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Autore: moira78    05/10/2021    5 recensioni
Missing Moments: il ritorno di Albert dall'Africa in tre parti. Tra i vari episodi che non ci sono mai stati raccontati in maniera approfondita dall'autrice c'è il tribolato viaggio di rientro che Albert affronta prima di giungere a Chicago senza memoria. Ho immaginato i vari scenari, basandomi su manga, romanzo e anime e ho provato a descrivere la mia visione della sua storia.
Genere: Avventura, Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: William Albert Andrew
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing Moments'
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America, Chicago.

"America... Chicago". Sto delirando, mi sento bruciare di febbre e il movimento che stanno facendo con la barella sulla quale sono adagiato mi fa venire voglia di vomitare.
Volto la testa di lato, scosso dai conati, cercando di sollevarmi senza riuscirci e voci concitate che parlano in francese dicono frasi così veloci che non le capisco quasi più. Mani mi afferrano, mi sostengono. Qualcuno mi passa un asciugamano sul viso ma la zaffata acida e maleodorante mi rivolta di nuovo lo stomaco.

"Lo stiamo perdendo, non può viaggiare in queste condizioni!", grida un uomo con voce tonante. Ora comprendo di nuovo il senso delle voci.

"Dobbiamo almeno tentare", risponde una seconda voce, che riconosco vagamente.

"Ma, colonnello Durand...".

"Fate in modo che sia sistemato sul treno!", ordina e per la prima volta ho un nome a cui aggrapparmi. Il colonnello Durand, quello che ha perso un figlio in questa guerra assurda e che mi sta aiutando ad arrivare al porto.

"Dobbiamo tenerlo in osservazione almeno stanotte nel campo numero sette, che è il più attrezzato". Ora l'altra voce è più pacata e ferma. Sembra non ammetta repliche: l'ennesimo medico? "Va reidratato ancora, la febbre lo sta consumando e dobbiamo verificare che non ci sia un'infezione in atto".

"Con questo freddo è più facile che abbia la polmonite", borbotta il colonnello. "Va bene, allora prenderò il mezzo che parte domattina anche io".

"Ma...".

"Date un letto a questo ragazzo e fate in modo che possa viaggiare", ordina. Ora è lui che non ammette repliche.

Grazie, vorrei dire, non sa quanto le sono grato... vorrei abbracciarla, davvero. Le labbra, aride come il deserto, si muovono ma non un suono ne esce. Chissà se mi sentirò mai meglio o se sono destinato a rimanere in questa specie di coma ancora a lungo, tra veglie brevi e sonno profondo quasi senza sogni.

Se almeno sognassi qualcosa del mio passato, invece della nebbia e del buio...

E torna, la nebbia, e con essa le ombre che credo siano le persone che ho dimenticato. Ho la sensazione di allungare le braccia per toccarle ma anche di galleggiare a mezz'aria, quindi capisco che è l'ennesimo incubo. In realtà mi sembra che qualcosa di solido tocchi i miei palmi e stringo forte come se si trattasse dell'ultima cosa cui mi aggrapperò.

"Ehi, credevo fossi privo di sensi! Non pensavo ti rivelassi tanto intraprendente di punto in bianco". La voce di scherno parla francese. "Mi spiace, ma potrei essere tua madre".

Non capisco, chi è? Mia madre? No, ha detto che potrebbe esserlo. Ho freddo, mi sento come se fossi bagnato e nudo. Tremo in maniera incontrollabile e sollevo le palpebre.
Mi rendo conto di due cose: sono nudo, in effetti, e ho la mano destra affondata nel braccio di una donna piuttosto in carne che mi sta all'apparenza lavando con una spugna.
All'improvviso mi sento in imbarazzo e mollo la presa avvertendo un calore inondarmi le guance: "Mi dispiace, forse stavo sognando", dico a bassa voce, accorgendomi che è flebile ma meno roca dell'ultima volta.

La donna, vestita da infermiera, scoppia a ridere: "Non preoccuparti, lo avevo immaginato! Ormai sono vent'anni che non spero più di essere oggetto delle attenzioni di un ragazzo bello come te".

