Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Carme93    06/10/2021    2 recensioni
Giulia è una giovane donna, tormentata da un passato che non riesce a dimenticare.
All'improvviso rincontra il ragazzo che aveva amato.
Insieme tenteranno di riconciliarsi con il loro passato.
[Questa storia si è classificata quarta al contest "Skip!" indetto da Soul Mancini sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A





Frammenti di un amore ancora vivo
 
 



 
 
Something about the way that you walked into my living room
Casually and confident lookin' at the mess I am
But still you, still you want me
Stress lines and cigarettes, politics and deficits
Late bills and overages, screamin' and hollerin'
But still you, still you want me
 



 
 
Un forte boato scosse l‘edificio e una donna, rannicchiata su un divano di medie dimensioni, sollevò il capo appena in tempo per osservare il cielo nero squarciato da un fulmine. Ella chiuse gli occhi, svuotata. Non era la prima volta, che si sentiva così. A volte accadeva e basta. Erano i momenti in cui i pensieri tristi prendevano il sopravvento e non riusciva a scrollarsi di dosso la convinzione che ogni problema fosse solo colpa sua. Poi, però, c’erano i giorni, quelli belli, in cui le sembrava di poter far tutto.
Le gocce di pioggia striavano il vetro della finestra. Sembravano quasi lacrime. Come se almeno il cielo volesse farle compagnia.
All’improvviso percepì dei passi sulle scale. Tese le orecchie. I passi si fermarono di fronte alla porta. Non era solo il familiare scalpiccio sommesso per non dar noia ai vicini, che si lamentavano per ogni sciocchezza, ma c’era un altro passo più pesante e sicuro di sé.
Qualche secondo dopo la serratura scattò.
Ella strinse più forte le braccia al petto con gli occhi puntati sul corridoio buio, che dava sull’ingresso.
«Ciao, mamma» mormorò un bambino moro, completamente fradicio, con indosso una divisa sporca di terra. «Il mister ha voluto accompagnarmi, perché pioveva forte».
«Non sono le cinque ancora» commentò trasecolata. Non poteva aver dimenticato suo figlio. Non poteva.
«Abbiamo finito prima. Tutti i genitori sono stati avvertiti telefonicamente. Non hai risposto».
Una voce ferma, rigida in una formalità che risultava quasi insensata. Una voce che conosceva, di cui aveva conosciuto il calore. Rinunciò a cercare il cellulare nella stanza buio e tra l’altro, come ben sapeva, anche particolarmente caotica. Un nuovo fulmine illuminò fiocamente il salone e permise ai loro occhi di trovarsi, d’incatenarsi, come se il tempo non fosse mai trascorso.
Rimasero al buio, immobili, finché il bambino non recuperò la sua fidata torcia e illuminò cupamente l’ambiente.
«Allora, sei veramente tu» borbottò l’uomo dopo averla osservata.
Le si era seccata la gola e non rispose.
«Ti ho visto qualche giorno fa, quando hai accompagnato Benedetto. E anche oggi» insisté l’allenatore.
«Già» mormorò, distogliendo lo sguardo da lui e puntandolo su una maglia sul tappeto, che spinse sotto il divano sperando che l’ospite inaspettato non la notasse. In realtà, era difficile non notare il disordine in cui versava il salottino: il fascio di luce colpiva in pieno il tavolino ricoperto di piatti sporchi, cicche di sigarette – fumate tutte in assenza del figlio, perché non voleva farsi vedere da lui -, riviste strappate e vestiti sporchi.
Tra loro scese di nuovo il silenzio.
«Tuo marito non accorre per sistemarti la luce?» esclamò il mister. La sua voce era sarcastica e dura, quella che utilizzava sempre quando era contrariato o si poneva sulla difensiva.
«Non c’è nessun marito» mormorò lei sommessamente, quasi felice di non provocargli anche questo dolore.
«Davvero?» sbuffò lui scettico, ma se l’avesse guardato negli occhi probabilmente avrebbe colto un baluginio di speranza.
«Davvero. Siamo solo io e Benedetto».
«Io ero sicuro che…».
Ella si strinse nelle spalle.
Tacquero nuovamente.
«È saltata la luce?» chiese. Le sue parole risuonarono nella stanza, ma questa volta erano più incerte e prive di sarcasmo. «Se vuoi, posso controllare».
«Inutile. L’hanno tagliata. Non ho pagato delle bollette».
Lui fece per parlare, ma lei scosse la testa: «Grazie, Alessandro, ma non ti preoccupare. Io e Benedetto ce la caviamo bene da soli».
Alessandro annuì e sorrise leggermente. «Certo, hai ragione».
«Grazie per aver accompagnato Benedetto».
«Non c’è problema. Ora devo andare» borbottò Alessandro imbarazzato. Si avviò verso l’ingresso, ma, prima di sparire nel buio, aggiunse: «Ci vediamo al prossimo allenamento, Giulia. Ciao, Benedetto».
Giulia. Si rigirò quel nome nella mente, assaporandolo: erano anni che non lo sentiva pronunciare da lui. E l’era mancato tantissimo.
 




