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Autore: _Darcy_    05/10/2021    0 recensioni
Il respiro pesante, le mani tremanti e lo sguardo rapito dalla paura.
Aprì la porta. L'odore pungente di ferro le inondò le narici Decise di seguirne la scia. Senti le vie aeree
chiudersi e la vista annebbiarsi, aghi di ghiaccio le paralizzavano il cuore. Le sue corde vocali si rifiutavano di
vibrare l'indicibile orrore di fronte ai suoi occhi. Si era interrotto un collegamento, ad urlare erano le sue
iridi dorate pulsanti e dentro loro stesse il suono moriva.
Lo vide gettato nell'angolo più buio della stanza, come un giocattolo usato e dimenticato.
Genere: Angst, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Griffin, Valtor
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Non riusciva a dormire.
Le aveva detto sarebbe stato via per tutta la serata, quando la magia oscura era più forte e poteva essere praticata ai massimi livelli. Era uno dei tanti allenamenti con le sue madri, la sua presenza questa volta non era ammessa, l'incontro era strettamente riservato fra lo stregone e le tre streghe. All'inizio non avvenivano molto frequentemente, ma da qualche mese, ora che la Compagnia della Luce si stava dimostrando sempre più una minaccia, lei si era ritrovata a spendere più sere del solito sola, rintanata fra la libreria di quel palazzo, aspettando il suo ritorno. Ritornava stanchissimo, senza neanche la forza di parlare, l'unico suo desiderio era di immergersi nella notte abbracciato a lei come un porto sicuro.
Questa volta era passato troppo tempo. Si erano fatte le tre di notte e lui non era ancora al suo fianco. L'ansia la divorava, si rigirava nel letto, poi si alzava e camminava avanti e indietro nella stanza cercando di ammazzare il tempo. Dopo afferrava un libro per gettarlo a terra un minuto dopo. Mezza sigaretta, il resto gettato via, ora ne accendeva un'altra. Non riusciva a trovare pace, conosceva la tre streghe e conosceva ogni cicatrice sul corpo di Valtor. Loro volevano sempre di più e non erano mai soddisfatte, lui era disposto a tutto per un minimo di approvazione. E questo era letale.
Uscì dalla loro camera che condividevano mentre i piedi battevano sempre più veloce sul pavimento in cerca della stanza dove di solito si allenava. Ed eccola lì.
Il respiro pesante, le mani tremanti e lo sguardo rapito dalla paura.
Aprì la porta. L'odore pungente di ferro le inondò le narici Decise di seguirne la scia. Senti le vie aeree chiudersi e la vista annebbiarsi, aghi di ghiaccio le paralizzavano il cuore. Le sue corde vocali si rifiutavano di vibrare l'indicibile orrore di fronte ai suoi occhi. Si era interrotto un collegamento, ad urlare erano le sue iridi dorate pulsanti e dentro loro stesse il suono moriva.
Lo vide gettato nell'angolo più buio della stanza, come un giocattolo usato e dimenticato.
Aveva il capo chino, il viso nascosto dai suoi capelli biondi in un atto di spudorata vergogna. Stava tremando, aveva la pelle d'oca e poteva vedere le sue costole muoversi durante il respiro sotto la candida pelle tumefatta. Non era mai sembrato tanto magro e fragile, la sua figura così esile comparata alle squame rosse che la inghiottivano morso dopo morso. Iniziavano rare dal suo petto per poi infittirsi lentamente sulle sue braccia e mani deformate in lunghi artigli. Dipingevano il ritratto di una bestia e trovavano massima espressione nelle due enormi ali rosse che lo avvolgevano in uno scudo proteggendolo dal gelo del mondo esterno in un abbraccio. Sembrava che il mostro stesse tentando di salvare la sua stessa preda. Ne sottolineava la miseria, la grandezza e forza del cacciatore rosso e il respiro affannoso della pallida vittima.
Nudo e con la schiena squarciata. Il sangue traboccava copioso, serpeggiava elegante trascinado a valle il suo flusso vitale rosso, segnava i solchi delle costole e d'improvviso si zittiva insinuandosi fra le tessere inanimate del mosaico sul pavimento. La sua pelle lattea era imprigionata in un reticolo di faglie di carne dilaniata dalla più feroce delle bestie. Era sfregiata, I Iembi combaciavano alle perfezione con la larghezza degli artigli delle sue mani, poteva sentirne la potenza affondare nelle fibre muscolari tese, allungarle fino agli estremi come molle, e strapparle via come materiale di scarto, un ulteriore ostacolo verso l'organo principale che ardeva di trovare. Così aveva scavato ancora, e ancora, in un' ingordigia sfrenata verso una prova della sua umanità. Non bastava il dolore, non si sarebbe fermato finché i suoi artigli non avrebbero stretto il suo cuore pulsante.
Doveva strapparsi la carne, il vestito della sua esistenza che ormai sentiva troppo stretto con l'oscurità che minacciava di traboccare e raccoglierlo nuovamente fra le sue spire.