Sbatto gli occhi, incredulo: bello? Non è quello che ricordo di aver visto nello specchio, né quello che mi pare di scorgere in questo corpo che finalmente ho l'occasione di vedere: costole sporgenti, gambe quasi glabre e altrettanto magre, braccia piene di lividi, forse in parte dovuti agli aghi.

Sospiro: "Penso di somigliare più a un relitto che a un uomo. Non so nemmeno quanti anni abbia".

Lei continua la sua opera in modo meticoloso, tamponandomi il petto, la pancia, l'inguine con la spugna umida. Sussulto, preda dell'imbarazzo e della pena per me stesso: avrei preferito perdere un braccio o una gamba che ridurmi a non poter più neanche provvedere alla mia igiene personale.

L'infermiera non sembra accorgersi del mio disagio e passa alle gambe e ai piedi: "In realtà direi che hai vent'anni o poco più. Prima di sbarbarti, stamattina, pensavo fossi sui trenta ma ho dovuto ricredermi".

Prende un asciugamano e inizia ad asciugarmi con dovizia, con gesti automatici che avrà fatto di certo centinaia di volte, quindi inizia a vestirmi.

"Grazie", dico piano lasciando che si prenda cura di me come fossi un bambino un po' troppo cresciuto. "Mi piacerebbe provare da solo", aggiungo sforzandomi di allungare di nuovo le mani per indossare almeno la biancheria.

"Oh, lo farai quando starai meglio, ora preferisco farlo senza indugi o ti raffredderai di nuovo". Ed è davvero veloce. In men che non si dica, mi ritrovo di nuovo vestito di tutto punto e coperto.

"Devo prendere un treno con un certo colonnello Durand... è già mattino?", chiedo guardandola irrigidirsi.

Quando volta su di me i suoi occhi d'improvviso stanchi capisco. Capisco che il colonnello non partirà con me e che sarò di nuovo nelle mani di Dio nel mio viaggio verso Le Havre.

"Purtroppo il colonnello è dovuto partire il giorno dopo il tuo ricovero qui ed è caduto in battaglia, pace all'anima sua", conclude facendosi il segno della croce.
Anche se già avevo capito, il respiro mi si blocca e un nuovo sentimento, diverso dal dolore e dalla gratitudine, si fa strada nel mio petto facendomi venire voglia di urlare: rabbia.

"Perché, quanti giorni sono passati? Quanti altri ne ho persi?!". Il mio tono non è mai stato così alto e mi chiedo se queste energie mi arrivino dall'adrenalina o dal cocktail di farmaci e nutrienti che mi stanno iniettando. 

"Sei qui da una settimana, ma non devi...".

"Una settimana? Un'altra settimana?!". Il mio grido sembra il gracchiare di un corvo o di un animale ferito. Non sono più abituato a parlare, figuriamoci a urlare.

L'infermiera si impettisce e si mette la mani chiuse a pugno sui fianchi prominenti: "Hai avuto un principio di polmonite e il colonnello ha fatto in modo che avessi altri vestiti e coperte. Inoltre ha predisposto tutto perché tu salga su una nave diretta a New York fra tre giorni. Dovresti ringraziare il Cielo di stare meglio e di poterti recare al porto per tempo!".

Il suo tono di rimprovero mi colpisce e la mia rabbia si sgonfia di botto. Lascio ricadere la testa, che avevo sollevato un poco, sul cuscino e mi accorgo con orrore che ho di nuovo voglia di piangere. Ero così sensibile anche prima o dipende dalla mia condizione fisica? Mi metto a fissare il soffitto che non è un soffitto ma è la parte superiore di una grande tenda bianca, serrando la mascella e deglutendo forte.

"Senti, lo so che ti dispiace per la morte di quell'uomo che è stato così gentile con te, posso vederlo dalle tue lacrime". Lacrime? Quali lacrime? Non le stavo trattenendo? "Ma non è infuriandoti col destino e col tempo che passa inesorabile che tornerai a casa tua, in America".

"America... Chicago", riesco a dire in un soffio, chiudendo gli occhi.

