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Autore: Enchalott    04/10/2021    4 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a tutti! :)
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Dopo una guerra ventennale, i Salki vengono sottomessi dalla stirpe demoniaca dei Khai. Negli accordi di pace figura una clausola non trattabile: la primogenita del re sconfitto dovrà sposare uno dei principi vincitori. La prescelta è tanto terrorizzata da implorare la morte, ma la sorella minore non ne accetta l'ingiusto destino. Pertanto propone un patto insolito a Rhenn, erede al trono del regno nemico, lanciandosi in un azzardo del quale si pentirà troppo tardi.
"Nessuno stava pensando alle persone. Yozora non sapeva nulla di diplomazia o di trattative militari, le immaginava alla stregua di righe colorate e numeri su una pergamena. Era invece sicura che nessuna firma avrebbe arginato i sentimenti e le speranze di chi veniva coinvolto. Ignorarli o frustrarli non avrebbe garantito alcun equilibrio. Yozora voleva bene a sua sorella e non avrebbe consentito a nessuno di farla soffrire."
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nemico invisibile
 
Eskandar levò gli occhi al cielo plumbeo di Minkar, rimpiangendo il clima secco di casa. Pioveva senza tregua, i vradak manifestavano l’irrequietezza arruffando le piume a scrollare l’acqua in eccesso.
Aveva ordinato la sorveglianza dei fuochi, ma il compito stava per superare le possibilità. I Minkari non avevano dato adito a sortite e l’ultimo rapporto riferiva che le difese erano ridotte al minimo.
Una dannata stasi! Non mi piace per niente!
Le gocce di pioggia incastonate tra i capelli blu scintillarono come diamanti al bagliore delle fiamme mentre attraversava lo spiazzo fangoso, stringendosi nel mantello per sconfiggere l’umidità. I guerrieri scattarono sull’attenti. Notò con piacere che stavano affilando la lama o sfidando un compagno per mantenersi in forma.
L’inerzia non è per i Khai.
Entrò in una tenda contrassegnata con le insegne di uno dei clan maggiori e individuò la persona che cercava.
«Perdona l’interruzione, Yogai.»
«È un piacere esserti utile, Eskandar.»
Al generale spiacque dover spegnere la sua allegria, ma non aveva scelta.
«Sono costretto a una conversazione sgradevole, cercherò di mitigarla con il miglior vino di Mardan. Bevi con me, reikan
L’altro annuì, immaginando senza margine d’errore di cosa si trattasse.
«Il nome di colui che era mio fratello è stato cancellato, l’onta che ha macchiato l’onore del clan è indelebile. Mio padre ha giurato di ucciderlo con le sue mani e, se l’erede al trono lo richiederà, di immolare la vita a Belker per la vergogna di aver generato un traditore.»
«Ti capisco, Yogai, e ti esprimo la gratitudine del principe. Nessuno dei tuoi verserà il sangue in espiazione, ma gravi contingenze mi obbligano a riportarti tra i ricordi.»
«Cosa desideri sapere?»
«Com’è iniziata. Quando hai notato un cambiamento in tuo fratello. C’è stato un evento insolito che l’ha coinvolto?»
Il guerriero scosse la testa, rincorrendo la memoria degli eventi.
«Nulla di eclatante. A quanto ne so è stato un compagno d’arme a intaccare le sue ragioni d’orgoglio, che Belker lo maledica!»
«Dove si sono conosciuti?»
«Erano amici di vecchia data, assegnati allo stesso contingente durante la guerra contro Jandali. Sono rimasti entrambi feriti nell’ultimo scontro, ma quel corruttore di anime non è sopravvissuto. Gli dei non mi hanno concesso il privilegio di sgozzarlo!»
Eskandar incamerò l’informazione e proseguì con le domande finché non si ritenne soddisfatto. Convocò altri guerrieri che avevano affrontato la stessa disgrazia e ampliò la visione del problema. Poi tornò al padiglione reale.
Mahati stava leggendo a lume di candela, in attesa che le nubi diradassero. Il reikan gli invidiava la straordinaria capacità di concentrazione e l’indole pacata, che non si lasciava turbare dalle circostanze avverse.