 
Oh, I always let you down
You're shattered on the ground
But still I find you there
Next to me
And oh, stupid things I do
I'm far from good, it's true
But still I find you
Next to me (next to me)
 
 




Fissò la superficie di legno con aria assente e svagata. Le sue mani erano strette convulsamente al collo della bottiglia di sambuca, di cui si era impadronita senza che il barman se ne accorgesse.
«Eccoti, non ti vedevo!»
All'incirca furono quelle le parole che le urlò la sua migliore amica, Anastasia, apparendo all'improvviso al suo fianco. Il resto si perse nella musica che rimbombava nella discoteca.
Le rivolse un lieve cenno di assenso.
Anastasia le urlò qualcos'altro. Ancora una volta, Giulia intuì soltanto, ma strinse ancora più forte la bottiglia: quel nome, nemmeno pronunciato dall'amica, sembrò risuonare nella sua testa ancora più forte della musica.
Il ragazzo che le andava dietro dalla seconda liceo, ma che non aveva mai calcolato troppo: per anni era stato carino, ma non troppo; discreto a scuola ma non particolarmente bravo. L'unica attività in cui eccelleva era il calcio. Era così bravo che era entrato nella primavera della squadra cittadina. Eppure a lei il calcio non piaceva, ma essere il centro d’interesse per qualcuno, sì: Alessandro tentava di accontentarla in ogni modo e renderla felice. Le sue amiche le avevano consigliato di approfittarsene, e lei le aveva ascoltate; ma se n’era veramente innamorata. Erano mesi, ormai, che si frequentavano. Quella sera, però, Alessandro si era rifiutato di andare alla festa di Halloween con lei, perché era stato convocato per la partita della prima squadra, la sua occasione di esordire in serie B. Non era la prima volta che lui anteponeva il calcio a lei, perciò avevano litigato. Le sue amiche l’avevano sostenuta, probabilmente perché a loro non piaceva.
Adesso, però, si sentiva un po' in colpa. Solo un po'. In fondo le piaceva la sua compagnia, ma si domandava se sarebbe stata capace di dividerlo con il calcio.
Anastasia continuava a sbraitare parole che la musica portava con sé, così, perdendo la pazienza, la prese per un braccio e, costringendola ad abbandonare la bottiglia, la condusse dall'altra parte della sala. Giulia comprese subito quale fosse la sua intenzione e i frammenti di grida che aveva colto prima: "chiodo schiaccia chiodo".
L’amica le presentò il ragazzo di cui le aveva più volte parlato. Era più grande di loro, aveva più di vent'anni. A prima impressione non le suscitò simpatia, in più era anche abbastanza seccata dalla serata: quella stupida festa non c'entrava nulla con Halloween, avrebbe potuto svolgersi in qualunque altro giorno. Alcool e musica, nient’altro; mentre lei avrebbe voluto una festa in stile americano.
Non poteva tirarsi indietro, però, o avrebbe fatto la figura della bambina sciocca e capricciosa davanti alle sue amiche. Si sforzò di sorridere al ragazzo e ballò con lui, che allungò subito le mani. Giulia lo fermò ogni volta, ma non fu sufficiente a dissuaderlo.
All'improvviso, però, nella confusione apparve Alessandro. I loro occhi si incrociarono. I suoi si velarono all’istante e le voltò le spalle. Giulia si divincolò dalla stretta del ragazzo più grande e provò a seguirlo, ma il locale era troppo affollato.
Sentendosi profondamente in colpa, cercò rifugio in bagno. Lì la musica era più attutita, ma le girava la testa e un profondo senso di nausea la invase. In ritardo, si accorse che il ragazzo, con cui aveva ballato, l'aveva seguita. Provò ad allontanarlo, ma inutilmente: le sue mani si facevano sempre più insinuanti.
Giulia non avrebbe ricordato molto di quella notte. 
 