"Vai via." mormorò.
Valtor aveva avvertito la sua presenza non appena aveva varcato la soglia, la paura che le aveva inondato le vene. Era l'ultima persona nell'universo che doveva vederlo ridotto così. Si fidava di lei, era stata la prima persona a scavare sotto la sua superficie di stregone potente e narcisista, facendogli scoprire una persona diversa. Prima di lei c'erano tutte le cose che non c'erano e non sarebbero mai state. Non avrebbe mai dormito con qualcuno, con lei lo fece, non aveva mai avuto un vero amico, le sue madri gli avevano insegnato a calcolare tutto in base all'utile e come tutti fossero solo una pedina su un tavolo di scacchi. Aveva conoscenze, molti flirt con svariate donne e uomini, e lui non era mai quello innamorato. E neanche loro. Per ogni suo amante sapeva già nel momento in cui ne abbandonava il letto, che tutto quello che sarebbe rimasto sarebbe stata un'altra calda notte senza significato, un esercizio della parola amore. Si svolgevano tutti allo stesso modo, in assenza di parole, ed era consapevole di essere solo un oggetto di lussuria per via del suo corpo e potere. E dopo lei entrò nella sua vita, l'unica donna immune al suo fascino focoso e che sembrava addirittura odiarlo. Non aveva mai trascorso un'intera notte su un divano mangiando schifezze e parlando degli argomenti più disparati, con lei lo fece. Non aveva mai ricevuto un abbraccio, lei lo fece, dopo una missione andata a buon fine. Non gli erano mai importanti i sentimenti altrui, ora non sopportava che la tristezza velasse i suoi occhi. Lei si era insediata nel suo cuore e non solo l'amava follemente, era anche la sua migliore e unica amica. Si fidava di lei, ma non si fidava di sè stesso e della mostruosità che viveva dentro di lui.
"Valtor..."
Non poteva credere fosse lui. Sillabò il suo nome con lentezza striscicante, quasi riluttante ad affibbiare il nome dell'uomo che amava a quella creatura immonda. Lo era, erano bastate due parole, una supplica di varcare la soglia della porta e andare via.
"Griffin, ti prego, vai via, ora."
"Sei ferito" lei disse quando l'unica cosa la sua mente annebbiata riusciva ancora a mettere a fuoco erano le sue ferite.
"Via!"
"Voglio aiutarti."
Un forte ruggito tagliò l'aria, e lei si ritrovò per terra, vinta dalla potenza dei suoi artigli. Bruciava e brillava rosso sulla sua coscia fra la seta della sua camicia da notte, non era profondo, un taglio superficiale. L'aveva ferita di proposito, per la prima volta. Un altro urlo ed un altro singhiozzo. Valtor guardava con occhi sgranati le sue mani. Era costretto a proteggerla nell'unico modo che l'altro suo sè conosceva, la violenza.
"Sei felice ora che ti ho ferita? Aiutarmi? Chi vorresti aiutare, una bestia? Sono uno scherzo della natura. Guardami Griffin, guardami!" gridò fra i singhiozzi che minacciavano di soffocarlo, troppo grandi e rumorosi che percuotevano i suoi polmoni come carcerati in una disperata fuga verso la libertà. Gli spezzavano la laringe un canto distorto, la sua canzone del cigno.
Stesa per terra con un taglio bruciante e il pensiero opaco, vide chiaramente attraverso Valtor.
Aveva sentito parlare di quelle creature dalle ali piumate in cui i terresti credevano. Realizzò fosse un angelo. Uno caduto.
Non era nato per tutto questo. Era una creatura di pura luce destinata ad un eterno esilio nelle tenebre, e benché la fiamma che bruciava dentro di lui tendesse a ritornare al suo creatore di luce originario, era trattenuta dal braccio ferreo delle tenebre. Anche lei era una creatura dell'oscurità, una strega, ma lei aveva deciso di esserlo, lui era corrotto e questo lo rendeva la più grande ombra di tutte. Il mostro che lo avvolgeva muovendo i fili della sua esistenza si nutriva ogni giorno della luce infuocata della sua anima, ora ridotta ad una mera fiammella. La sua monstruosità veniva da questa convivenza distruttiva fra luce e buio, in cui solo uno dei due avrebbe definitivamente vinto. La fiamma ardeva, non riusciva a stare in silenzio e lei stessa era la responsabile della sua schiena ferita. L'oscurità gli stava stretta, così se l'era grattata via, come una macchia su un pezzo di argenteria prezioso, attraverso il sangue voleva compiere un disperato atto di purificazione, lavarsi dalle tenebre almeno per una volta e ritornare l'essere di pura luce che era destinato ad essere. Era scritto nei suoi occhi che la guardavano timidi fra i fili di grano dei suoi capelli, benché tentasse di celarli sotto strati di ghiaccio e indifferenza. Anche allora le sue pupille costrette in una rete di capillari rossi, riuscivano a conservare un'ultima goccia di umanità pura. Non era lo sguardo che le rivolgeva ogni notte quando adorava il suo corpo e neanche quello del mago dai modi sarcastici e ironici, era quello di ogni volta che le sue madri gli avrebbero mosso una critica, di quando cercava in tutti i modi di impressionarla per strapparle un complimento o un sorriso. In quei momenti si strappava il cuore dal petto e lo dava in pasto ai suoi aguzzini in cerca del più banale affetto. Si alzò dal pavimento sicura e fiera, sapendo cosa fare.