«Sputa il rospo» lo incitò il principe.
«Ho messo le mani in pasta e ho scoperto da dove viene la farina.»
«Si tratta del mulino di cui sospettava Rhenn?»
«Il tempio di Belker non è collegato agli hanran
Il Šarkumaar tirò un sospiro di sollievo: la presenza dei ribelli all’interno del santuario sarebbe stato lurido sterco sul nome del dio. Rhenn avrebbe fatto giustizia sommaria, privando i Khai di un elemento importante per il loro equilibrio.
«Quindi mio fratello ha preso un abbaglio.»
«Non del tutto. Qualcuno ha deciso di non sfruttare l’ingresso principale, non ho prove che sia stato un dissidente. Al contrario gli indizi su di essi portano alla stessa armata, che ha diffuso il morbo in ogni angolo di Mardan.»
«Ciò è noto, quell’Elefter serviva lì.»
«Non sapevamo però che i primi hanran hanno in comune un periodo di congedo seguìto a una ferita.»
Mahati spalancò gli occhi incredulo.
«Esatto» confermò Eskandar intuendo le sue conclusioni «I guaritori. Il bandolo della matassa è tra chi vanta conoscenze terapeutiche. Provvederò quanto prima, anche se non sono ottimista. È passato molto tempo dalle prime defezioni.»
«Ignobile! Approfittare della debilitazione per corrompere la mente! I guaritori curano tutti, shitai compresi. Non è improbabile che sia stato quel contatto a originare la scintilla! Che stupido a non averci pensato! Ritieni abbiano usato qualche sostanza psicotropa?»
«Difficile, siamo immuni.»
Il Kharnot prese a girare intorno al tavolo come una fiera in gabbia. Tra i medici che lo avevano seguito a Minkar qualche anziano aveva esperienza della campagna contro Jandali, ma non avrebbe potuto muovere accuse a caso. Anzi avrebbe allarmato gli hanran travestiti da Khai, allontanando l’opportunità di estirparne la malapianta. Avrebbe dovuto agire con accortezza.
«Puoi comunicare la scoperta a mio fratello. Di sicuro prenderà le misure del caso e non gli sarà difficile venirne a capo. È imbattibile nell’ottenere persino le informazioni più futili. Ciò non significa che dovrai trascurare il tuo compito.»
«Continuerò a tenerlo d’occhio. Ho sempre sognato fare l’equilibrista.»
Il Šarkumaar sorrise con scarsa allegria e gli pose una mano sulla spalla.
«Non è una corda, Eskandar. È una lama. Sono il primo a detestare i sotterfugi, una parte di me vorrebbe non avertelo chiesto.»
«Io invece sono il primo a desiderare un sovrano come te. Devi stroncarli ora, Mahati, o si trasformerà in una guerra civile.»
«Procederemo comunque su due fronti. Il nemico più pericoloso si cela tra noi.»
Furono interrotti dalla concitazione esterna.
«Una sortita alla gola del fiume!»
Il principe schizzò fuori dal padiglione, seguito dal compagno.
«Una ventina! Hanno lasciato il castello con un’imbarcazione. La pioggia maschera lo sciabordio, ma non inganna la vista dei Khai!»
Lo stratega supremo aggrottò la fronte. La manovra non aveva senso, sebbene il buio fosse fitto e i nemici non conoscessero le potenzialità dei loro sensi.
«Cercano di portare fuori l’erede al trono» considerò Eskandar «Una mossa molto sciocca.»
«No» dissentì Mahati «Un’esca. Passate al setaccio il perimetro difensivo. Se è un tentativo di mettere al sicuro il figlio di Amshula, sceglieranno un’altra strada mentre siamo impegnati dalla parte opposta.»
«Me ne occupo io» eruppe il reikan «Recuperate quegli idioti giù al fiume e fingete di aver abboccato, non vorrei che l’inganno fosse ordito all’inverso. Danyal non è da sottovalutare.»
