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Autore: holls    07/10/2021    11 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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4. Coincidenze

 

 

 

Ashton ancora non si vedeva. Non era in ritardo – non ancora , eppure avevo uno strano presentimento per quella serata. Il concerto sarebbe cominciato tra poco e sarebbe stato meglio avviarsi un po’ prima, per non essere travolti dalla valanga di gente che era accorsa all’auditorium per assistervi.

Che poi, nemmeno mi interessava. Avevo accettato solo per riempire quella parte di me ridotta a brandelli, per cercare un’alternativa meno logorante del pensare sempre a Oliver. Ogni volta che mi tornava in mente mi sentivo mozzare il fiato, il cuore cominciava a battermi forte e io non mi vedevo più parte del mondo, come se non ne capissi più le regole; spesso mi ritrovavo da solo, con sguardo vacuo, a chiedermi dove stesse andando la mia esistenza, che senso avesse.

Perché si vive finché si ha uno scopo, finché c’è qualcosa che può rendere la nostra vita migliore. Ma quando la realtà prende il sopravvento, e ti affanna, e ti appanna la vista, tanto che tutto sembra insignificante e sconclusionato, una routine di cui non cogli più il significato, non è così semplice non desiderare che tutto finisca.

Non è facile trovare il coraggio di emettere un altro respiro.

Se non fosse stato per Ashton, decisamente, non sarei stato lì in piedi, a fare capolino tra la folla in cerca di quello che potevo considerare il mio unico amico, a parte i miei genitori.

Da quando Oliver mi aveva lasciato, la mia famiglia mi aveva sostenuto in ogni modo possibile; ma la lontananza e l’ovvia evidenza che nessuno può sostituire il tuo compagno di vita mi avevano fatto scivolare in una nera apatia. Però almeno mi avevano donato una speranza per tirare avanti: la certezza che, prima o poi, qualcosa sarebbe cambiato in meglio.

Inutile negare che in certi momenti lo desiderassi, sì; ma poi l’affanno, i sensi di colpa, la foto di Oliver sul comodino prima di andare a dormire mi acceleravano il battito tanto da farmi pensare di morire da un momento all’altro. Di nuovo quella sensazione di non poter più sostenere il peso della vita, di non provare più piacere in niente, desiderando piuttosto di voler morire, pur di non farmi schiacciare dal macigno della mia esistenza.

In realtà, però, in quel momento mi sentivo abbastanza bene. Il concerto mi stava distraendo dai brutti pensieri, impedendomi di lasciarmi cogliere da quel respiro troppo corto per permettermi di vivere.

Ondeggiai di nuovo la testa da una parte all’altra nel tentativo di scovare Ashton, ma di lui nessuna traccia. Mi presi un attimo di pausa per riposare il collo, su cui passai una mano, cercando di sciogliere un po’ i muscoli.

«Non ci posso credere, ci sei davvero!»

Ciò che vidi davanti ai miei occhi frenò il mio simulato entusiasmo; perché davanti a me non c’era Ashton, che cominciava ad essere in ritardo.

Non avevo idea di come fosse potuto succedere, ma di fronte mi ritrovai Nathan, quella specie di adolescente nel corpo di un ragazzo e con un cervello sottosviluppato.

Bah, forse era una definizione troppo crudele.

Eppure quel sorrisetto così pronunciato e quella voce che facevo fatica ad associare a un uomo adulto sembravano confermare a pieno la mia supposizione.

Sospirai.

Mi sarebbe bastato salutarlo con educazione e poi dirgli gentilmente che aspettavo un ospite. Sperai di non dover insistere troppo.

«Ma tu guarda chi c’è. Che coincidenza, vero?»

L’educazione aveva deciso di prendere il primo volo per le Hawaii. C’era poco da fare: quel ragazzo aveva il potere di risvegliare la parte più inacidita di me. Per certi versi lo trovai divertente, quasi catartico, perché mi sembrava di poter riversare su di lui qualunque sensazione negativa che avevo in corpo. Per un attimo mi chiesi se fosse giusto, ma il pensiero svanì subito.

Lui comunque scoppiò in una fragorosa risata. Non capii cosa lo stesse divertendo tanto.

«Ah, fai il timidone!», e mi spintonò appena su un braccio.

Mi aveva toccato.