"Vai via!" urlò Valtor.
Gli si avvicinò ignorando tutti i suoi lamenti e gli cinse il viso fra le mani calde e tracciandone ogni contorno con le dita. Sentì la differenza fra la sua pelle e le dure squame rosse che la macchiavano. Accarezzò il suo naso, la fronte e le labbra. Ne alzo gli angoli scoprendo delle zanne candide. Sorrise e lo baciò. Solo un lieve bacio a stampo. Valtor rimase senza fiato, bloccato in un idillio che sapeva di lei.
Adrenalina in circolo, ce l'aveva fatta. Afferrò la sua mano e lo guardò dritto negli occhi, l'oro delle sue iridi non era mai stato cosi metallico.
Forse stanca delle bugie, la strega dai capelli viola era così determinata e schiava della curiosità da scavare nella più cupa delle verità, anche una che le avrebbe fatto del male. Non era finita, lo sapeva. Stava tentando , ma con i suoi occhi in una danza fuggiasca e il sorrisino storto a sinistra, aveva la classica faccia di un bambino che era riuscito a cavarsela senza essere beccato dopo una marachella.
"Questo è tutto? C'é altro che dovrei conoscere?" domandò decisa.
Quella domanda era una doccia fredda. Fece cenno di no. Stava mentendo, c'era molto di più che avrebbe dovuto conoscere, l'intero lato di sè su cui non aveva mai avuto controllo. Quello che stava vedendo ora era solo un assaggio del mostro che vedeva ogni mattina allo specchio, quando ogni umanità crollava a pezzi e i suoi occhi perdevano le pupille. Ma ancora non voleva che quel bacio fra di loro fosse l'ultimo. L'avrebbe amato finché in lui non ci sarebbe stata che un goccia dell'uomo, ma dopo?
"Stai mentendo Valtor. Mostrami, non lo trattenere"
"Non posso, per favore!"
Sarebbe scappata via. Stava cercando di ritornare umano e lei gli chiedeva di mostrarle il mostro.
"Fallo!" ordinò, pugni chiusi e pupille fisse.
"Perché stai facendo questo Griffin?"
Non gli rispose. Stava emanando ghiaccio da ogni parte del corpo, la postura era rigida, schiena dritta e labbra serrate. Non si sarebbe arresa finché non avrebbe ottenuto ciò che voleva.
Iniziò a cambiare, il suo corpo mutare nella fantasia perversa di tre streghe folli, e presto ogni fattezza umana fu cancellata dal suo volto. Spoglio dalla suo chioma bionda, abbandonato alla bruttezza del suo scheletro interiore. Ora era molto più grande di lei, la mano del mostro quasi l'intera misura del suo intero viso. Tutti i suoi sensi erano all'erta, in cerca del modo più facile di uccidere, lo scopo per cui era stato costruito. Quello che le si parava dinanzi era una macchina pronta ad uccidere, in più il suo collo era così sottile.
Griffin non sussultò. Fece esattamente ciò che aveva fatto prima. Osservò le espressioni del mostro cambiare, come i suoi pietrosi occhi blu erano fissi sul suo corpo, cercando il modo più efficace per ucciderla. E dopo, come se gli avesse letto nel pensiero, gli afferrò lo stesso palmo di mano che aveva retto in precedenza e glielo mise intorno al suo collo. Giocava al gioco della bestia.
"Sarebbe così facile, no?"
Dannazione, sì. Il demone poteva sentire il suo collo spezzarsi sotto la sua forza. Un sonoro crack, trachea collassata, l'aria che lascia i suoi polmoni in un ultimo disperato tentativo di respirare.
"Stringi, cosa aspetti?" lei disse sghignazzando. Una forza invisibile stava frenando la creatura, incapace di applicare pressione. Gridava con rabbia, non capiva cosa stesse succedendo, perchè il sorriso sulla faccia della strega divenisse sempre più ampio e luminiso. Lei godeva della paura ruggente nelle sue vene, era troppa da sopportare e questo la rendeva lucida. Scrisse la sua mente vuota come un foglio bianco con lettere d'amore e, mentre la mano della bestia era ancora stretta intorno al suo collo, baciò la creatura sulle sue labbra.