Il messaggero si precipitò a riferire gli ordini.
Il principe osservò la densità vischiosa della notte concentrarsi a chiazze nelle zone prive di fiaccole. L’intuito gli fornì una sensazione di pericolo invisibile.
 
«Spegnete le torce!» comandò Eskandar, guidando i suoi sotto le mura nemiche «I Minkari si spostano a tentoni, cercate un alone che indichi la loro presenza!»
I Khai lo seguirono nell’esame scrupoloso della cinta, incanalandosi nel fossato melmoso in due file antitetiche e infradiciandosi fino al midollo. L’acqua arrivava alla vita ma non aveva colmato il canalone: con probabilità la regina aveva deciso di allontanare il ragazzino prima che il livello arrivasse ai ponti levatoi.
Il fondo era viscido, i guerrieri procedettero con cautela per evitare di perdere le protezioni sollevate sulla testa. Trovarsi sotto i bastioni a portata d’arco o di olio incendiario era svantaggioso nonostante le tenebre, ma non avevano scelta.
Dopo un’ora nell’acqua gelida, Eskandar cominciò ad accusare il morso del freddo. In risposta ai brividi che gli scorrevano lungo le membra, la visione notturna si affievolì. Decise di proseguire, incitando i guerrieri che lo attorniavano. Secondo i calcoli avrebbero incrociato i compagni in una decina di minuti.
Forse mi sono sbagliato e il principino è davvero al fiume. Oppure un gruppo di disperati ha pensato di eludere la nostra sorveglianza.
Sperò che gli altri avessero migliore fortuna.
Un’inconfondibile clamore di battaglia squarciò il silenzio. Eskandar saltò fuori dal fossato e distinse in lontananza il bagliore dei fuochi tra le merlature, che si erano moltiplicati, riverberandosi sulle estremità acuminate dei dardi minkari.
Diede l’ordine d’attacco mentre un rovescio di frecce si abbatteva sugli scudi levati e sulle protezioni di cuoio dei suoi. Qualunque fosse la ragione di un agguato tanto raffazzonato, non aveva nulla a che vedere con Shaeta, che probabilmente si trovava al sicuro nelle sue stanze.
Si portò le dita alle labbra: il fischio acuto sormontò gli altri suoni. Le sagome possenti di due vradak si levarono dall’accampamento, piombando sui difensori della città.
Prima di venire dilaniati dai rostri dei predatori, i nemici azzardarono un secondo lancio, che risultò meno efficace del precedente. I soldati che si erano sporti dalle finestrelle intermedie serrarono le imposte alla vista dei rapaci.
«Non lasciateli vivi!» gridò il reikan, sganciando l’arco dalla schiena.
 
Lo scontro fu di breve durata. Eskandar tornò alle tende, desideroso di apprendere se il contingente diretto al fiume avesse condotto dei prigionieri: un capannello di giovanissimi minkari, legati e costretti sulle ginocchia costituì la risposta.
«Siete shitai. Accettate o morite.»
La voce imperiosa di Mahati risuonò nell’aria madida di pioggia, scandendo senza compassione le sorti riservate ai sottomessi. Fece un cenno a Sheratan, che gettò un pugnale alla portata dei catturati. Nessuno osò toccarlo.
«Portateli via!» comandò il primo generale «Chiarite la nostra legge e interrogateli!»
A quelle parole un ragazzo con i gradi di ufficiale strisciò in avanti e afferrò l’arma, puntandosela al cuore. Le mani tremavano, le lacrime fluttuavano nello sguardo terrorizzato.
«Sei l’unico a possedere onore?» lo apostrofò Sheratan.
Quello premette la lama sulla stoffa grigia, ma non affondò. Gli altri distolsero lo sguardo, qualcuno pregò Azalee.
Mahati scosse la testa. Le gocce d’acqua scivolarono lungo le corna slanciate e sulle spalle. Pronunciò un epiteto a bassa voce, provocando l’ilarità dei suoi.
Il coltello cadde senza aver adempiuto al ruolo. Il prigioniero rimase accasciato nella melma, con il tormento aggiuntivo di non aver trovato il coraggio di uccidersi.