"Sì, è lì che andrai grazie a coloro che ti hanno fatto arrivare fin qui e soprattutto grazie al colonnello Durand. Quindi, anche se in ritardo, consideralo un miracolo di Nostro Signore che ha guidato le loro mani nonostante la guerra in corso. Sei stato molto fortunato e sei di fibra forte: ci sono uomini che non lo sono stati altrettanto".

Ha ragione e lo so. Ma non posso fare a meno di sentirmi come in preda a una marea che mi sballotta da un punto all'altro senza che io possa controllarla. Ho un bisogno disperato di sapere chi sono perché non so neanche chi mi stia aspettando in questa città che continuo a invocare. Per quanto ne so, potrebbe non essere nemmeno casa mia: potrei essere inglese o persino di qualsiasi altro Paese del mondo, lingua madre o no. Questa consapevolezza mi gela, ma ho anche bisogno di aggrapparmi a qualcosa.

Se Dio ha voluto che io ricordassi Chicago, allora devo dirigermi lì, non ho alternative.

L'infermiera mi si accosta e fa un gesto che mi commuove: mi asciuga il viso con un fazzolettino, mettendo fine al mio pianto silenzioso e mi sento di nuovo come un bambino indifeso. La ribellione inizia a farsi strada nel mio cuore. Voglio reagire, non devo lasciarmi sconfiggere, in nome di tutti coloro che mi stanno permettendo di tornare in America, se davvero provengo da lì.

"Tanto per cominciare è ora che inizi ad alimentarti da solo o le gambe difficilmente ti sosterranno". Si allontana fino a uscire dalla tenda e seguo il suo cammino rendendomi conto che alla mia sinistra c'è una fila di letti quasi tutti occupati. In alcuni vi sono uomini più o meno bendati. Uno è vuoto. E in quello accanto... ho la gola secca nel momento in cui mi accorgo che c'è una sagoma del tutto ricoperta da un lenzuolo.

Potrei essere io, quello.

Mi rimetto di nuovo a osservare la cima della tenda e rimango così finché l'infermiera torna con una ciotola fumante. Da quel che ho capito è circa un mese che non metto qualcosa sotto i denti e il mio stomaco emette un gorgoglio così forte che lei scoppia di nuovo a ridere: "Oh, questo sì che è un buon segno! Ma ti suggerisco di andarci piano, perché devi riabituarti a mangiare poco a poco".

Come è già accaduto con l'altra infermiera, anche lei mi sembra avere una forza superiore alla media ma capisco che sono semplicemente io a essere debole: mi tira su e mi appoggia al cuscino fino a farmi mettere seduto. Sono convinto che stia per porgermi la ciotola, invece prende un boccone con il cucchiaio e me lo accosta alla bocca.

Alla mia espressione perplessa si stringe nelle spalle: "Sono certa che anche mangiare da solo ti sarà più facile fra un po'. Ora, da bravo, apri la bocca".

Lo faccio e la sensazione di sapore e di calore è così potente che mi sento invincibile. All'improvviso, ho una fame da lupi.
 
- §-
 
Le grida sono strazianti e mi strappano dal sogno facendomi accelerare il cuore nel petto e rimbombare in gola e nelle orecchie. Senza fiato, mi tiro a sedere e benedico il fatto di riuscire finalmente a mandare giù cibo solido dopo un mese, perché mi sento più forte.

Ho smesso di concentrarmi solo sul fatto che ho perso la memoria e che, se fossi stato ricoverato in un vero ospedale e non tra un campo profughi e l'altro come un delinquente pericoloso o una spia, forse sarei stato meglio prima.

In me c'è posto solo per la gratitudine verso tutti coloro che mi hanno aiutato e la speranza che tornando a Chicago possa ritrovare il mio passato.

Ma queste urla mi trapanano il cervello e l'anima. Perché non accorre nessuno? Nei letti accanto e di fronte a me altri uomini si svegliano e cominciano a imprecare o a chiamare aiuto: un paio di loro si alzano e tento di farlo anche io.

Ieri, quando sono giunto a Le Havre, il medico mi ha costretto a camminare per verificare quanto si fossero atrofizzati i muscoli delle mie gambe e, nonostante io abbia fatto solo qualche passo appoggiato a lui e a un infermiere robusto, si è detto soddisfatto.