Le coriacee squame rosse cominciarono a ritirarsi come le nuvole dopo una tempesta, lasciando finalmente respirare la sua pelle candida. Il demone, le sue ali erano andate. Crollò fra le sue braccia. Era troppo stanco per esprimere la felicitá crescente dentro di lui. Non poteva crederci, non era mai successa qualcosa del genere, sbarazzarsi così velocemente dell'altro Valtor era un sogno impalpabile. Tutte le volte che le sue madri lo costringevano ad assumerla quella forma, avrebbe trascorso ore di pieno dolore in attesa che gli artigli della bestia potessero ritrarsi. Si rintanava nelle tenebre, lasciandosi consumare morso per morso, cercando nella sua mente una fine al suo labirinto di tormento. E lei era stata in grado per la prima volta di tirarlo fuori, uno spiraglio di luce alla fine del tunnel, che voleva durasse in eterno.
Si immergeva nei suoi occhi come un cucciolo smarrito, lasciando che catturasse la sua anima fra le ciglia folte.
"Non ti faccio paura? Come puoi baciare quella bestia? Devi uccidere il mostro Griffin, ti prego! Liberami, salvami, non lo sopporto più."
Più cercava di cacciarlo via, più lo sentiva strisciare nelle sue vene come un liquido velenoso. Lo strozzava dall'interno, lo sentiva farsi strada per la sua mente, si prendeva gioco dei suoi neuroni in una pozza nera. Sentiva la testa pulsare, incapace di contenere tutta quella rabbia e odio. Gridava per il dolore in uno spazio senza suono, un giorno gli avrebbe ridotto il cranio a pezzi.
"Dove sei?!" chiese urlando a tutto fiato.Polmoni spremuti dal suono, vedeva doppio, vista vorticosa, il suo intero corpo tremava di ansia, il sangue correva nella vene e il cuore batteva forte contro il petto.
"Shhh, sono qui. Ti sto abbracciando, vedi?"
"No-n andare via.." la pregò e posò la sua testa sul suo petto.
" Non vado da nessuna parte. Sono con te, guardami." Gli prese il mento affinchè i loro sguardi potessero nuovamente incontrarsi.
"Forza, dobbiamo raggiungere la nostra stanza, le tue ferite sanguinano."
"Griffin..." diresse il suo sguardo verso la sua gamba, faceva capolino timida dal suo vestito blu scuro. Errore scolpito in faccia, colpa crescente.
"È solo un graffietto. Un pizzico di magia e andrà via. Non brucia neanche più!"
Griffin tentò di rassicurarlo. Si concentrò e li teletrasportò nella loro stanza con un rapido schiocco di dita.
"Riesci ad alzarti?" gli chiese.
"I- Io..." "Non preoccuparti, ti reggo io. Puoi farcela."
Gli mise il braccio sulle sue spalle e cercò di reggerlo per la vita, più alto e pesante di lei, sorreggerlo le costava fatica: doveva.
Valtor si alzò in piedi. Fitte di dolore. Era debole, le ginocchia cedevano, articolazioni gracchianti, era come se le sue ossa si stessero spezzando dall'interno una per una. Mugugnò in protesta.
"Lo so, resisti, ancora un altro passo."
Si sganciò da lei ed incontrò il morbido materasso del letto che condividevano. Griffin lo aiutò a sedersi, gli coprì la parte inferiore del corpo con le coperte, dopo posò le mani sulla sua schiena, si concentrò e recitò un incantesimo. Umido: sangue fra le sue dita. La magia solleticava le cellule dilaniate dando loro un margine più regolare.
"Torno subito." la stega disse. Dopo si precipitò verso il bagno e in armadietto di legno trovò una panno di cotone, alcuni unguenti e boccette, e delle bende. Le ferite erano troppo estese e profonde, era riuscita a fermare l'emorragia ed in qualche modo ridurne la dimensione, ora doveva preoccuparsi di disinfettare.
"Questo brucerà un po'."
"Toglimi le mani di dosso, ora!"
Si voltò di scatto, tono di voce alto e deciso, vene ingrossate e collo incavato. Era un atto difensivo, le sembrava la mossa disperata di un animale braccato che fugge dai suoi aguzzini, vene guizzanti di paura e portamento aggressivo, fingendo di essere colui che tiene il potere. Ma non era le sue madri, non si doveva scomporre, non era lucido e questo completo rovesciamento di atteggiamento ne era la prova. Non teneva più le redini del suo pensiero, lo stava finalmente lasciando galoppare da solo, frammenti di passato e presente si intrecciavano insieme. Procedeva per associazioni di idee in un confine temporale sempre più labile: il disinfettante bruciava come i fulmini di Tharma sulle sue gambe.
"Calmati. Non sono qui per farti del male." lei disse.
Valtor aveva tutti i sensi all'erta, le si avvicinò seppellendo il naso nell'incavo del suo collo, ne odorò la pelle, tracce nell'aria, catturò violetta e ambra. "Sono io. Guarda, è solo disinfettante." lo rassicurò indicando con lo sguardo la boccetta sul comodino.