 
 
There's something about the way that you always see the pretty view
Overlook the blooded mess, always lookin' effortless
And still you, still you want me
I got no innocence, faith ain't no privilege
I am a deck of cards, vice or a game of hearts
And still you, still you want me
 
 




L’arbitro fischiò due volte e segnò la fine della partita. La squadra in bianco e blu iniziò a festeggiare, come se avesse vinto chissà quale premio. Eppure anche lei una volta era stata una bambina ed era stata felice per molto meno. Che cos’era successo dopo? Perché era stata costretta a crescere velocemente? Sospirò stringendosi la giacca per proteggersi dal vento freddo. Ma soprattutto, la domanda migliore sarebbe stata: perché era lì? A lei il calcio non era mai interessato.
Fissò Benedetto, buffo nella sua divisa, e Alessandro, sempre impeccabile con la tuta della società, intenti a scambiare qualche parola, poi si decise a raggiungerli.
«Ciao» salutò, sentendosi più leggera in loro compagnia.
Suo figlio replicò sommessamente e tirò in fretta il borsone dalla panchina, pronto per andarsene.
«Parliamo un attimo» disse, invece, Alessandro tirandola di lato e facendo segno al bambino di aspettare.
«Che vuoi?» chiese Giulia sorpresa. Come aveva potuto solo pensare che l’avesse perdonata?
Alessandro sbuffò infastidito e forse per scaldarsi un po’. Lanciò un’occhiata al bambino e le disse: «Passo le partite a sorbirmi le lagne dei nani, “mister posso giocare?”, “mister, dai tocca a me”, “mister, io quello l’avrei segnato”, “mister, mio padre ha detto che mi cambia di squadra se non mi fai giocare”. Oggi, ho supplicato tuo figlio di entrare in campo e lui si è rifiutato».
Sorridi e inventa una scusa, si disse.  L’aveva fatto sempre, ogni qualvolta non era riuscita a evitare gli incontri con le maestre. Era brava, così com’era brava a giocarsi la scuola da studentessa senza essere beccata. Davanti, a lui, però, qualcosa si ruppe. «È fatto così» mormorò con voce incerta. «Sai, a lui basta avere un libro o un fumetto da leggere ed è contento… gioca, naturalmente, ma quando ci sono troppi bambini…» non concluse la frase, non era in grado di farlo. Era diventata madre quando ancora era a malapena in grado di prendersi cura di sé stessa e ora quel bambino era così difficile, che si chiedeva se non fosse una specie di punizione. Sollevò gli occhi su di lui e si disse che se lo meritava. Se lo meritava per quello che era successo quella maledetta notte. Eppure non aveva mai visto Benedetto come una punizione. Mai.
Alessandro, però, la sorprese. «Benedetto, vieni. Ti va una cioccolata calda?».
Il bambino si avvicinò incerto e li fissò.
«Sì, a Benedetto piace la cioccolata» intervenne Giulia, non sapendo bene perché: solo un attimo prima sarebbe voluta scomparire. «E anche a me». Tirò il bambino vicino a sé e gli sorrise.
Allora Alessandro li guidò in un bar vicino e fu esattamente come se non fossero passati tanti anni: era simpatico e semplice allo stesso tempo. Inoltre, ebbe la sensibilità di non parlare della partita, ma affrontò argomenti più generici e sicuramente non problematici.
«Non l’ho ancora visto» mormorò Benedetto, quando Alessandro citò l’ultimo film uscito.
«Potremmo andare ora, che dite?».
Giulia, che si era persa ad osservarli, sobbalzò. Gli occhi di Benedetto brillarono.  «No, non è possibile» borbottò, sentendosi in colpa nei confronti del figlio.
«Dovete tornare a casa?».
Perché insisteva? «Sì».
«Non possiamo andare?» chiese in contemporanea Benedetto.
Gli lanciò un’occhiata sorpresa, ma lui aveva già distolto lo sguardo.
Giulia si morse il labbro e trascinò Alessandro lontano dal tavolino. «Non ho un centesimo. Perché gli hai proposto il cinema?».
Lui non rispose subito, poi borbottò: «Perché sei venuta oggi alla partita? Perché, nelle ultime settimane, sei venuta a tutti gli allenamenti? A Benedetto non piace giocare con gli altri».
Quelle parole la sorpresero. Lo fissò, ma non ebbe il coraggio di rispondere: era stata egoista ancora una volta.
«Offro io» decise Alessandro e lo disse con una tale fermezza che Giulia non osò contraddirlo.
Così, inaspettatamente, trascorsero l’intero pomeriggio insieme.
Al buio nel cinema, gli occhi di Benedetto erano incantati dal film, così il braccio di Alessandro scivolò senza remore sulle spalle di Giulia, che sobbalzò irrigidendosi; ma poi si adagiò, percependo un calore agognato ma dimenticato.  
 