«Torchiate lui solo» ordinò il principe «È quello che conosce l’intero piano.»
L’orrore si diffuse sul volto del Minkari a conferma dell’intuizione.
«Bel colpo!» si complimentò Eskandar «L’episodio non vanta logica alcuna, a meno che uno di quelli non sia Shaeta sotto mentite spoglie.»
«No» ribatté Mahati pensieroso «Tu?»
Il reikan espose la successione degli eventi e il Kharnot si incupì.
«Ci sono feriti?»
«Nulla di preoccupante, graffi, schegge varie… al solito. Temi che i guaritori siano hanran e rifiutino le cure?»
Il principe negò, ma l’espressione rimase grave. Eskandar sapeva che era difficile estorcergli le elucubrazioni, ma lo conosceva abbastanza per comprenderne l’ordine.
«Non ho visto nulla di strano, né armi né comportamenti particolari.»
«È ciò che non mi torna. Sembra un atto privo di senso, ma so che non è così.»
«Inutile torturarsi a vuoto, la notte porterà consiglio.»
Rientrarono nel padiglione e il silenzio avvolse la pianura.
 

 
Kamatar era rimasto a Mardan. Aveva deciso di correre il rischio pur di portare a termine la missione. Nascosto tra i vicoli della città bassa, dove gli hanran vantavano alleati e rifugi, attendeva la notte per tornare al santuario.
Ancora non mi capacito.
Quando aveva intravisto l’Ojikumaar nelle stanze della sorella, aveva pensato a un colloquio volto a sbrigare le formalità relative alle cerimonie. Invece Rhenn aveva afferrato Ishwin per un braccio, l’aveva inchiodata al muro e l’aveva baciata senza riguardo. Era stato sul punto di intervenire per scongiurare quella che gli era apparsa una violenza, ma lei aveva gli circondato il collo e gli aveva sorriso con malizia.
La porta si era chiusa sull’improbabile scenario e Kamatar era rimasto nell’ombra. I suoni che aveva percepito dopo erano stati inequivocabili.
Era un’empietà, un atto immorale. Non adorava Belker, ma rispettava tutti gli dei e le regole del credo. Il contegno della pithya lo aveva sconvolto, scoprire che aveva un amante nonostante il divieto di rapporti carnali, che si trattava dell’erede al trono e che questi a sua volta si era macchiato di sacrilegio e infedeltà lo aveva lasciato privo di energie. Se n’era andato con l’umore sotto i tacchi.
Incrociò le braccia dietro la testa, cambiando posizione sul pagliericcio.
Posso ancora fidarmi di Ishwin?
In quella caotica riflessione molti atteggiamenti della sorella acquisirono chiarezza: il non prendere parte, il negarsi alla causa, i mezzi silenzi, la diffidenza verso di lui. Tante affermazioni si trasformarono in menzogne. L’immagine di lei bambina, di lei da proteggere, di lei da incoraggiare era stata sostituita dalla figura di una donna volgare, ambiziosa ed egoista.
Divina Valarde, ispiratemi.
Pensò che Ishwin fosse ricattabile, così il principe della corona. Ma non faceva per lui, era lontano da ogni forma di coercizione. Nessuno l’aveva costretto a votarsi alla lotta per la libertà e non avrebbe agito contro i propri princìpi. L’amarezza lo intrideva nel profondo, il desiderio di non sottostare a un sovrano come Rhenn lo pungolava. Se Rosshan fosse stato ancora vivo, avrebbe potuto confidarsi con lui.
 
«Non sai ascoltare, Elefter» lo aveva rimproverato rimestando la zuppa «Sei stordito dalla campana che hai udito per più di duecento anni e le sfumature ti risultano un mero disturbo. Se disponessi l’orecchio, l’iwatha raggiungerebbe anche te.»
Kamatar lo aveva fissato ostile, centellinando la dose di brodaglia che Rosshan gli propinava per tenerlo in piedi. Deglutire era una tortura, ma i discorsi riottosi erano peggio. Non poteva parlare, figurarsi gridargli in faccia che era uno spergiuro.