Il biondo si ritrasse, riconobbe come la figura snella di fronte non fosse una delle sue madri, ma la donna che amava. Il battito si fece lento, spalle basse, a Griffin ora sembrava quasi di avere dinanzi una bambola senza vita. Le lasciò continuare il suo lavoro senza nessuna lamentela. Finì di medicare, poi gli bendò le ferite in silenzio assordante, sentiva solo il suo respiro.
"Resta qui." sussurò dirigendosi verso il piccolo mobiletto di legno nella stanza.
Era stata una sua idea, si sentiva un'estranea in quella casa ed il pensiero di scendere ogni volta quattro piani per arrivare in cucina, rischiando di incontrare le streghe la faceva rabbrividire ogni volta. Certo, era molto più libera di qualunque membro della congrega, in qualche modo le Antenate la rispettavano, ascoltavano i suoi piani e strategie con attenzione, mai una parola di scherno, tutto quello che aveva ricevuto in anni di servizio erano consigli, pochi complimenti e un'espressione che non riusciva a discernere. Erano sull'attenti, la analizzavano, cercavano difetti e punti deboli, Liliss furfugliava qualcosa sottovoce, le altre annuivano. Si sentiva osservata, pedinata, ossessionata dal pensiero che volessero prima o poi incatenare anche lei nel loro gioco perverso. Per questa ragione eludeva ogni azione, cercava di tenere le relazioni con le tre il più distaccate possibile, rimanere un rebus dinanzi la strega delle illusioni era il suo obiettivo.
Aprì il mobiletto e posò il materiale sul tavolo. Mise un po' di acqua nel bollitore elettrico, aprì uno scrigno di legno intarsiato e iniziò a scegliere le erbe più adatte, ne accarezzò leggermente ognuna, lasciando che le fragranze danzassero nei suoi polmoni. Si ricordò di suo padre, come lo osservava da piccola mentre le preparava una tazza di tè ogni qual volta fosse giù di morale. Accarezzeva le erbe nel suo studio con delicatezza, immergendosi negli odori pungenti, poi la chiamava accanto a sè in quella ricerca olfattiva, le raccontava i benefici di ogni pianta e come sfruttarli al meglio, ed ecco il rosmarino aguzzo per la guarigione, menta per lo stress, anice balsamico. In quel piccolo angolo di natura, nelle noti brillanti della buccia di cedro e nelle mani sapienti di suo padre che pestavano le foglie , la sua mente si distendeva.
Attese per un po' che le erbe finissero il loro tempo di infusione, dopo versò il tè in una tazza di porcellana bianca aggiungendo un cucchiaino di miele. Si diresse verso lo stregone.
"Ti ho preparato del tè, ti aiuterà a stare meglio. Apri la bocca, dai."
Soffiò leggermente sulla tazza e la portò alla sua bocca. Valtor seguì il suo comando, l'odore era inebriante, note di lavanda, biancospino e tè rosso cantavano mentre il liquido caldo gli scendeva in gola. Quando aveva terminato di bere, lei mise via la tazza vuota e gli asciugò le labbra con il pollice. Stampò un bacio sulla sua fronte e lo lasciò sdraiarsi, rimboccandogli le lenzuola.
"Grif- fin..." Valtor balbettò all'improvviso.
"Dimmi." "I- I..."
"È tutto ok, puoi dirmi quello che vuoi."
"Perchè non sei arrabbiata? I- Io... ti ho nascosto una parte di me."
Non aveva alcun diritto di essere arrabbiata. Non poteva quando quegli occhi così puri erano fissi suoi suoi in cerca di certezze. Era in cerca di risposte e conferme nelle sue parole, quando lei per prima non riusciva ancora a realizzare cosa avesse appena visto. Una tale assurdità non si poteva descrivere e farne domande era inutile. Cosa poteva esserci di razionale nei tagli che portava dietro la schiena o nelle squame rosse che lo ricoprivano? Nulla. Cosa c'era di razionale nell'uomo di solito pieno di sè che ora tremava di paura dinanzi a lei?
"Perchè dovrei- "
"Devi esserlo."
O meglio, voleva lo fosse. Voleva lei gridasse, sputasse addosso ogni insulto, viscida verità, affinché potesse sommergersi nel profondo del suo disprezzo per sè stesso. Nonostante tutto, lei era calma e si stava prendendo cura di lui. Non lo meritava e non sopportava il suo sguardo pieno d'amore che sarebbe dovuto essere diretto verso qualcuno di gran lunga migliore di lui. Era un eroe per cercare di salvarla dall'orrore che portava il suo nome e un codardo per desiderarla ancora accanto a se. Non era scappata dalla paura e questo la trascinava ancora più vicino al suo cuore. Uccidendolo.
"So che avrei dovuto parlartene." continuò.
"Lo hanno creato le mie madri. Non posso controllarlo. Volevano provare un nuovo incantesimo e diciamo che la situazione è sfuggita fuori controllo e-" "E ti sei ferito la schiena." disse.