Quante persone lo avevano fatto, da quel giorno? Eppure mi sentivo a disagio, perché sapevo che lui era gay e che quel tocco poteva rappresentare anche più di una semplice pacca. Forse in un altro universo, sì, ma non potevo fare a meno di correre con la mente e associare a quel gesto qualcosa di estremamente spiacevole.

Mi sembrava di non riuscire più a respirare. Il concerto, tutto quel chiasso, quella conversazione. Niente aveva più senso. L’umanità stessa sembrò non avere più un significato, per me. Estraniato dalla realtà, ancora una volta. Di nuovo, il desiderio di essere salvato da Oliver.

Una seconda pacca mi annebbiò i pensieri, impedendomi di leggere quelli troppo pesanti da sostenere. Il respiro tornò normale. Ogni cosa riacquistò un suo perché: ero al concerto per cercare di ridare un senso alla mia vita e, anche se in quel momento mi sembrava che non l’avesse, presto l’avrei ritrovato e perseguito, come avevo fatto negli ultimi venticinque anni. Sarei tornato normale.

«Scusa, ma non ti seguo.»

Lui rise ancora, meno forte di prima. Poi si placò, con un sorriso ebete sulla faccia. Mi fissava, forse per cercare di trovare una soluzione ai ragionamenti che si animavano in quella sua testolina.

«Ma come sei spiritoso», affermò per poi fermarsi, esitante. «Mi hai invitato tu al concerto.»

Aggrottai la fronte, d’istinto, e cercai di ricordarmi quando avrei potuto commettere una simile follia. Forse avevo fatto qualche gesto avventato in uno dei miei momenti di distacco? Eppure no, perché ero sempre cosciente. Scossi il capo.

«Mi dispiace, ma io non ho invitato proprio nessuno. Piuttosto, a breve dovrebbe arrivare…» Ebbi una rivelazione fulminea. «… Ashton.»

Alzai gli occhi al cielo. Mi dissi ironicamente che avevo trovato un senso alla mia vita: depennare Ashton dalla mia lista di amicizie, dopo averlo caricato di lavoro fino allo sfinimento.

In quel momento capii perché aveva dato a me i biglietti, invece che portarli lui. E il bigliettino sulla scrivania: ecco dov’era scomparso! Scossi il capo senza pensare, mentre un pesante sospiro espresse tutto il mio disappunto.

«Ash? Che c’entra Ash?» Aggrottò la fronte e fece per esprimere altri dubbi, ma le parole gli morirono in gola. «…Oh. Ho capito.»

Nathan teneva gli occhi bassi e il sorriso dalla sua faccia aveva lasciato il posto a un paio di labbra perfettamente dritte.

«Scusa», e il suo sguardo cominciò a vagare da me all’asfalto, «pensavo che l’invito fosse tuo.»

Era in evidente difficoltà, incapace di districarsi da quella situazione in cui, sicuramente, si sentiva un incomodo.

«Torno a casa, allora», continuò, con gli occhi che si posavano, ancora, ora su di me, ora sull’asfalto; un po’ più me e meno l’asfalto.

Mi grattai la fronte, indeciso sul da farsi. Avevo davvero il coraggio di mandare via così una persona?

È vero, era un idiota, mentre io ero troppo buono. Inoltre, non mi sembrava carino nei confronti di Ashton buttare via così due biglietti, benché fosse in debito morale con me. Sembrava che avesse studiato tutto nei minimi dettagli. Pensai ad altri modi legali con cui potevo vendicarmi.

«Be’, direi che a questo punto ci conviene assistere al concerto. Che ne dici?»

Lui annuì appena, con un sorriso abbozzato sul viso.

Non guardava più l’asfalto.

 

Superammo il cancello d’entrata, mentre il buio cominciava a calare. C’era una caciara infernale, mille voci sovrapposte l’una all’altra, donne e uomini di ogni tipo pronti a partecipare all’evento. Varcata la soglia notai che, di fianco a me, c’era un gruppetto di ragazzi giovani, tra cui spiccava una ragazza con una coda alta, capelli neri e lunghi, rossetto marcato, ombretto che le ricopriva le palpebre con un nero pece, gonna corta, a quadri, scarpe borchiate. Aspettavano trepidanti l’inizio del concerto, tra urla, schiamazzi e gridolini eccitati.

Poi pensai a me: uomo semplice, quasi anonimo, vestito con camicia e jeans, decisamente diverso da quella ragazza, da quella gioventù, da quello spirito.