Ora è il momento della verità.

Faccio sporgere le gambe dal bordo del letto e poggio i piedi a terra, facendo forza su un braccio per sollevarmi. Resto un attimo così, mezzo piegato sul letto mentre l'uomo invoca la sua gamba come se l'avesse persa o gli facesse un male del diavolo.

"Poveraccio, gliela dovranno amputare", esclama un uomo con le stampelle, zoppicando nella sua direzione.

Sposto il mio peso e cerco di capire se riesco a stare in piedi da solo. Barcollo, ondeggio e mi accorgo che posso fare qualche passo appoggiandomi di tanto in tanto ai bordi dei letti.

Nella tenda entrano due medici e tre infermiere: "A letto voi! Non c'è niente da guardare!". Poi il loro francese diventa così concitato che colgo solo poche parole. Operare. Amputare. Etere.

Dio, vogliono amputargli la gamba dandogli solo dell'etere?

Colto dall'orrore, tento qualche altro passo anche solo per vedere quanto resisto in piedi. Ma, soprattutto, vorrei lenire la sofferenza di quell'uomo anche se non lo conosco. Davvero mi sono lamentato per la mia condizione? Chissà dove si trova la sua casa e se rivedrà mai la sua famiglia!

Medici e infermiere formano un capannello intorno a lui e all'improvviso capisco che hanno intenzione di operarlo qui. Gli altri uomini arretrano come di fonte a uno spettacolo inguardabile, ma io rimango in piedi, appoggiato a una branda con un lato della gamba, la bocca spalancata e il sudore che scende a rivoli.

"Noooo vi prego! Josephine! Oh... Dio!". Invoca e, finalmente, distolgo lo sguardo, la pietà e l'orrore che prendono il sopravvento su di me.

Mi volto e, mentre cerco di tornare a letto, le forze mi abbandonano e cado sulle ginocchia con un verso strozzato, inghiottito dalle grida del soldato cui stanno amputando una gamba a meno di *dieci piedi da me. Mi prendo la testa fra le mani, nel tentativo inutile di non sentirlo più, come se ciò potesse allontanare il suo dolore e la sofferenza che sento io stesso per lui.

Dio, aiuta quest'uomo. Quanta distruzione, quante lacrime porta questa guerra!

Invocando la sua Josephine ancora una volta e al grido di un medico che ordina altro etere, la voce cessa di colpo. Ora restano solo altri rumori e sono anche peggiori delle urla.
 
- §-
 
Il mal di mare mi sta uccidendo.

Cerco di mangiare e tenere giù il cibo ma sono più le volte che mi sento male che quelle in cui riesco a trattenerlo. Stamattina mi ha visitato un medico e mi ha detto che dovrei coprirmi bene e prendere un po' d'aria sul ponte, ma la verità è che non sono visto di buon occhio su questa nave, anche se è stato il povero maresciallo Durand a procurarmi il biglietto e raccomandarmi al comandante, giorni fa.

Le voci girano più di quanto credessi, a quanto pare.

Non ho che l'assistenza di un'infermiera che pare avere paura di me e che a volte mi controlla i segni vitali, e di un medico che mi avrà visto si e no tre volte in quattro giorni. Dovremmo arrivare tra domani e dopodomani al massimo, ma ho sentito parlare di una tempesta che potrebbe ritardarci. Forse è per questo che il mare è così mosso.

Mi affaccio dal piccolo oblò di questa cabina umida e cerco di fissare lo sguardo all'orizzonte, nel punto più lontano di questa distesa azzurra per dominare la nausea. Devo proprio uscire di qui e camminare un po', sono certo che mi aiuterebbe, però non mi piacciono gli sguardi delle persone che incrocio: per loro, sono sempre la potenziale spia che viaggiava su un treno tra Roma e Bologna e che forse ha contribuito a indurre qualcuno a piazzarci sopra una bomba.

Ormai mi sono tanto abituato ad avere le bende intorno alla testa, che credo non potrò più farne a meno: ho tentato di chiedere al medico qualcosa sulla mia memoria ma lui ha scosso il capo. "Lo shock dovuto all'esplosione dev'essere stato molto forte. Confido che a New York possa trovare un ospedale che le faccia esami più approfonditi, magari una lastra...".