E non era neanche la prima volta.
Aveva 7 anni, incisivi mancanti e boccoli biondi disordinati, quando si rannicchiava in un angolo ed osservava dalle grandi finestre del soggiorno il cielo e il giardino sottostante. Invidiava le rondini, erano deboli, ossicine destinate in un pasto ad un predatore più grande, esistenze effimere con il cappio al collo di madrenatura, eppure cantavano, volteggiavano in cielo ignare di ogni pericolo in un'eterna primavera. I fiori erano lo stesso, aspettavano un intero anno per sfoggiare i loro colori magnetici e poi perivano in un odore dolciastro che gli penetrava le narici. Morivano tutti in un sorriso veloce, quasi un gioco a freccette, si lanciavano a potenza massima verso il bersaglio del non ritorno, come se a loro non importasse del finale, era solo una condizione necessaria alla loro fugace bellezza. Andavano lentamente incontro alla morte non sentendone il peso per tutta la loro esistenza, niente più che uno slancio. Battito di ciglia, le sue iridi si posavano sui vari quadri appesi per la stanza: Liliss aveva un'ossessione per l'arte ed ogni quadro doveva rappresentare un suo esatro stato d'animo. C'erano scene di battaglia, clangori di spade, donne diafane dai seni scoperti faccia a faccia con giovani intenti a giocare dall'azzardo nel fioco nero della pittura ad olio, mari in tempesta, foreste e poi fiori e gabbiani senza meta. Perchè erano fermi? Cosa aveva strappato loro il diritto di rincorrersi per il cielo? Qualcuno aveva deciso di incantenarli in un preciso instante, in una scena fissa contro il loro volere, mentre i loro simili volteggiavano liberi. Provava simpatia per le ninfee costrette a non chiudersi e per la mela sempre rossa fissa nel cesto, forse perchè lui stesso era una natura morta, il volare, il volere, il perire erano fuori dalla sua volontà di immagine laccata di vernice. Era nella stessa definizione, natura morta, come poteva avere slancio vitale un essere macchiato dal nulla sin dalla sua stessa concezione. In cornice, malato di marcescenza e vivo nello scoccare dell'eterna posizione di pupazzo imposta dalle sue madri. Il marcio addentava le sue ossa, avvelenava i suoi nervi e li lanciava in una pozzanghera fangosa in cui il riflesso non coincideva con la sua volontà, ammesso ne avesse una o fosse solo uno scherzo.
Il suo sè bambino decise che avrebbe liberato ogni uccellino dalla tela e distrutto tutti quei dipinti, odiava le nature morte, quindi si morse il labbro più forte che poteva finchè il sapore di ferro non gli inondò la bocca. Passò ad altro, il gioco era grattarsi via la pelle per colorarla di rosa, trattenere il respiro con la massima forza. Imparò a controllare le sue fiamme, voleva testarne la potenza e scelse le sue braccia come bersaglio. Ora era adolescente e mentre accorciava i suoi capelli con delle forbici, pensò come dovesse essere trovarsi al loro posto ed essere tagliati via. E lo provò sulla sua pelle. Nessuno avrebbe notato nulla, le ferite si confondevano fra quelle inflitte dalle Antenate, lasciando corde di pelle rialzata. Era il loro giocattolo, quindi richiedeva di essere rotto e le avrebbe aiutate facilitando il loro lavoro. Non era quello che un bravo figlio deve fare?
"Almeno il mio sangue è rosso, no?" disse interrompendo il suo flusso di pensieri. Labbra distorte in un sorriso sinistro e occhi spalancati.
"Ovvio sia rosso, cosa intendi?" rispose stranita.
"È una buona notizia. Sono una bestia, sarebbe potuto essere anche nero o blu, ma è rosso così come il tuo."
Il suo tono pacato, sillabando parole velenose, la colpì come un dardo. Lasciò il suo cuore spezzato.
"Non sei una bestia" lei disse.
"E cosa sarei, se non una creatura? O questi sentimenti, questo calore nei tuoi confronti, come posso sapere che siano miei? Come posso sapere che non mi stiano controllando e tu solo un'illusione di Liliss? Sei reale Griffin? Puoi rispondermi?"
Pupille dilatate, le parlava in un vorticoso crescendo, la voce si innalzava, si incrinava, il ritmo accelerava isterico, respiro corto e spezzato, i suoi polpastrelli scavavano a fondo nella pelle delle sue braccia.
"Non puoi amarmi! Lo hai appena visto!" sputo via quelle parole. Rimase paralizzata dall''atrocità di quelle parole. La realtà maciullava i suoi timpani come gli artigli di un gatto sulla lavagna.
"Griffin, questi occhi, questi capelli, sono solo un involucro, una bella custodia per il più orrido dei regali. Se non avessi avuto questo aspetto mi avresti mai anche guardato? Mi avresti mai rivolto la parola o saresti scappata a gambe levate?" domandò.