Nathan, invece, sembrava a suo agio. Se ne stava accanto a me, senza dire niente, mentre ogni tanto sbirciava la situazione davanti a sé. Quel silenzio tra noi mi apparve innaturale e fastidioso; ma, al contempo, non lo sentivo pesante, né inappropriato. Avrei potuto spezzarlo quando volevo, senza dare l’impressione di voler riempire un vuoto.

La sua attenzione non era stata catturata, come la mia, dalla ragazza borchiata; si limitava a scrutare la folla, radunata all’entrata della struttura, un vecchio palazzetto fatiscente.

«Senti, io andrei a fumarmi una sigaretta.»

Un sussulto. Laggiù, in qualche zona remota del mio corpo. Un pensiero sporco di cui volevo liberarmi.

«Se ti allontani adesso, non penso che ci ritroveremo a breve.»

Poteva essere la mia occasione per sbarazzarmi di lui, per tornare alla tranquillità e alla solitudine della mia casa, ma il mio istinto di bontà mi trattenne dal pregare che lui si allontanasse comunque. Decisi che, non appena fossi stato in comodo, avrei eliminato anche quel sentimento.

«Vieni con me, allora. Tanto qui ci vorrà una vita.»

Non aveva torto. Purtroppo.

Stava sballottando i miei piani e rivoltando completamente l’idea che mi ero fatto di quella serata. Volevo un po’ di pace e tranquillità, stare in buona compagnia; e invece mi ritrovavo con quel – non ebbi il coraggio di definirlo – in mezzo ai piedi, che mi aveva fatto gli occhioni dolci per non rimandarlo a casa.

Ero arrabbiato con me stesso.

«Vieni?», mi chiese, facendomi cenno di andare con lui.

Io lo seguii, perché non avevo molta altra scelta. Mi feci strada tra un permesso e l’altro, mentre continuavo a ricevere spintoni e a incappare in bambini che non riuscivo a vedere. Sentivo i nervi sul punto di spezzarsi, mentre ogni persona che mi veniva incontro aveva solo la capacità di farmi innervosire un po’ di più.

Trovammo uno spazio leggermente più appartato, vicino al perimetro della struttura; e mentre lui cercava le sigarette nella tasca posteriore, io rimpiansi di non averlo lasciato andare quando avrei potuto.

Mi addossai al cancello che circondava l’area e sperai che non ci mettesse tanto. Incrociai le braccia e buttai lo sguardo nella direzione opposta a quella dov’era lui, mentre osservavo di nuovo la ragazza borchiata che rideva, insieme al suo gruppo di amici.

Sentii il click dell’accendino e, qualche secondo dopo, l’odore acre della sigaretta mi passò sotto il naso. Trattenni il respiro, senza volere. Perché doveva sempre venire nella mia direzione?

«Ti piace?»

Mi voltai verso di lui. Insieme al fumo, mi arrivò una tanfata di lavanda. Proveniva da lui?

«Di che parli?»

Lui indicò col mento davanti a me.

«Parlo della ragazza con la coda nera. La stai fissando da quando siamo arrivati.»

Touché. Meno stupido di quanto credessi, più osservatore di me, almeno per ciò che riguardava quel periodo. Acuto.

«Cercavo solo di capire la clientela media del locale. Non mi interessano le ragazze.»

Nathan ridacchiò.

«Neanche a me.»

Lo disse con voce calda, bassa, quasi avvolgente. Ennesimo tentativo – sciocco di seduzione, l’ennesimo suo buco nell’acqua. Ma come si poteva trovarlo interessante?

«Non c’era bisogno di dirlo. Era chiaro come il Sole.» Lui ridacchiò abbassando un po’ lo sguardo, buttò un’occhiata all’erba tagliata di fresco, ancora un po’ umida per la pioggia degli ultimi giorni. «Devo ricordarti di quando sei venuto in centrale?»

Rise ancora, ma stavolta c’era più sicurezza. Notai che la sua risata cambiava impercettibilmente, in base a come si sentiva. Stavolta aveva continuato a guardarmi, senza abbassare lo sguardo, senza arrossire.

«Volevo solo divertirmi un po’, dai. Ti ha dato fastidio?»

Mi voltai a guardarlo, proprio nel momento in cui la sigaretta sgusciò via dalla bocca e il fumo accarezzò le sue labbra. Sentii i nervi stendersi. Detestavo quella sensazione. Eppure non avrei saputo dire se era il fumo, che sembrava così delicato mentre gli sfiorava le labbra, o se quella bocca che sporgeva esattamente quanto il suo naso.

