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Autore: Miravel0024    11/10/2021    0 recensioni
[The Hollow]
#10 Ottobre / PumpWord / Latibulum
Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
Prompt: Latibulum
N° parole: 2820
La nascita e l'evoluzione del "rifugio sicuro" di Kai attraverso gli anni e i traumi.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Writober 2021'
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(5 anni)
Stavano gridando ancora. Andavano avanti da ore.
Non sapevo che fare, non riuscivo a muovermi, il mio corpo tremava e si rifiutava di muoversi.
Dopo il primo schianto mi ero chiuso nell’armadio, rannicchiato al buio nell’angolo più lontano, non mi ero mosso da allora, tutto faceva male, ma non riuscivo comunque a muovermi.
Non avevo idea di quanto tempo fosse passato, lentamente le urla si calmarono e dopo un ultimo schianto la casa piombò nel silenzio.
Sentii i muscoli tesi rilassarsi lasciandomi con un profondo senso di stanchezza, volevo solo rannicchiarsi su me stesso e dormire, ma sentivo che dovevo andare a controllare al piano di sotto, non riuscivo a pensare ad altro. Non sapere cosa fosse successo mi innervosiva.
Mi alzai a fatica, il corpo dolorante e tremante, uscii dalla mia stanza e scesi molto lentamente le scale. La casa era completamente buia e silenziosa, non vedevo nulla. Quando arrivai al pianterreno avanzai a tentoni poggiandomi ai muri e strisciando i piedi, sperando così di evitare di infilzarmi i piedi in qualsiasi cosa tagliente potesse esserci a terra.
Arrivato sulla soglia del salotto sentii ansimare e piangere, entrai. La stanza era vagamente illuminata dalla luce della luna. In mezzo alla stanza c’era mamma accasciata sul pavimento che piangeva, intorno a lei frammenti luccicanti di quelli che dovevano essere piatti e bicchieri, erano la loro cosa preferita da tirarsi dietro.
Esitante mi avvicinai a lei, attento ad evitare i cocci taglienti.
«Mamma? Stai bene?» Lentamente poggiai una mano sulla sua spalla, ma venne velocemente schiaffeggiata via. Indietreggia spaventato, la mano mi bruciava.
La vidi alzarsi e voltarsi lentamente, mi sovrastava in tutta la sua altezza, era tutta storta, come quando beveva toppo, i capelli disfatti le davano un’aria folle, ma la cosa peggiore era la sua espressione. Ora che era in piedi dando le spalle alla finestra, era illuminata solo a metà, il che la rendeva ancora più spaventosa. Aveva gli occhi spalancati e la bocca contorta in uno strano ghigno. Fece un passo avanti e mi colpii con forza in viso, era stato così veloce che non lo vidi arrivare, non che avrebbe cambiato qualcosa.
Caddi pesantemente a terra, finendo inevitabilmente sopra i cocci taglienti, li senti graffiarmi la pelle, reciderla e trafiggerla.
«Non chiamarmi in quel modo. Quante volte devo dirtelo! Mi disgusta sentire quella parola uscire dalla tua disgustosa bocca.» Mi ritrassi strisciando, terrorizzato. Si arrabbiava spesso con me, ma mai in quel modo.
«Non ho mai voluto figli, non so perché ho lasciato che quel bastardo mi mettesse incinta, ma è stata la cosa peggiore che abbia mai fatto. Mi hai rovinato la vita! Andavamo d’accordo prima che arrivassi tu, prima che devastassi il mio corpo, prima che ti mettessi tra noi con i tuoi bisogni egoisti, prima che diventassi una tale inutile delusione. Non saresti mai dovuto nascere!» Grosse lacrime mi offuscarono la vista. Non si era mai comportata così, non riuscivo a capire.
Mi alzai di scatto e iniziai a correre, completamente indifferente alle schegge che mi infilzavano i piedi e alle sue urla furiose. Mi chiusi in camera e di nuovo nell’armadio, pregando che non mi seguisse.
 