Le chiese cosa avrebbe fatto, quando era lui che ogni mattina voleva sfuggire dallo specchio. Vedeva il mostro sghignazzare lì alle sue spalle, accanto al suo riflesso immacolato, rideva, godeva della stupidità del biondo di volere celare la sua vera essenza, come se una linea di eyeliner e sopracciglia definite avrebbe cancellato tutto.
"Stai ancora domandando." lei sussurò in meraviglia.
"Devo saperlo!" lui gridò. "Mi serve sapere se sei disposta ad amare il mostro, perchè... è quello che sono."
Griffin gli prese le guance, le sue mani così gentili e calme. Sorrise, il più bello che lui avesse mai visto, un bagliore di luce nella fossa buia che era la sua esistenza.
"Stai ancora domandando Valtor. In questo c'è tutta la tua risposta. Vuoi che io ti dica che sei buono, che sei un uomo, ti dia conferma di qualcosa che ti scorre nel sangue, e tu ancora non sai cosa sia. La risposta sei tu stesso, nei tuoi dubbi. Sei preoccupato, ti stai prendendo cura di qualcosa e in questa azione c'é umanitá. Non posso darti le risposte che cerchi, ma posso dire che le sento qui."
Appoggiò la mano sul suo cuore.
"Quando la scintilla in te si sarà spenta e le tue corde vocali non vibreranno più. Senza nessun dubbio, sarai un mostro. Senza realizzarlo, disseminerai terrore e ogni emozione ti sarà estranea. Ma tua hai emozioni, e credimi, sono bellissime. Sei un uomo, Valtor, ecco perchè odi la bestia, quindi combatti. Ma questa schiena significa arrendersi, queste lacrime sul tuo viso una vittoria. Odio il mostro, quanto lo odi tu, ma non è quello da scaglie rosse e grandi ali. Il tuo mostro vive nella tua mente, si nutre delle tue insicurezze, e quanto vorrei ucciderlo se potessi, liberarti e guardare solo l'uomo che, posso urlarlo, I- Io.. A- amo."
Le si incrinò la voce, la parola amore difficile mente le lacrime tentavano di farsi strada. Le trattenne e gli prese la mano, in quello che sembrava tanto una promessa.
"Valtor, non amerò mai la bestia. Io amo te."
"E se dovessi diventarlo? Ti arrederesti? Mi lasceresti? Mi abbandoneresti mai nel buio, solo? Non te ne andrai mai, vero? Starai sempre al mio fianco? Non farlo, ti prego."
La strega lo abbracciò di slancio quando il suo cuore si spezzava sotto il peso dei demoni nella sua mente. L'adulto dall'ego smisurato era crollato in un bambino da proteggere. Gli si sdraiò accanto e iniziò ad accarezzargli i capelli dolcemente, cullandolo nel sonno. Un altro singhiozzo.
"Lei mi ha abbandonato Griffin, mi ha lasciato solo fra le tenebre con quel mostro. Ho paura."
"Chi ti ha lasciato?" chiese pacata.
"Credimi, ero bravo, non avevo mai fatto nulla di sbagliato. Ero piccolo, inutile, e lui era troppo forte, non riuscivo a sconfiggerlo. Avevo paura del buio, e lei non era lì per proteggermi. Così buio..." parlò flebile, voltò il capo.
Occhio che inquadra il vuoto, si ricorda una stanza con una bestia che avanza, fiamme ruggenti, dolore. Il frasare vago, spaventato di dare voce ai suoi incubi, rincorreva le sue debolezze con fiato strozzato, cercava di catturarle una per una, ma loro stavano sgocciolando via dalle sue labbra.
"Di chi stai parlando?" Griffin chiese stringendogli la mano, dandogli tutto il coraggio di continuare che le sue madri non gli avevano mai dato. "Mamma." Valtor balbettò in un ansimo. Senza neanche il pronome "mia", si riferiva quasi ad entità fuori dal tempo e dallo spazio di cui il nome tremava lasciando la sua bocca. Lei sapeva non avesse una madre, l'uomo biondo fra le sue braccia era una creazione delle Antenate, eppure desiderava una famiglia, un legame fatto di geni e carne.
"Mamma mi ha lasciato ed le tenebre sono venute a prendermi. Faceva così freddo, non potevo muovermi."
Dardi di oscurità ghiacciata, avvolto in sè stesso come una larva tremante. Il creatore parla, il figlio obbedisce. Il creatore ne spezza la volontà, fissa la regole, comanda. Violenza, punizione, obbedienza, sangue e ossa rotte. Il freddo si fa più forte, la neve taglia il viso, il figlio diventa stanco, inizia a farsi domande, si chiede lo scopo di tutto. "Il tuo scopo siamo noi Valtor, senza di noi sei nulla" Belladonna sentenziò.
Nessuna parola, un altro pianto che chiedeva disperato di essere dato voce. Era affamato per amore.