Quasi sorrido a quell'affermazione: pensa che guardando dentro la mia testa i medici possano trovare i miei ricordi perduti?    

Con un sospiro, lancio un'occhiata al vassoio di frutta che mi hanno lasciato e prendo in mano una mela rossa, cominciando a giocherellarci, indeciso se morderla o meno. La nave ondeggia molto forte e le prime gocce di pioggia hanno cominciato a battere sul vetro dell'oblò.

Contro ogni logica, infilo il mio cappotto logoro e apro la porta della cabina per uscire di qui, con la mela ancora in mano e sostenendomi al muro del corridoio. La mia speranza è che i marinai siano tutti impegnati sul ponte superiore per ammainare le vele e che io possa affacciarmi indisturbato per qualche minuto da quello inferiore.
Quando apro la porta, il gelo mi investe e chiudo gli occhi, stringendomi il bavero tra le dita per proteggermi. Sono ancora molto debole e ammalarmi di nuovo non è una buona idea. In effetti, ho scelto davvero il momento peggiore per uscire: in giro non si vede nessuno, ma il vento è troppo forte.

Respirare l'aria fredda, però, non ha prezzo. Se non sbaglio ci troviamo già a Dicembre e sono certo che il prossimo sarà il Natale più strano della mia vita.
Sarò completamente solo, oppure riceverò un regalo inaspettato: il ritorno della mia memoria.
 
- §-
 
L'acqua è cheta e di un azzurro così intenso che è quasi abbagliante. Sono inginocchiato sull'argine erboso e sto per abbassarmi sul pelo dell'acqua quando odo un grido lontano che chiede aiuto. Alzo la testa di scatto, ma il fiume si estende a perdita d'occhio alla mia sinistra. Giro il capo a destra e vedo una cascata di cui, curiosamente, non odo il rumore.

Torno al mio intento di guardare la superficie dell'acqua e mi ci specchio. I capelli biondi, trattenuti da una benda, mi ricadono davanti a un viso regolare ma scarno e le labbra sono semiaperte in un'espressione di stupore. I miei occhi sono chiari e seri.

"Chi sei?", chiedo alla mia immagine abbassando una mano per toccarla. Lo specchio improvvisato s'increspa e il mio volto ondeggia, trasformandosi in una maschera grottesca. "Chi diavolo sei?!", grido affondando l'intero braccio e avvertendo la sensazione umida dell'acqua che m'inzuppa.

Dalla cascata l'urlo si ripete e all'improvviso ho urgenza di raggiungere la fonte della voce: sembra quella di una bambina spaventata. Mi alzo in piedi, senza più preoccuparmi di quell'immagine distorta e comincio a correre sull'argine per raggiungere la cascata ma più mi muovo più sembra allontanarsi.

Devo salvare quella bambina o sarà persa per sempre. E io con lei.

Non so da dove provenga questa bizzarra certezza, ma è una cosa così ineluttabile che non può essere altrimenti. Mentre corro, d'improvviso, tutto diventa buio e mi sento come sospeso in aria in mezzo al nulla assoluto.

Un gemito di rabbia esce dalle mie viscere e dalla gola: sono di nuovo al punto di partenza, dannazione!

"No, no!", urlo frustrato. "Devo salvare quella bambina! Devo tornare in America! Chicago! America!". Continuo ad alternare quelle due parole come se potessero far riapparire la luce e il paesaggio in cui ero immerso fino a poco fa, ma non succede nulla.

E lo ripeto ancora e ancora.

Solo che adesso la mia voce non è più un grido ma un mormorio indistinto. Tornano le voci, di nuovo, come in una giostra infinita dalla quale non riesco a scendere mio malgrado.

"Possibile che in tutta New York non ci sia uno straccio di posto in ospedale per quest'uomo?!". New York? E l'uomo che sta facendo la domanda parla inglese! Ma allora non sono più sulla nave!

D'improvviso, il ricordo di ciò che è accaduto negli ultimi giorni si accende come un lampo nel mio cervello: la nave su cui ero imbarcato ha dovuto fare i conti con una tempesta in pieno oceano e il viaggio è durato più del dovuto. 