In quel momento, non seppi dire.

Non mi mettevo più a guardare gli uomini; sembravo aver perso ogni attrazione, visto che mi consideravo ancora impegnato. Trovavo tollerabile quell’uscita solo perché potevamo definirci appena conoscenti, anche se mi disturbava il pensiero che fosse gay. Avrebbe potuto trovarmi attraente, provarci con me. E invece io, di quelle cose, non volevo sapere niente.

«È solo che in questo momento non sono interessato.»

Il sorriso gli cambiò ancora. Era tirato da una parte, le labbra serrate, la testa leggermente inclinata verso destra. Era un libro aperto.

«Scusa.»

«Per essere stato inopportuno?»

Soffocò una risata imbarazzata. Occhi abbassati. Mi sembrava quasi di violare la sua intimità a leggerlo così.

«Per questa situazione. Immagino che non ti faccia molto piacere essere qui, specialmente con me.»

Notai che stava lasciando bruciare la sigaretta, senza aspirarla. Forse se n’era momentaneamente scordato, sempre che fosse possibile dimenticarsi di avere una sigaretta accesa tra le dita.

«Però, per una volta, non mi sono cacciato nei casini da solo. Se e quando rivedrò Ash, farà meglio a nascondersi…», e scoppiò in una risatina. Immaginai Nathan correre dietro ad Ashton urlandogli chissà cosa e questo pensiero mi fece sorridere.

Ashton. Ma come gli era saltato in mente di organizzare una cosa simile?

«Sono d’accordo. Qualche idea?»

Mi contagiò ancora con la sua risata; le guance gli si colorirono un po’, forse per l’imbarazzo. Mi resi conto che quando era imbarazzato brillava di una luce diversa.

Una serie di schiamazzi richiamò la mia attenzione. Mi voltai subito verso il gruppo della ragazza con la coda nera e vidi uno dei ragazzi spintonarne un altro, mentre volavano parole grosse. Senza pensarci un attimo, corsi verso il gruppo di amici e mi intromisi tra i due ragazzi litigiosi.

Il ragazzo accanto a Coda Nera aveva probabilmente provocato la rissa. Continuava a insultare l’altro di fronte a lui, spaurito e nascosto dentro quel suo cappuccio, che tentava di parare malamente i colpi che l’altro sferrava.

Coda Nera si avvicinò al ragazzo che era accanto a lei e provò a staccarlo da quello incappucciato, ma di rimando ottenne solo una gomitata che la colpì di striscio a un fianco.

«Ahia! Qualcuno li fermi, per favore!»

Si allontanò invocando aiuto, ma piano piano anche gli altri amici stavano facendo spazio, forse troppo spaventati dalla reazione aggressiva del loro amico.

Come provai a separarli, il ragazzo del gruppo tentò di sferrarmi un pugno, che schivai con inaspettata rapidità. Ci riprovò poco dopo, stavolta diretto verso l’incappucciato, che atterrò sull’erba a faccia in giù. Non appena si girò per rialzarsi, notai che aveva un labbro insanguinato, mentre la paura aveva lasciato spazio alla rabbia.

Approfittai di quel momento per cingere l’amico di Coda Nera.

«Che cazzo vuoi, tu? Lasciami stare!»

Il ragazzo si dimenava e cercava di liberarsi dalla mia presa, che tenevo ben salda.

«Smettetela, tutti e due!»

Trattenni alla meno peggio gambe e braccia, per evitare che si avventasse di nuovo verso l’altro ragazzo, che si era rialzato. Lo vidi poggiarsi la punta delle dita sulle labbra e osservare il sangue strofinato sui polpastrelli; sperai che non avesse voglia di vendetta.

La fortuna fu dalla mia e, quando anche l’amico di Coda Nera ebbe smesso di scalpitare, allentai a poco a poco la presa, senza perderlo di vista. L’amico aveva ancora il respiro ingrossato, ma si limitava a guardare in cagnesco il ragazzo di fronte a lui, che si era tirato nuovamente su il cappuccio.

«Mi spiegate cos’è successo?»

Nessuno dei due fiatò. Erano troppo occupati a lanciarsi sguardi minacciosi, così provai a cercare l’aiuto di Coda Nera, ancora scossa dalla reazione improvvisa dell’amico.

«Niente di che, non si preoccupi. Grazie per essere intervenuto.»

Gettai ancora un’occhiata ai due lottatori, ma sembravano aver messo da parte i loro istinti maneschi.