"Non voglio essere una creazione. Non posso essere loro figlio, Griffin. Lo sento, Io avverto, neanche loro sono così potenti da poter creare vita dal nulla. Brucia dentro di me, non appartengo a questo pianeta, Whisperia non è la mia casa, ma in qualche modo sono finito qui con loro, il figlio onnipotente delle tre streghe. Forse non ero un bravo bambino, ero bravo? Chissà se si ricorda di me. Non la ricordo, un momento era lì a stringermi, e quello dopo era scomparsa. Posso immaginare il suo tocco e profumo su di me, scommetto che odorava di rose, perchè amo le rose, no? Mi chiedo dove sia ora, cosa stia facendo, se é almeno un po' fiera di me o se mi abbia mai voluto bene. Ma lei non è qui. Belladonna, Liliss, Tharma non mi hanno mai lasciato, invece. Lo so, non saranno le madri dell'anno, ma non mi hanno mai lasciato. Sono un'arma, te l'ho detto, la più forte di tutte, non possono perdermi. Odiano l'uomo che sono, ma apprezzano la bestia, ecco perchè sono certo che non mi abbandonerebbero mai. In fondo penso che alla fine potrebbe anche tenerci a me, ho quello di cui hanno bisogno. Le amo."
Sorrise gettando il capo all'indietro fra i cuscini di seta, consapevole quanto si stesse rendendo ridicolo. Lei era ancora lì, fiera e sicura come sempre, ma il seme della preoccupazione germogliava dentro di lei. Labbra tremanti, ogni cellula del suo corpo fibrillava, volevano staccarsi dal suo corpo e fiondarsi su di lui come migliaia di stelle cadenti, costruirgli un riparo, salvarlo dalle sue madri e amarlo, dandogli un po' di quella cura che gli era da sempre stata negata. Sapeva il suo amore non fosse abbastanza.
Nel frattempo Valtor si domandava quanto sarebbe stato più facile spegnere la luce e lasciarsi inghiottire imprigionato in un sogno senza fine. Il buio sarebbe diventato la sua nuova casa e senza neanche il piccolo bagliore delle sue fiamme, non sarebbe stato più buio, solo nulla. Nessun suono, nessuna lotta, Forse lei sarebbe potuta essere in grado di tirarlo su dall'abisso che si era scavato lui stesso. Alzò il capo e tentò di incrociare il suo sguardo per l'ultima volta, le palpebre cominciavano a sentirsi pesanti.
"Griffin, non so per quanto tempo ancora sarò in grado di tenerlo sotto controllo il mostro. Ecco perchè ho bisogno di sapere che non importa cosa, resterai al mio fianco. Lo farai?"
"Io..."
Frase interrotta. Si era già addormentato senza neanche aspettare la risposta da quanto voleva fosse positiva. Era più facile scucirsi via dalla realtà e seguire il filo verso l'incanto onirico, in cui l'arazzo di tela con i loro volti sorridenti impressi non si sarebbe mai disfatto.
Sospirò. Ora era il suo turno di piangere.
Non lo sapeva. Quella era la risposta che tanto le era difficile e le rompeva il cuore a pezzi. Tutte le parole di coraggio e conforto che le erano prima venute facili le erano ora morte in gola, nessuna era per lei. Aveva visto il suo sangue scivolare via dritto fra la sua pelle, toccato ciò che di più intimo c'era di lui che in qualche modo riusciva ad apparire così giusto mentre si insidiava fra le sue mani ossute. Il rosso del sangue imprimeva impronte digitali del suo dolore, la lasciava custode di quello che gli era più caro.
Come il mare dopo una risacca rigurgita i suoi tesori sulla spiaggia, l'oscurità in lui aveva lasciato via il più prezioso dei suoi segreti: aveva sentito la sua umanità, ora toccava a lei decidere se lavarlo via o farlo seccare e nessun sapone l'avrebbe cancellato. Non poteva lavarsi le mani, le guardò nella penombra della notta, le girava e rigirava, cercava vie di fuga fra le righe dei suoi palmi, ma più agguzzava gli occhi in cerca di un senso logico, più ne era spinta lontana. Ora era nelle sue mani.
Si gettò fra le sete del letto e lo guardò: occhi chiusi e le ciglia gli solleticavano leggermente le guance. Come poteva un mostro essere così umano? E lei come poteva essere così ipocrita, incapace di dare una risposta ed eppure lo stava abbracciando. E cazzo, come faceva male il taglio sulla gamba. Forse la loro relazione era una nave a fuoco in alto mare. Acqua e fuoco, una bellissima tragedia da consumarsi in sincrono finchè l'uno non annienterà l'altro. L'acqua non muore mai, cambia forma. Il calore del fuoco l'avrebbe costretta in dardi cristallini che avrebbero ferito il cielo come rondini all'alba. Lei era un uccello. Uno vero.
Gli uccelli volano via.
   
 
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