Il giorno dopo mi svegliai dolorante e confuso. Mi ero addormentato nell’armadio, avevo freddo e mi sentivo strano e appiccicoso. Strisciai fino all’interruttore, non riuscendo a stare in piedi. Per poco non urlai, tante piccole strisce rosse, più o meni grand, mi ricoprivano le braccia e dietro di me avevo lasciato una leggera scia di sangue. Mi guardai i piedi, erano ricoperti di sangue incrostato e da alcuni tagli sporgevano delle schegge. Iniziai a piangere terrorizzato, il primo istinto fu quello di chiamare mamma, in cerca di conforto e cure, ma mi fermai in tempo, quello che era successo il giorno prima mi venne in mente e capii che era una pessima idea. Mi resi conto in quel momento che nessuno sarebbe venuto a prendersi cura di me, nessuno mi avrebbe preso in braccio, nessuno mi avrebbe consolato, nessuno avrebbe curato le mie ferite, perciò avrei dovuto cavarmela da solo.
Mi costrinsi a smettere di piangere e striscia nel mio bagno dove sapevo esserci un kit di pronto soccorso. Cercai di ricordare quello che avevo imparato guardando C’era una volta la vita (Esplorando il copro umano) e da quelle volte che ero finito all’ospedale e mi misi al lavoro. Ripulii il sangue, estrassi le schegge con delle pinzette, disinfettai con un sacco di alcool e misi quella che credevo fosse crema anestetizzante, infine mi avvolsi i piedi in delle garze.
Mi infilai a letto con l’intento di scaldarmi un po’ ed aspettare che i piedi smettessero di pulsare prima di riprovare ad andare al piano di sotto, ma mi addormentai di nuovo.
Quando mamma Cathe venne a svegliarmi ore dopo, si comportò come se nulla fosse successo, come se non mi avesse picchiato e urlato a dosso solo poche ore prima. Feci finta di niente anch’io, non menzionai la sera prima, non menzionai le ferite o il sangue, niente.
Almeno fino a quando due giorni dopo non finii di nuovo in ospedale con la febbre altissima e un’infezione in atto.
 
 
 
(8 anni)
Erano partiti, per chissà dove e per chissà quanto.
«Questo è Davis, si occuperà di te mentre saremo via.QQ» Era tutto ciò che avevano detto prima di andarsene senza spiegazioni, un saluto o un abbraccio. La cosa non mi stupiva più, ma faceva ancora male. Ero nervoso e spaventato, mi avevano lasciato con un estraneo in una grande casa vuota. Finii con il chiudermi in camera evitando l’uomo sconosciuto.
Mi rigirai nuovamente tra le coperte non riuscendo a dormire. Odiavo le urla dei miei genitori, ma ora che non c’erano la casa era troppo silenziosa, riuscivo a sentire ogni minimo rumore, ogni scricchiolio, era spaventoso e fastidioso. Guardai l’armadio con desiderio, mamma Cathe si arrabbiava sempre quando mi trovava a dormire li dentro, però in quel momento non c’era…
Scesi dal letto e mi trascinai dietro piumone e cuscino. Il mio angolo nell’armadio si era fatto più carino, ci avevo messo delle lucine a batteria perciò ora non era più completamente buio. Le accesi e gettai il piumone a terra insieme al cuscino e mi ci arrotolai dentro creando un caldo bozzolo che in qualche modo riuscii anche ad attutire i rumori esterni. Mi addormentai subito.
 
«Signorino Kai? E ora di svegliarsi.» Aprii gli occhi a fatica e mi ritrovai davanti il volto del signore sconosciuto, Davis mi ricordò una vocina, e mi feci prendere dal panico. Non avevo considerato che forse anche a lui non sarebbe piaciuto che dormissi nell’armadio. Mi sedetti di scatto pronto a scusarmi, ma l’uomo mi anticipò con un sorriso gentile.
«Posso chiederle perché stava dormendo nell’armadio?» Esitai a rispondere, temendo la sua reazione, ma decisi di essere sincero, infondo prima o poi avrei dovuto scoprire cosa mi avrebbe messo nei guai, tanto valeva iniziare subito.
«Non riuscivo a dormire.»
«E perciò è venuto a farlo nell’armadio?» Annuii.
«Si, mi sento a mio agio qui.» Mi aspettai qualsiasi reazione, tranne che l’uomo annuisse comprensivo.
«In questo caso, forse dovremmo trovarle qualcosa di più comodo su cui sdraiarsi quando riposa qui, magari un piccolo materasso.» Davis prese a borbottare tra sé su quali negozi visitare e su che misura si sarebbe adattata meglio al mio angolino.
«Possiamo andare subito dopo colazione se le fa piacere, ci sono alcuni ne… Signorino Kai! Perché sta piangendo? Ho forse detto qualcosa di male? Mi dispiace molto, la prego non pianga» Chi diavolo era quell’uomo? Perché sembrava così preoccupato e… gentile? Non resistetti e assecondai uno stupido istinto. Gettai da parte il piumone e abbraccia di getto Davis, piangendo istericamente contro il suo petto.
«Puoi rimanere per sempre? Per favore?»
 
Quel giorno non comprammo solo un materasso, ma anche delle coperte calde, dei soffici cuscini, altre lucine e una radio. Fu il giorno migliore della mia vita.
 