«Figurati. Dovere.»

Controllai ancora una volta la situazione, poi mossi qualche passo verso Nathan. Calpestai qualcosa di più robusto dell’erba e mi chinai a raccoglierlo.

Quasi non mi parve vero: era la tessera di quello che sembrava un locale e, sulla sinistra, c’era un animale che somigliava moltissimo al toro che avevo trovato nei disegni di Michael. La luce era poca, ma piegando la tessera verso il lampione intravidi lo stesso dettaglio delle corna che avevo visto nel quaderno. Spostai lo sguardo verso il nome, ma tutto quello che vidi fu il dorso di una mano, quasi totalmente ricoperto da un tatuaggio, per nulla riconoscibile a causa della luce fioca della serata.

«È mia, se non le dispiace.»

Feci appena in tempo ad alzare gli occhi e a notare il ragazzo incappucciato che mi sfilava la tessera dalle dita; poi prese a correre verso il padiglione dove si sarebbe tenuto il concerto, per sparire un attimo dopo.

 

Mentre tornavo verso Nathan, che mi guardava inebetito con quella sua stupida sigaretta in mano, mi resi conto che quella tessera poteva significare una svolta interessante. Il toro sui quaderni di Michael poteva davvero rappresentare il logo del locale sulla tessera, di cui purtroppo non avevo fatto in tempo a leggere il nome. A ogni modo, però, la mia ricerca si restringeva in modo drastico, o quantomeno era un ottimo punto di partenza per seguire quella pista. Se fossi riuscito a risalire al locale, avrei potuto rintracciare Michael od ottenere altre informazioni su di lui e sulla rapina.

«Wow, complimenti. È stata una figata!»

Provai a rimettere a posto i tasselli: la rapina era avvenuta apparentemente senza uno scopo diverso da quello evidente – cioè economico –, ma intanto uno dei dipendenti era scomparso (e non in malattia come voleva far credere); in più, il rapinatore sembrava cercare qualcuno o qualcosa. Non necessariamente quegli elementi erano collegati, ma alla luce di quei risvolti cominciai a pensare che forse Michael potesse essere più di un semplice dipendente delle poste.

«Sei stato figo, davvero.»

… Dovevo mettermi sotto ed effettuare la ricerca il prima possibile. Forse avrei potuto risparmiare Ashton e chiedergli di aiutarmi.

«Alan?»

… Ma non prima di essermi sbarazzato di Nathan. Non ce la faceva a stare zitto per un po’?

«Sì?»

Lui mi guardò interrogativo.

«Dicevo, sei stato grande. Quel cazzotto poteva davvero farti male.»

«Sì, be’… Ordinaria amministrazione.»

Avevo perso ormai il filo dei pensieri, anche se avevano già preso forma, quel poco che bastava per non dimenticare dov’ero arrivato. Abbandonai per un momento la rapina, la tessera, il ragazzo scomparso e tornai alla mia vita, a Nathan e allo stupido concerto che sarei stato costretto a sorbirmi. Provai a tornare nell’altro universo, ma ormai il fuoco dell’entusiasmo era volato via e io non avevo un mezzo per farvi ritorno.

Soffiai rumorosamente.

«Ma quindi, fammi capire: Ash avrebbe architettato tutto questo?»

Per un attimo pensai che si riferisse alla scazzottata, poi mi ricordai che ero tornato sul banale pianeta Terra e che si riferiva a quella sottospecie di appuntamento.

Solo in quel momento sembrò ricordarsi della sigaretta: se la portò alla bocca e fece un tiro. Il mio sguardo fu calamitato ancora una volta sulle sue labbra, che mi sforzai di non guardare. Provai a reprimere quella sensazione di calore proveniente dal basso, così mi concentrai su altri dettagli: aveva poca barba, ben rasata, che si intravedeva appena; anche se probabilmente non l’aveva folta e scura come la mia.

«A quanto pare, anche se non ho ben chiara la dinamica dei fatti. A me aveva detto che saremmo venuti io e lui, al concerto.»

Finalmente una conversazione che mi sarebbe dispiaciuto interrompere a metà. Curiosità. Di nuovo. Un guizzo di vita mi attraversò fulmineo, all’altezza del cuore.

La luce del lampione sopra le nostre teste illuminava appena il suo volto, quel poco che mi bastò per ricordare che aveva gli occhi verdi, con un taglio quasi orientale, ma non abbastanza per confonderlo con un asiatico.