 




 
 
Oh, I always let you down
You're shattered on the ground
But still I find you there
Next to me
And oh, stupid things I do
I'm far from good, it's true
But still I find you
Next to me (next to me)
 
 




Si tirò il maglione su jeans e si chiese per quanto tempo ancora sarebbe stato sufficiente per nascondere la verità. Come avrebbero reagito le sue amiche? I suoi genitori? Come avrebbe affrontato la maturità?
Sospirò avanzando tra i corridoi bianchi e asettici dell’edificio. Cercò di tenere fissi gli occhi a terra per non vedere la sofferenza altrui: gli ospedali la spaventavano terribilmente. Se non si fosse confidata con qualcuno, al momento giusto sarebbe rimasta completamente da sola in quel posto?
Per tutto il tempo sollevò gli occhi solo per assicurarsi di non superare la stanza che stava cercando. Aveva impiegato tempo a decidersi ad andare lì. Sperò ardentemente di non incontrare nessuno. Non poteva affrontare i familiari di Alessandro. Sapevano la verità? Gliel’aveva raccontata? La odiavano anche loro?
Finalmente raggiunse la sua camera. Con il cuore in gola fece capolino, ma era vuota.
Agitata, fermò un’infermiera. «Scusi, dove si trova Alessandro?».
Lei la fissò per un attimo e poi borbottò: «L’orario di visite è finito. Sta facendo riabilitazione».
La ringraziò e finse di andarsene, invece vagò finché non trovò il giusto reparto. Si fermò sulla soglia, dietro un separé per non essere vista. Alessandro le dava le spalle e stava camminando con l’aiuto di un’infermiera. Era dimagrito e leggermente curvo. Lo conosceva: era triste. Probabilmente quel posto non l’aiutava a star tranquillo: aveva bisogno della sua famiglia e dei suoi amici.
Fu contenta che le desse le spalle: non avrebbe sopportato di vedere i suoi occhi. Erano la parte di lui che più le piaceva di lui. Ora non avrebbero brillato e non avrebbero espresso vitalità, ma solo odio verso di lei. E aveva ragione.  Ma lei non poteva sopportarlo: aveva ignorato i suoi messaggi e le sue chiamate. Meritava quell’odio, ma non aveva la forza di affrontarlo.
Alessandro sarebbe presto tornato a camminare, ma non avrebbe più giocato a calcio.
Gli aveva rovinato la vita.
 




