei, austeri come quelli di una regina, e, scostandosi di un passo dalla cella, le lasciò valicare l'ingresso, dopo aver aperto la serratura e fatto stridere il metallo al suolo roccioso.

«Regina, stai facendo un grosso errore» mormorò Acab, alle spalle di colei che adesso aveva mostrato il volto ambrato e gli occhi grigi, abbassando il cappuccio lucido sulle spalle.

«Io non prendo ordini da voi. Questo lo sai bene.» affermò risoluta, mentre la mano destra si inseriva all'interno del suo mantello, per farne uscire una caraffa di vetro trasparente, fissando in silenzio il corpo immobile di Joshua, scosso, di tanto in tanto da colpi di tosse.

«Perché lo fai?» le chiese con tono sommesso, mentre la osservava piegarsi sulle ginocchia e far scorrere quel liquido trasparente sulle labbra aride di Joshua che iniziò a bere come chi non aveva mai conosciuto il gusto della freschezza.

«Perché non avete rispettato i patti.»

Acab, preda del respiro accelerato, dato dalla situazione precaria della donna, che, se vista da qualcuno avrebbe perso la vita insieme a lui, si morse il labbro inferiore, stringendo le mani ai tubi ferrosi di quella gabbia, facendo diventare le nocche bianche, mentre lo sguardo veniva rivolto alle aree di fuga da cui sarebbero potute arrivare gli agenti di Judas.

«Tu sai che io non so nulla.» ringhiò, facendo vibrare le sbarre.

«Perché anche tu sei una vittima. Proprio come me.»

Acab sbarrò gli occhi, incredulo «No, cara, ti sbagli» disse. «Io sono uno degli eredi della famiglia Damian»

«E allora perché ti lasciano qui a poltrire mentre loro fanno la bella vita, eh?» gli occhi grigi della donna lo puntano austeri, mentre, facendo forza sulle gambe, si alzava lentamente per proseguire: «Io sono una strega nera e servo solo per accalappiare gentaglia da reclutare per il loro esercito. Tu non sei poi tanto diverso da me, caro Acab.» concluse, fissandolo senza uscire dalla cella.

«Allora perché non scappi?» gli domandò il giovane, con aria confusa.

«Perché aspetto che il loro Dio mi dia un segno.»

Acab la guardò con sopracciglia aggrottate.

«Il loro Dio? Stai scherzando, spero!» domandò, sbeffeggiandola con una risatina sarcastica.

A quel punto la donna avanzò nella sua direzione, ma nel farlo si sentì tirare la tunica dall'estremità.

«Chiunque dà un solo sorso d'acqua ai miei minimi, l'ha fatto a me...»

La donna sgranò gli occhi verso il viso tumefatto di Joshua, che le teneva l'estremità del mantello dopo aver pronunciato a voce roca quell'unica frase.

«Vai via! Sta arrivando qualcuno!» esclamò Acab all'improvviso, prendendo dalle spalle la donna dal manto nero per dirigerla verso uno dei tunnel sotterranei.

Lei non aveva smesso di guardare Joshua, anche quando gli occhi erano diventati lucidi; così, prima di scendere un gradino, rivolse lo sguardo al giovane dai capelli corvini poggiandogli la mano sul petto per bloccarlo.

«Tante cose avresti dovuto sapere,» disse, dirigendo il palmo della mano sulla sua guancia rasata dopo aver accarezzato la curva del suo viso «ma spero che il loro Dio ti dia l'occasione di conoscerle» concluse in un sorriso amaro prima di voltarsi per scomparire in una nube nera e giungere nelle oscurità della terra.

Mentre Acab cercava una spiegazione a quelle parole, corrugò la fronte e, voltandosi, si ritrovò d'avanti al viso di Judas, a pochi centimetri dal suo naso; il respiro e il battito gli si bloccarono inevitabilmente.

Gli occhi chiari, oscurati dalle sopracciglia aggrottate e l'ovale spigoloso suggerirono ad Acab di abbassare lo sguardo alla pavimentazione di pietra.

«Da quanto tempo sai che Regina cura quel cristo, eh?»

Acab deglutì senza alzare lo sguardo, serrando i pugni ai fianchi, mentre rivoli di sudore ghiacciato colavano raffreddandogli le tempie, il collo e ogni muscolo tremava in maniera incontrollata.

E' giunta la mia ora...

«Non rispondi?» gli domandò tra i denti, avvicinando il respiro al suo orecchio.

Acab non ebbe il tempo di accorgersi di nulla, se non quando l'impugnatura della pistola gli ferì il capo, finendo in ginocchio ai piedi del padre.

Un colpo ben assestato, ma che, volutamente, non era stato destinato alla morte del giovane che adesso vedeva colare il sangue fino a sporcargli la camicia bianca e oscurargli la vista.

«Avevo grandi progetti per te, ma tu hai preferito recalcitrare al richiamo del potere più grande: quel potere che muove il mondo e che risiede nei nostri cuori di pietra.»

Un conato di vomito risalì l'esofago di Acab che tossì rumorosamente mentre le scarpe di Judas si allontanavano per percorrere le scale di ferro

«Portaci il Leone e ci fideremo nuovamente di te, figliolo.» urlò in un eco.

Il rumore delle suole che facevano cigolare i gradini suggerì ad Acab la lontananza del padre e lì, in ginocchio, fissando quel colore che ormai caratterizzava quel luogo, non trovò altra via d'uscita se non quella di eseguire l'ordine.

Così si alzò in piedi, facendo leva sulle ginocchia tremanti, cercando di mantenere una mente lucida e di non rimettere anche l'anima; proseguì piano e, a passi trascinati, sfiorò le pareti di roccia umida con le mani sporche di sangue fino alla ringhiera che dava al pian terreno, lanciando un ultimo sguardo torvo al giovane Joshua che stillava lacrime da quando Judas aveva fatto riferimento ad Ariel.

Non gli importò.

Sputò via l'ultimo grumo di sangue che gli era colato sulle labbra e salì le scale con la vista che gli si annebbiava.

***

 

   
 
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