«Non guardarmi così, ragazzo. Non pretendo che tu condivida le mie idee, solo che tu le conosca. Ciò che rimane ignoto crea paura o astio, non è così che la pensano i Khai?»
Aveva scrollato il capo infuriato: un conto era l’umana paura da eliminare con ogni mezzo, un altro il disprezzo per chi aveva rinnegato la stirpe. La ferita gli aveva spedito al cervello una fitta lancinante. Si era portato la mano al collo nell’inutile sforzo di arginare il dolore.
«Piano, non vorrai allungare il tempo di permanenza?» aveva commentato paziente il ribelle, avvicinando la lampada e controllando la fasciatura «Puoi sempre non ostinarti a non scrivere, se vuoi comunicare.»
Kamatar aveva posato la scodella con enfasi e aveva vergato nella terra una sola parola, la prima rivolta a quello che sarebbe divenuto il suo più caro amico: traditore.
Gli occhi azzurri di Rosshan si erano posati sui segni ingiuriosi che componevano il termine. Lungi dall’offendersi, aveva mosso le dita nella polvere, modificando alcuni tratti. Quando aveva spostato la mano, la parola era cambiata: alternativa.
«Si assomigliano, vero?» aveva sorriso.
 
Elefter si domandò se nella decisione di Ishwin, che gli appariva oscura e svilente, ci fosse la disperata ricerca di un’alternativa. Allontanò i sentimenti di condanna senza appello e si raddrizzò. Il terzo Sole stava tramontando.
Raccolse la chioma e la fermò con uno spillone. Indossò abiti neri screziati di rosso e si soffermò a scrutare la pelle, pochi centimetri sotto l’orecchio destro. La ferita era una cicatrice quasi invisibile, a dimostrazione del fatto che Rosshan, come guaritore, sapesse il fatto suo.
Completò il travestimento con un mantello logoro e si caricò in spalla una cassa di frutta, simile a quelle destinate alle vestali di Belker. Uscì dal ricovero, scambiando un cenno d’intesa con l’uomo che lo aveva ospitato: questi portò tre dita al cuore e gli riservò uno sguardo colmo di fiducia.
 
Nonostante le precauzioni, nessuno badò a lui quando si diresse alle cucine del tempio. Scaricò la merce, confondendosi con i servitori, poi infilò un grembiule usurato, sperando che nessuno facesse caso a un vivandiere particolarmente prestante. Si ingobbì il più possibile, imitando i gesti abitudinari degli schiavi, lieto di aver imparato a mettere nel piatto qualcosa che non sembrasse spazzatura.
Cercò di intercettare il cibo destinato alla sorella, ma non ne venne a capo. Ebbe la brillante idea di occuparsi del vino, certo che solo le sacerdotesse di alto rango godessero del privilegio. Non sbagliò. Inventò un paio di scuse per allontanare gli altri dal possibile incarico e la strategia funzionò. La capocuoca lo spedì ai piani alti con un abbaio frettoloso.
Le guardie lo degnarono a malapena di un’occhiata e lo lasciarono passare.
Sentirsi invisibili, ecco cosa provano shitai e dorei per la maggior parte del tempo. E, quando qualcuno pone su di essi l’attenzione, conseguono momenti più spiacevoli.
Elefter vi aveva assistito centinaia di volte quando non gli importava nulla di quella che riteneva gente priva d’onore. Poi tutto era cambiato.
Ishwin gli indicò un tavolino senza distrarsi dalla lettura in cui era immersa. Appoggiò il vassoio e si diresse alla porta: anziché ritirarsi, la chiuse dietro di sé. Lei sollevò il viso con un certo stupore.
«Sono il nuovo assaggiatore» esordì serafico.
«Kamat…! Che ci fai qui!?»
«Ho bisogno di lavorare, sono tempi duri.»
«Piantala! Non sono in vena di scherzi!»
Elefter indagò con nonchalance la nervatura rilegata del volume e si avvicinò.
«Allora parliamo di cose serie.»