«A me sono arrivati dei messaggi da parte tua, o almeno così credevo. Chissà con chi ho messaggiato! Probabilmente con Ash.»

Il piano del mio collega mi apparve cristallino; decisamente malvagio e ben ponderato. Avevo già in mente un paio di cosette noiose da fargli fare, oltre a controllare le telecamere, interrogare la signorina Miller e aiutarmi a cercare indizi sul locale.

Un'altra ventata di fumo sotto il mio naso. Respirai normalmente, per poi pentirmene dopo poco. Era davvero nauseabondo, così acre e pungente. Ma come faceva a sopportarlo?

«Vuoi controllare il numero?»

Lui fece spallucce.

«Non importa. Mi basta sapere che non eri tu. Ma perché avrebbe messo su questo teatrino?»

«Perché sono mesi che cerca di accoppiarmi con qualcuno, nonostante le mie proteste.»

Lui scoppiò a ridere, mentre le sue labbra stavano ancora aspirando; cominciò a tossire un po’ e mi allarmai.

«Tutto bene?»

Ridacchiava ancora, mentre mi faceva di sì con la testa. Notai che, quando il sorriso gli si allargava troppo, aveva degli zigomi piuttosto pronunciati.

«Scusa. Non mi aspettavo di ridere così tanto in tua presenza.»

Intuii che quel filo di imbarazzo che lo aveva attraversato qualche minuto prima era ormai svanito completamente.

«Ma tu ridi sempre?»

«Sei tu che non ridi mai.»

Sbuffai. Nella mia mente sfrecciò l’immagine di Oliver, intento a discutere la tesi di laurea in giacca e cravatta, così professionale e affabile. Così adulto.

«Che simpatico.»

Lui fece qualche passo nella mia direzione e poggiò la spalla sinistra al cancello, girato verso di me.

«Un complimento! Devo gridare al miracolo?»

Strinsi le labbra. Mi aveva preso in contropiede ancora una volta con quella sua impertinenza, tanto che scossi il capo, accigliato.

Ancora una volta riepilogai tutte le sciocchezze che avevo fatto quella sera, prima fra tutte quella di non averlo mollato appena mi si era presentata l’occasione. Ecco perché ero lì, a lasciare che l’aria calda e il fumo mi si appiccicassero alla pelle e a costringere me stesso a iniziare uno straccio di conversazione con un ragazzino insolente, quando potevo cominciare subito le ricerche sul logo del locale. Me lo meritavo per la mia troppa stupidità bontà.

Senza rendermene conto, mi accorsi che avevo conficcato un incisivo nel labbro. Gemetti appena per il dolore.

«Perché Ash vuole trovarti un ragazzo?» Mi ritrovai a voltarmi verso di lui, che finse di avere un’idea. «Ah, fammi indovinare: pensa che un po’ di sesso ti farebbe bene.»

Sgranai gli occhi.

«Prego?»

Non ero davvero sicuro di aver capito bene. Che sfrontato! E quello fu solo l’aggettivo più fine che mi venne in mente.

Lessi nei suoi occhi di nuovo quella malizia, quel credersi superiore a chiunque avesse la sfortuna di gravitargli intorno. Scoppiò a ridere.

«Ma dai, ti scandalizza la parola ‘sesso’? Sesso-sesso-sesso-»

«Vuoi stare un po’ zitto?»

Il gruppo della ragazza borchiata si girò per un momento. Avevo gridato. Ripresero la loro chiacchierata, dopo quell’attimo di stordimento, ma non prima di aver farfugliato chissà cosa tra loro. Io mi accorsi solo dopo poco del mio respiro ingrossato, del corpo scosso da un lieve tremito. Nathan era lì fermo, davanti a me, immobile. Una leggera folata di vento gli mosse i capelli e spostò la scia di fumo lontana da noi, per una volta non verso di me. Continuava a far scorrere i suoi occhi sui miei, le sopracciglia alzate, le labbra appena schiuse.

Avevo come l’impressione che la folla lì intorno ci stesse osservando. Sentivo gli occhi puntati su di me, sentivo i borbottii sussurrati della gente, sentivo i sensi di colpa partire dal basso e risalire come liane avvolgenti, pronte a stritolarmi.

Scossi il capo e mi allontanai, con l’intento di mettermi in fila.

Almeno lì mi sarei confuso tra la gente.

 

Mi accorsi ben presto che preferivo di gran lunga il parlottio come sottofondo, piuttosto che la voce di Nathan.