Ricordo di essermi trascinato sul ponte inferiore poco prima che scoppiasse e poi di aver passato più di un giorno intero chiuso in cabina preda della febbre e del mal di mare. Ho cercato di mangiare e di bere ma è tornato anche il dolore al capo e ho chiesto all'infermiera che è tornata a controllarmi di darmi un analgesico.

"Mi spiace, non ne abbiamo a bordo, però posso chiedere al dottore se può uscire di nuovo non appena la febbre passerà".

Ma la febbre non è passata e le cure sommarie, la debolezza dovuta al mio malessere, nonché la sensazione opprimente di non poter uscire da quella cabina mi hanno fatto peggiorare di nuovo e quando ho alfine visto il porto di New York in lontananza devo essere svenuto.

Stavamo per toccare terra, le coste di questa America che continuo a invocare e io mi sono arreso di nuovo, minato nel corpo e nella mente da un'esplosione avvenuta a miglia da qui. Grazie al colonnello Durand e a tante altre persone gentili forse sono vicino casa e so che non mi basterà il resto della mia vita per essere grato a tutti loro e a Dio.

Mi ritrovo a pregarlo, mentre qualcuno mi sballotta per quella che mi pare una strada poco illuminata gettandomi addosso un'altra coperta. Se non sbaglio sono su una carrozza trainata da cavalli.

"Proviamo all'ospedale di Manhattan, se non lo accettano neanche lì lo portiamo a Chicago", ordina l'uomo.

In un momento di lucidità, tento di raccogliere le mie poche forze residue e sollevo un braccio per afferrargli un lembo del cappotto. Lui, che mi sovrasta e si sta rivolgendo a qualcuno alle sue spalle, si volta di scatto guardandomi da sotto la tesa del suo cappello nero: sembra stupito.

"Chi... ca... go", sillabo a denti stretti. Non voglio più aspettare, non voglio perdere altri giorni ora che sono così vicino alla meta. Anche se dovessi morire, lo farò nel tentativo di raggiungere la città che invoco da settimane.

È l'unico scopo che ho in questa strana vita che sto vivendo.
 
- §-
 
L'ennesimo treno, l'ennesimo spostamento sul quale non ho il controllo diretto. Ero riuscito a rimettermi in piedi e forse ci riuscirò di nuovo appena verrò curato e reidratato a dovere: nonostante l'esplosione, il fatto di viaggiare dall'Italia all'America in condizioni proibitive e con lo spettro della guerra sempre presente di sicuro non mi ha aiutato.
Una volta arrivato a Chicago, spero di potermi finalmente fermare, ricevere le cure di cui necessito senza più essere additato come spia e poi, magari, riprendere le redini della mia esistenza.

Mi hanno sistemato in una cuccetta assieme allo stesso medico che mi ha assistito a New York e al quale ho chiesto di portarmi a Chicago senza titubare. Oscillo di nuovo tra sonno e veglia, tra febbre e momenti di lucidità e ogni tanto vedo il suo viso accanto a me: mi scruta, osserva le mie reazioni, mi punta una luce negli occhi e mi ausculta con uno stetoscopio.

Non ho più flebo nel braccio e lui ha cercato a più riprese di farmi mangiare e bere, aiutandomi a sollevarmi. Per qualche motivo, è da solo e senza il supporto di un'infermiera: le voci devono essere giunte sin qui.

"Pensa che mi cacceranno anche dal prossimo ospedale?", domando mentre cerco di mandare giù un panino che sa di cartone.

Il medico sospira, togliendosi lo stetoscopio dal collo e stropicciandosi gli occhi con un gesto stanco: "Non lo so. Certo, il fatto che lei non abbia documenti e non ricordi il suo passato la addita come un potenziale pericolo visto che viene da una zona di guerra dove c'è stato un attentato".

"E non potrei essere io stesso una vittima?", domando appoggiando meglio la schiena ai cuscini.

Lui si limita a fissarmi: "Ha viaggiato per settimane da un campo profughi all'altro dove hanno sospettato che fosse una spia. Inoltre, non ha memoria del suo passato. È sicuro di non ricordare proprio nulla?".