«Ti ho pregato di non coinvolgermi nei tuoi complotti, sono in una posizione delicata!»
Kamatar serrò le mascelle. Poteva immaginare quale, tra le braccia sacrileghe del primogenito di Kaniša.
«Sto cercando di salvare delle vite, comprese quelle dei Khai. Se ciò mi dipinge come un cospiratore sì, lo sono.»
La sacerdotessa afferrò il calice di vino, buttandone giù un paio di sorsi.
«Te ne rendo atto, ma parlare di abolizione della schiavitù al sommo officiante di Belker è come scavarsi la fossa. Hai sentito che ha catturato alcuni dei tuoi e li ha giustiziati sul posto? Ecco la risposta! Non voglio fare quella fine!»
«Parlerei di esecuzione sommaria!» ringhiò l’hanran, irritato dal verbo “giustiziare”.
Si impose di non perdere le staffe, dicendosi che la sorella aveva soltanto paura.
«Comunque non si tratta di questo. So di chiederti molto, ma sei l’unica che può intervenire. Non correresti alcun pericolo.»
Ishwin giocherellò con il bicchiere. L’insoddisfazione era palese, ma la curiosità prevalse.
«Che vuoi?»
«Una divinazione. È sufficiente che il dio della Battaglia desideri per un paio di mesi il Šarkumaar a Mardan.»
«Tu sei pazzo!»
«Per niente. Non suonerebbe assurdo, deve affrontare le asheat e sposarsi.»
«Non scatenerò l’ira di Belker con una menzogna!»
Elefter serrò i pugni finché non avvertì il pizzicore degli artigli nella carne.
«A quanto ne so non si arrabbia tanto facilmente.»
«Che intendi!?»
«Ritengo tu sia al corrente che il santuario non è immune dalla corruzione.»
Il respiro di lei accelerò, le nocche intorno al calice sbiancarono per la tensione. Ma l’affermazione parve toglierla dalle spine.
«Il principe si accorgerebbe dell’inganno. Non è tanto idiota da scambiare una trance fasulla per un segno divino.»
«Può darsi. Ma tu sai come prenderlo, non è così?»
Lo sguardo limpido non lasciava intendere doppi sensi, eppure Ishwin raggelò.
Non può sapere di noi!
«N-non sono in grado di maneggiare un uomo come quello. Cosa te lo fa pensare?»
«Non lo penso. Lo ne sono certo.»
La pithya non ribatté. Era una manifestazione di fiducia nelle sue doti di persuasione o un’accusa implicita? Doveva venirne a capo: se gli hanran avevano scoperto la tresca, aveva le ore contate.
«Perché tale sicurezza?» domandò con un filo di voce.
«Perché sei la mia sorellina e ti conosco bene.»
Lei scosse la testa, riguadagnando la presenza di spirito.
«Se non accettassi?»
«Sarebbero in molti a morire e ti riterrei responsabile.»
«Mi stai minacciando!?»
Kamatar si avvicinò quasi a sfiorarla. Negli occhi blu scuro albergavano risolutezza e coraggio, ma anche tristezza e delusione.
«Non combatto per il re ma resto un guerriero. I ribelli appaiono privi d’onore solo a chi non li conosce, il loro riguardo per la vita e per gli Immortali è immutato. Puoi dire altrettanto?»
Lei si liberò dalla mano che le aveva posato sul braccio.
«Farò il possibile, ma non intendo morire. Non sono come te.»
L’espressione di Kamatar si velò di un profondo sconforto. Ishwin si pentì di ciò che aveva proferito, però era troppo tardi.
«Rispetto le differenze. Non l’ipocrisia. Confido in te, sorella.»
Abbandonò la stanza senza voltarsi.
La donna rimase impietrita. I sospetti che lui sapesse assunsero forma concreta. Se non avesse tratto la divinazione richiesta, Kamatar sarebbe divenuto un nemico. Il perché volesse Mahati a Mardan scendeva in secondo piano.
Scagliò il bicchiere, mandandolo in frantumi contro la porta.
   
 
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