Scossi di nuovo il capo. Perché Ashton mi aveva cacciato in questa situazione? Forse era rimasto colpito da qualche battuta sciocca di quel ragazzino e aveva pensato che potesse essere una buona compagnia per me. Altro che carico di lavoro: lo avrei ammazzato con le mie stesse mani.

All’improvviso, sentii un’alitata di fumo sul collo. Avevo imparato a riconoscere l’odore della sua sigaretta e quasi mi inquietò quell’associazione improvvisa tra lui e il fumo.

Non mi voltai, ma si fece avanti lui; lo riconobbi dalla stampa sulla t-shirt, che sbirciai con la coda dell’occhio. Imbronciato, per una volta. Niente risate sciocche, né sguardi ammiccanti.

«Sono qui solo perché i biglietti ce li hai tu.»

«E io non me ne vado solo perché Ashton ci ha speso dei soldi.»

Seguì un momento di silenzio. Alzai un po’ gli occhi per vedere a che punto era la fila, ma il bagliore di un faretto mi colpì dritto in faccia, costringendomi a tornare al mio posto.

«Non c’era bisogno di urlare in quel modo. Sei proprio stronzo.»

Lo intravidi mentre tentava di incrociare le braccia. Avrei tanto voluto dare una lezione d’umiltà, a quel ragazzino borioso!

«Sei un gran maleducato, sai?»

«E tu sei uno scassaballe.»

Continuavo a guardare dritto davanti a me, mentre con la coda dell’occhio mi accorsi che eravamo quasi alti uguali. Poi mi domandai perché continuavo a osservarlo così.

«Ribadisco: maleducato. Non ho mai conosciuto nessuno che parlasse così.»

«Ci credo, sei vecchio

Sentivo il cuore battermi forte e, nella mia testa, cominciarono a formarsi insulti e offese di ogni genere. Altro che rissa: a quel ritmo si sarebbe presto consumato un omicidio.

Cominciai a far ballare una gamba, cercando di scaricare la tensione. Mi tremavano anche le labbra.

«Comunque non mi scandalizza la parola ‘sesso’. E sicuramente ne ho anche fatto più di te.»

Mi accorsi che era assai improbabile. Ma chi se ne importava? Non c’era nessuno che poteva testimoniare il contrario.

«Guarda che con i vecchi non conta.»

C’era, dentro di me, un fuoco che mi stava facendo bruciare sempre più. Andare o restare? Dovevo essere indifferente? Educato? Calmo? Zittirlo una volta per tutte?

Sesso. Quant’era che non ci pensavo? Il tocco esperto di Oliver, il suo corpo caldo. Mi sentii strozzare da una fitta al cuore; c’era una mano che lo aveva afferrato e lo stava stritolando con tutta la forza che aveva in corpo.

«Scommetto che le tue storie serie non sono durate nemmeno un anno. Con quella lingua che ti ritrovi.»

Lo vidi prendere aria per ribattere, inutilmente. Sentii divampare il calore della vittoria, della soddisfazione, che si fece largo dentro di me e mi avvolse con trionfo. Finalmente lo stavo colpendo nei suoi punti deboli.

«Almeno io la so usare.»

Quasi per confermare le sue parole, si passò la lingua sulle labbra.

«Per leccare gelati?»

Esitò ancora prima di rispondere. Era questione di un secondo. Un altro secondo e avrei vinto. Un altro, misero secondo…

«Ragazzi, per favore!». Ci voltammo entrambi. Una giovane madre che teneva il figlio per mano. «Ho un bambino!»

Il piccolo spostava il suo sguardo da me a Nathan, da Nathan a me. Con ogni probabilità non aveva colto nemmeno una parola di ciò che avevamo detto. Forse lo aveva attratto la parola ‘gelati’. Mi scusai con un cenno del capo. Nathan quasi la ignorò.

Soffiai. Ma quel concerto mi interessava davvero? Che ci facevo lì in fila? Perché dovevo torturarmi in modo del tutto volontario costringendomi a stare in compagnia di Nathan?

Al diavolo!

«Sai una cosa?» dissi, poi razzolai la mano nella tasca posteriore, in cerca dei biglietti. «Tienili pure tu. Io me ne vado.»

Lui non aspettò nemmeno che glieli porgessi.

«No, me ne vado io. Ciao.»