Chiudo gli occhi, cercando di concentrarmi sugli incubi e sui sogni slegati che mi affliggono ogni volta che perdo i sensi: "Non so neanche come mai continuo a ripetere il nome della città di Chicago nei miei deliri, per quanto ne so potrebbe persino non essere quella casa mia. La ringrazio per essersi preso cura di me, comunque, ha pensato anche lei che potessi essere davvero io quella spia?".

L'uomo scuote la testa: "Chi si vota alla professione medica non si preoccupa di chi sia il paziente", mi spiega.

"Perché continuo a dormire e svegliarmi?". Finalmente faccio questa domanda a qualcuno che, forse, può darmi una risposta. "Capisco la debolezza, ma...".

"Credo dipenda dal trauma cranico che ha riportato e che le ha fatto anche perdere i ricordi", risponde con una certa sicumera, toccandomi le bende come per rimuoverle e rinunciando. "Meglio che lo facciano in ospedale, dove possono sostituirle", aggiunge quasi tra sé. "Mi assicurerò che l'accettino al santa Joanna, dove lavora il dottor Leonard che è un mio eminente collega".

Annuisco, augurandomi che questa sua piccola raccomandazione basti a farmi fermare fino a che non sarò guarito.

"Comunque, avrà capito che un viaggio tanto lungo e le continue febbri di cui ha sofferto per il disagio l'hanno prostrata in modo ulteriore", continua e io annuisco. "Forse le ricapiterà, ma se la cureranno bene potrebbero rimanere solo dei forti mal di testa e riuscirà a restare vigile abbastanza a lungo da nutrirsi in maniera adeguata e a muoversi in autonomia. Basta con le vacanze fuori programma finché la sua situazione clinica non si stabilizza, intesi?".

Mi sorride e si raccomanda, anche se sa benissimo che non dipende da me. La sua immagine si distorce nel momento in cui ho un capogiro: "Io... io...". La nebbia mi afferra di nuovo con le sue mani gelide e chiudo gli occhi mentre una fitta lancinante mi attraversa le tempie e sale su, fino alla fronte e arriva alla nuca, strappandomi un lamento di dolore.

"Ehi, mister Chicago, si sente male?". Mi accorgo che si muove, che mi si avvicina, mi prende un polso e vi pigia un dito forse alla ricerca della velocità del battito.

Ormai sono diventato mister Chicago, penso divertito anche se sto perdendo di nuovo la lotta con la realtà. Le parole del buon medico diventano suoni indistinti e senza senso, anche se li pronuncia in quella che deve per forza essere la mia madrelingua.

Mi sento come se fossi di nuovo in continuo movimento e, ancora una volta, il tempo diventa relativo. Non so se siano passate ore o giorni, ma so che laggiù, alla fine del tunnel di nebbia, vedo di nuovo la cascata.

"Chicago... America", articolano le mie labbra nella realtà o nel sogno, non lo so, davvero.

So solo che finalmente la sensazione di cadere si è attenuata e con essa la nausea e la morsa che mi stringe il capo.
 
- §-
 
Silenzio, odore di chiuso, luce tenue come se fosse alba o tramonto. Sono queste le prime sensazioni che ho. Cerco di sforzare la mia mente a ricordare qualcosa e il dolore torna come un lupo affamato che non veda l'ora di affondare i denti nella preda.

Così smetto di pensare e apro gli occhi.

Quello che vedo mi sconvolge: sono di nuovo in una tenda, in uno di quei campi dove accolgono i profughi o in un ospedale da campo francese nel quale amputano gli arti in cancrena dei poveri soldati feriti in guerra.

Lacrime di rabbia mi bruciano come ferite e riabbasso le palpebre. Voglio solo morire. Un fruscio a sinistra mi costringe a riaprirle: per la prima volta dopo tanto tempo non ho sonno e non riesco a dormire per allontanare i miei spettri. Sono ben lontano dal sentirmi in forma, ma mi sembra di avere sufficienti forze per alzarmi da questo letto, come mi era capitato sulla nave. Anzi, persino di più.