 
 
(12 anni)
Piansi silenziosamente sotto il getto bollente della doccia. Ero ricoperto di lividi e graffi, tutto faceva male e bruciava, ma non quanto l’acqua bollente sulla mia schiena. Quello però era un dolore diverso, controllato, quasi piacevole. Aprii l’acqua fredda prima che l’eccessivo calore mi causasse delle vesciche, era già successo e non desideravo ripetere l’esperienza.
Uscito dalla doccia mi trascinai nuovamente verso l’armadio, ormai era diventato il mio rifugio, nemmeno il resto della mia camera si sentiva sicuro, per lo meno non quando loro erano a casa.
Spalmai della crema lenitiva sui lividi e sul rossore sulla mia schiena.
Erano tornati quella mattina, a pranzo papà Brian era già ubriaco e mamma Cathe lo stava seguendo, non ero nemmeno sicuro di cosa avessi fatto per farlo scattare, sapevo solo che un momento prima ero a tavola mangiare e quello dopo ero a terra cercando di proteggermi dai calci che mi stavano colpendo violentemente. Davis non c’era, lo mandavano sempre via quando tornavano, e anche se ci fosse stato non avrebbe potuto fare niente, l’avrebbero licenziato se si fosse intromesso e non poteva succedere, non potevo perderlo.
 
Finito con le creme indossai una calda tuta che mi aveva comprato Davis, mi avvolsi nel piumone ed accesi la radio su una stazione qualsiasi.
Prima che me potessi rendermene conto stavo piangendo.
Non ne potevo più, odiavo la mia vita. Ero solo, non avevo amici, i miei genitori mi odiavano e l’unica persona che in teoria teneva a me era lì perché veniva pagata per esserlo.
Ero stanco, così stanco di essere solo. Volevo solo dei genitori amorevoli o per lo meno dei buoni amici con qui uscire. Ero davvero così inamabile?
Avvolte immaginavo di scomparire, di smettere semplicemente di esistere.
 
 
 
(14 anni)
Misi un piede in fallo correndo giù dalle scale a casa di Adam e rotolai fino al pianerottolo.
«Kai! Cazzo, stai bene?» Il primo ad allarmarsi fu Reeve che era proprio dietro di me, subito seguito da Adam e Mira seduti in salotto a scegliere un film. Vanessa e Skeet non c’erano, avevano entrambi altri piani quel pomeriggio.
«Come ti senti? Ti fa male da qualche parte?» Mira.
«Ugh… no, non credo. Sto bene, sono solo scivolato.» Mi girava un po’ la testa, ma non mi sembrava di avere nulla di rotto, solo un po’contuso.
«Solo scivolato un corno. Sei letteralmente rotolato giù. Sei sicuro di non aver sbattuto la testa?» A quelle parole Mira inziò a tastarmi la testa in cerca di punti dolenti non trovandone, avevo imparato a proteggermi la testa durante una caduta molto tempo prima.
«Sul serio, ragazzi sto bene. Non mi sono fatto niente, sono più resistente di quello che sembro.»
«Certo come no, lascia almeno che ti aiutiamo ad alzarti.» Disse Reeve già afferrandomi per un braccio, Adam fece o stesso dal lato opposto e insieme mi sollevarono. Andò tutto bene finché non tentai di appoggiare il peso sul piede sinistro ed una fitta di dolore mi attraversò la gamba. Istintivamente il piede, sibilando di dolore e quasi cadendo a dosso a Reeve, che prese subito il mio peso.
«Fortuna che non ti eri fatto niente eh.»
«Non mi faceva male prima di appoggiarlo!» Reeve rise esasperato e mi mise un braccio intorno alla vita e si mise il mio intorno alle spalle. Ero sicuro di essere appena arrossito, dannazione.
«Forza ti aiuto a sederti idiota.» Mi depositò delicatamente sul divano prima di chinarsi e controllarmi la caviglia, Adam accanto a lui.
«Ehm… ragazzi che state facendo?»
«Cerco di capire se ti sei rotto la caviglia genio.» Reeve prese a tastarla causando qualche altra leggera fitta.
«Se lo è dobbiamo portarti all’ospedale, invece se è solo una slogatura possiamo provare con del ghiaccio.»
«Eh? Ma non ce né bisogno sto bene, era solo una fitta. Sono sicuro che è solo una botta. Starà bene, guardiamo il film ora.» Mi sentivo a disagio e ansioso, non ero abituato a tutte quelle attenzioni dopo un infortunio, non c’è n’era bisogno, potevo cavarmela da solo. Non volevo che perdessero tempo con una cosa così stupida.
«Non dire sciocchezze è una cosa importante. Ora, ti fa male solo la parte esterna o tuta la caviglia.» Mi sentivo così stordito.
«Ehm… io, non so. Credo solo la parte esterna?» Che diavolo stava succedendo?
«Credo sia solo slogata, ma probabilmente sarà meglio fargli dare un’occhiata veloce da tua madre quando torna.» Reeve si rivolse ad Adam.
«Sì lo penso anch’io. Per il momento ti conviene mettere del ghiaccio e tenere il piede sollevato, ti prendo una sedia.»
«Io prendo il ghiaccio.» Adam mi scompigliò i capelli prima di sparire in cucina con Mira. Reeve invece si sedette accanto a me e mi mise un braccio intorno alle spalle, era diventato più tattile da quando eravamo diventati amici.
«Tranquillo, la mamma di Adam è la migliore con queste cose. Dovrebbe tornare per la fine del film e allora saprà dirci come sta la tua caviglia.» Adam e Mira tornarono in quel momento. Adam poggiò davanti a me un basso sgabello ricoperto da un cuscino dall’aspetto soffice e mi aiuto a poggiarci il piede e Mira ci mise sopra il ghiaccio.
Mi sentivo strano, stordito. Sentivo come un buco allo stomaco seguito da un intenso calore al centro del petto. Vidi la mia vista offuscarsi e capii che stavo per piangere, volevo scappare, non volevo che mi vedessero in questo modo, specialmente quando non sapevo neanche perché stessi per piangere, ma non è che potessi andare molto lontano con quella caviglia.
Perciò alla fine rimasi immobile, guardandomi fisso in grembo, mentre iniziavo a lacrimare e singhiozzare. Mi ero appena fatto degli amici e stavo già per perderli a causa di una crisi emotiva immotivata, fantastico.
«Wow ehi, che succede? Ti fa male qualcos’altro?» Reeve mi strinse a sé e cerco di guardarmi in viso, ma questo mi fece solo piangere di più.
«Kai tesoro parlaci, che succede?» Mira era sempre così carina e tranquilla.
Scossi la testa. Non avevo idea di cosa dire.
«Io… mi dispiace, mi dispiace. Non so che cosa mi è preso. Mi dispiace.» Non riuscivo a capire, mi sentivo orribilmente e meravigliosamente allo stesso tempo.
Mira rimase inginocchiata di fronte a me, una mano sul mio ginocchio e l’altra che mi accarezzava i capelli. Adam si sedette invece accanto a me, sul lato libero e mi passò la mano sulla schiena in modo confortante.
Fu in quel momento che la realizzazione mi colpii, era la prima volta che qualcuno si prendeva cura di me in quel modo. Avevo sempre fatto tutto da solo, ai miei non era mai importato abbastanza e Davis non c’era mai quando avevo realmente bisogno di cure. La cosa che realmente mi colpii però fu realizzare che degli “estranei” si curavano di me molto di più di quanto avevano mai fatto i miei stessi genitori e quella realizzazione fece molto più male di tuti i colpi e le parole crudeli che avevo ricevuto in quegli anni.
 