Mi voltai verso di lui e dovetti seguirlo con lo sguardo per capire che se n’era andato davvero. Rimasi interdetto per qualche istante, un piede che premeva per seguirlo e l’altro ben saldo a terra.

Ero stato infantile? Stupido? C’era davvero bisogno di farlo?

Scattai verso di lui, ma in pochissimo tempo si era già fatto largo tra la folla, mentre a piccoli passi cercava di uscire dalla fila.

Andargli dietro o no? Avevo combinato un disastro?

Nemmeno il tempo di pensarlo che in una frazione di secondo mi ritrovai a imitarlo, cercando di non perderlo di vista.

«Nathan! Nathan!»

Lui si voltò appena, per poi tornare a guardare davanti a sé, non appena aveva capito che ero io. Dopo qualche secondo uscii dalla fila, mentre cercavo le parole giuste per dire…

Dire cosa? Mi dispiaceva? Volevo scusarmi? O solo pulirmi la coscienza?

Lui camminava a passo svelto, ma non correva; in una decina di falcate fui da lui.

«Nathan! Aspetta.»

Lo afferrai per un braccio, ma non fu necessario per farlo voltare; lo fece lui, con un sospiro scocciato. Feci per dire qualcosa, ma mi precedette.

«Vuoi fare a gara a chi ce l’ha più grosso?»

Perché doveva sempre essere così diretto?

«Veramente, io…»

Intravidi un sorriso amareggiato. Continuava a scuotere il capo.

«Senti, è stato tutto un errore. A me non piace litigare, ma mi sembra evidente che non riusciamo a stare insieme senza insultarci» sputò, tutto d’un fiato. «Lascia fare. Torno a casa. È stata un’idea cretina.»

Nathan ripartì per la sua strada, mentre io gli camminavo dietro.

«Aspetta, dai. Mi dispiace.»

Si fermò di nuovo e fece spallucce.

«Non importa che cerchi di rimediare a tutti i costi. Non ci dobbiamo mica sposare.»

Ora che la rabbia era svanita del tutto, mi resi conto che ero stato decisamente scortese. Lui non era stato da meno, ma anche io avevo fatto la mia parte. Mi ero abbassato a un livello stupido e mi ero comportato come tale. Bel modo di fare il venticinquenne maturo, sì.

«Posso almeno riportarti a casa?»

Piegò la testa verso sinistra, intento a pensare, poi fece di nuovo spallucce.

«Se proprio ci tieni.»

 

Per tutto il tragitto che ci portò alla macchina, non disse una parola. Camminava a un passo dietro di me, in modo che non potessi vederlo. Aveva una camminata così felpata che spesso mi voltavo indietro per vedere se era ancora lì.

Quando arrivammo all’auto, non dissi nulla nemmeno io. Era stata una serata talmente disastrosa che forse era meglio non dire niente. Mi domandai quanto in parte fosse colpa mia e quanta colpa sua. Mentre aprivo lo sportello, mi chiesi se fossi davvero uno ‘scassaballe’, come mi aveva definito. Mi accomodai al posto del guidatore e mi dissi che, in fondo, anche il tentativo di Ashton di cercarmi un ragazzo poteva avere lo stesso significato, solo che aveva usato decisamente più tatto. Mi sfilai il cellulare dalla tasca e lo adagiai nel vano portaoggetti; mentre giravo la chiave, notai che lui fece altrettanto, con una delicatezza diversa.

Misi in moto la macchina e gli chiesi l’indirizzo di casa; e quella fu l’unica cosa che disse per tutto il viaggio.

 

Quando arrivammo, rimasi abbastanza sorpreso: Harlem era notoriamente il quartiere meno prestigioso tra tutti quelli di New York, ma non mi aspettavo che abitasse in una palazzina che cadeva a pezzi. Tra le tante cose, dalla spazzatura proveniva un insopportabile tanfo di fritto, che mi rendeva quasi piacevole quello del fumo. Per abitare in un appartamento come quello, doveva essere proprio in ristrettezze economiche. La sua famiglia non riusciva a finanziargli il college?

«Siamo arrivati.»

Lui alzò rapidamente le sopracciglia, per sottolineare l’ovvietà della mia affermazione. Quello non era decisamente un silenzio che potevo spezzare senza suscitare imbarazzo.

«Grazie del passaggio.»

Non mi guardò nemmeno: afferrò il telefono, aprì la portiera e tirò fuori le chiavi di casa, per poi essere inghiottito da quella palazzina decadente.

 

 

   
 
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