 
 
 
So thank you for taking a chance on me
I know it isn't easy
But I hope to be worth it (oh)
So thank you for taking a chance on me
I know it isn't easy
But I hope to be worth it (oh)
 
 
 




Un leggero venticello scompigliava i suoi capelli e un brivido le percorse la schiena. La primavera era giunta e un tiepido sole baciava i volti di Alessandro e Benedetto, che giocavano poco distanti da lei. Alessandro era sempre stato un ragazzo di cuore, era uno degli aspetti di lui che l’aveva attratta già da ragazzina.
Il ragazzo lasciò che il bambino si divertisse a far saltare le pietre piatte a fior d’acqua e le si avvicinò.
«Tutto ok?» le chiese.
Giulia annuì e spostò lo sguardo sul mare. Era sempre desiderosa di trascorrere del tempo con lui, ma ogni volta aveva un peso sul cuore: non meritava quella felicità.
«A che pensi?».
Lei scosse il capo a quella domanda. In quei mesi, anche se Benedetto aveva smesso di giocare nella squadra di Alessandro, si erano incontrati spesso. Era come se stessero ricucendo quella complicità che lei aveva spezzato.  Mai, però, avevano parlato di quella notte.
Alessandro le strinse la mano sorridendo incoraggiante; Giulia percepì il desiderio di stringersi a lui, di farsi scaldare dal suo abbraccio; ma con un gesto secco lo allontanò. Aveva paura. Perché? Perché le faceva questo? Si erano rincontrati dopo anni e lui si comportava quasi come se non fosse accaduto nulla! Era uno scherzo? Sì, forse voleva vendicarsi. E come? L’unica persona importante, l’unica cosa che contava veramente per lei era Benedetto. E Alessandro non sarebbe mai caduto tanto in basso.
«Scusa» disse smarrito Alessandro, ritraendo la mano come se si fosse scottato. «Pensavo avresti gradito».
«Perché?» sbottò. Quel discorso era stato rimandando fin troppo e non potevano fingere ancora che non fosse mai accaduto nulla.
«Sei triste, lo vedo e… Non lo so, ti ho solo stretto la mano… io…».
Giulia sbuffò: era mai possibile che si comportasse ancora come un adolescente impacciato? «Non mi riferivo a questo» disse. «Perché sei qui?».
«Credevo ti facesse piacere, io…».
«Perché non mi odi?».
L’espressione di Alessandro divenne dapprima stranita, poi s’incupì. «Non ti odio» mormorò abbassando ancora di più il tono della voce.
«Perché?» insisté Giulia. «Ti ho rovinato la vita».
Alessandro sospirò. «Non sei l’unica colpevole, sai? Non c’eri tu su quella macchina… non guidavi tu…».
«Sei venuto alla festa per me e te ne sei andato con quei cretini, perché mi hai visto…».
«Non sarei dovuto venire alla festa. Il mio allenatore era stato chiaro e io e te avremmo potuto chiarire un altro giorno…».
«Ma sei venuto per me» lo interruppe Giulia.
Alessandro sbuffò: «Se fossi rimasto, molte cose sarebbero andate diversamente. Avrei dovuto picchiare quel cretino che stava con te, invece me ne sono andato… se solo l’avessi fatto…». Il suo sguardo scivolò mestamente su Benedetto, che incurante continuava a giocare e ogni tanto li chiamava, perché guardassero quanto era bravo.
«Non mi sono mai pentita. Te l’ho detto Benedetto è la cosa più preziosa che ho».
«Sì, ma non è giusto. Non avevi nemmeno diciotto anni, non sarebbe dovuto succedere… non in quel modo… Come posso odiarti, Giulia? Eravamo entrambi due ragazzini stupidi e il destino ha giocato con le nostre vite».
Questa volta Giulia li permise di stringerle le mani. «Ero arrabbiato con te all’inizio, ma solo perché ero geloso. Poi tu sei sparita e ci sono stato male».
Giulia scosse il capo incredula: «Tu non puoi dire questo, io… devi odiarmi…».
«Zitta» sussurrò lui. «Sono qui e stavolta non mi sfuggirai. Mi accontenterò anche di essere il tuo migliore amico».
Giulia lo abbracciò, nascondendo il volto nel suo petto. Non sarebbe stato semplice, ma quel peso sul cuore non l’avrebbe più portato da sola. «Grazie».
 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Carme93