Per fortuna seguo proprio l'istinto di guardarmi di nuovo intorno perché scopro che il fruscio è quello delle fronde di un albero: un albero che si muove al vento dietro alla vetrata di una finestra. E, dietro quella finestra, la vita di chissà quante persone si sta svolgendo nel 1915 che è entrato non so bene da quanto tempo, ma che finalmente mi vede fermo in un luogo.

È quella Chicago che tanto anelavo? Possibile che sia questo uno dei motivi per cui mi sento meno vulnerabile e debole, perlomeno fisicamente?
Con movimenti lenti e studiati per verificare le reazioni del mio corpo, mi siedo su quello che scopro essere un letto d'ospedale, anche se la stanza sembra piuttosto un magazzino: oltre alla finestra con una vecchia tenda appesa sopra, ci sono dei tavoli e delle sedie di legno accatastati in un angolo, assieme ad altri oggetti rotti che non riesco a individuare.

A terra giace una sacca e spero che dentro ci siano i miei vestiti, perché al momento indosso un pigiama. Perlomeno è pulito. A piedi nudi, mi alzo e ho un leggero capogiro.
Qualunque cura mi abbiano iniettato ha avuto effetto più di tutte le flebo che ho ricevuto in Italia e in Francia, perché sto quasi bene.

A parte che ho perso la memoria e se tento di ricordare l'emicrania torna implacabile.

Cammino fino alla finestra per guardare quello che scopro essere il tramonto: anche se non ho idea di chi diavolo sia, alla fine mi trovo in un luogo che non è né una tenda né un treno. Di nuovo, ringrazio silenziosamente tutti coloro i quali lo hanno permesso, in special modo il colonnello Durand  che avrei voluto tanto conoscere meglio: senza di lui, forse sarei rimasto bloccato a Le Havre.

Le fronde dell'albero lasciano filtrare a tratti gli ultimi raggi di sole e dal cortile dell'ospedale provengono le voci di alcune persone che stanno uscendo dal cancello principale.

È questo il Santa Joanna?

Poggio una mano sul vetro freddo, sentendomi di nuovo vivo dopo tanto tempo. Sentendomi di nuovo un uomo e non un malato con la vita appesa a un filo. La vetrata mi restituisce la mia immagine sbiadita, quella che per me rappresenta solo una fisionomia sconosciuta.

Ho una famiglia qui o sono solo al mondo? Qualcuno mi sta cercando e mi riconoscerebbe? Ho degli amici? La consapevolezza della mia solitudine mi crolla addosso di nuovo, stringendomi un nodo in gola: anche se guarissi, da chi dovrei tornare?

Mentre sono perso nei miei pensieri cupi sento la porta della stanza aprirsi. Un ansito sorpreso e passi indecisi sono gli unici suoni che fa la persona che entra.

Mi volto a mezzo busto, la mano ancora appoggiata alla finestra e la vedo: un'altra infermiera, con una pettinatura che definirei singolare e un enorme vassoio pieno di frutta e di coperte tra le mani. Mi chiedo come possa tenerlo sollevato, minuta com'è.

"Albert! Finalmente ti sei svegliato!", esclama gettandomi in confusione. Mi ha appena dato un nome? Mi conosce o vuole solo chiamarmi in qualche modo che non sia mister Chicago?

"E tu chi sei?", le domando, aggrottando le sopracciglia.

Quella domanda pare irrigidirla e rattristarla e il vassoio, che bilancia perfettamente, oscilla per un attimo tra le sue mani. Ma è una reazione che dura un battito di ciglia.
Le labbra s'incurvano in un sorriso e le lentiggini che le ricoprono il naso e parte delle gote sembrano seguirne il movimento mentre risponde, un po' tremante ma decisa: "Io... sono la tua infermiera".
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* circa 3 metri
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Si conclude così questa mia incursione in uno dei momenti più drammatici della vita di Albert, della quale l'autrice non fornisce che pochi elementi. Ci tengo a ribadire che tutto è frutto della mia fantasia, un tentativo di raccogliere questi elementi e dare loro un senso logico raccontando una storia. Il finale è volutamente sospeso, perché dal momento in cui entra Candy da quella porta sappiamo tutti come è andata, vero?
   
 
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