«Grazie ragazzi.» Riuscii a borbottarlo tra un singhiozzo e l’altro.
«Per cosa Kai?» Mi strofinai gli occhi tentando di migliorare la situazione, ma fu inutile. Non avevano intenzione di fermarsi.
«Per esservi presi cura di me. Sono un tale disastro, mi dispiace.» Avrei voluto dire così tanto, fargli capire quanto significasse per me il loro affetto, quanto li amassi, ma ero troppo occupato a piangere e forse era meglio così, sarebbe sicuramente uscito qualcosa di imbarazzante.
«Non dirlo nemmeno, non sei un disastro a tutti capita di inciampare di tanto in tanto.»
«Reeve ha ragione tesoro. E non hai bisogno di ringraziarci, siamo tuoi amici e ti amiamo, saremo sempre qui per te.»
 
Finimmo tutti addormentati e ammucchiati sul divano e fu così che ci trovò la madre di Adam quando tornò. La cara signora mi confermò che la mia caviglia non era slogata, ma bensì effettivamente rotta, la mia solita fortuna, prima di trascinarmi all’ospedale con tutta la combriccola assonnata appresso.
L’unico lato positivo dell’essermi rotto la caviglia fu che Reeve si offrì di venirmi a prendere in macchina tutte le mattine per accompagnarmi a scuola. Fui tentato di fargli notare che poteva portarmi Davis, come tra l’altro faceva sempre, ma non mi sarei mai giocato la possibilità di passare del tempo extra da soli.
 
Quella sera mi addormentai tranquillamente nel mio enorme letto, invece che rannicchiato nell’armadio.
Era buffo, per anni avevo considerato quel posto il mio rifugio sicuro, l’unico luogo in qui mi sentissi in grado di riposare serenamente e poi quel pomeriggio avevo avuto il miglior sonno della mia vita in una casa sconosciuta, su uno scomodo divano e ammucchiato con altre tre persone. Mi resi conto quella sera che avevo trovato un nuovo rifugio, solo che quella volta non era un luogo fisico che mi avrebbe protetto da urla e piatti rotti, ma un gruppo di persone che mi avrebbe amato incondizionatamente e che mi avrebbe protetto da me stesso oltre che dagli altri.
Avevo trovato lei mie persone e non me le sarei fatte sfuggire.
   
 
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