L’amico (in)esistente
amico s. m.
(f. -a) e agg. [lat. amicus, affine ad amare]
(pl. m. -ci). – 1. s. m. Chi è legato ad altri da
vincoli di amicizia: avere, trovare, perdere, farsi
un a.; a. intimo, a. d’infanzia; l’a. del
cuore, quello cui si è più intimamente legati (spesso scherz.); un
vecchio a. di casa; a. di cappello, di
saluto, non intimo; a. di tavola, di gioco; consiglio
da a.; trattare da a., confidenzialmente, alla buona, o, in
rapporti d’affari, concedendo particolari agevolazioni; fare l’a.,
mostrarsi amico, senza essere tale in realtà: costui fa l’a. del
convento, si spaccia per partigiano de’ cappuccini (Manzoni).
[…]
Ci sono legami che si formano in maniera del tutto fortuita,
altri che nascono per la convergenza di circostanze all’apparenza dettate più
dalla volontà di un dio capriccioso che dalla causalità degli eventi, altri
ancora che vengono fuori solo dopo il trapasso perché non sarebbe potuto
accadere altrimenti. E nel terzo insieme era inclusa la strana amicizia che era
venuta a crearsi tra l’anima di uno studente di Tokyo e quella di un capobanda
di Napoli morti, a quanto constatato, più o meno alla stessa maniera seppur in
circostanze differenti. Avevano anche scoperto di avere in comune, oltre al
fatto di essere stati portatori stand, l’attitudine a preoccuparsi per
l’incolumità altrui anche a costo di rimetterci la pelle – «Quindi soffriamo
della sindrome della crocerossina? È così che dite in Italia?»; «Sì, più o meno
è così» – e uno o più disagi infantili che si erano trascinati nella tomba e
oltre – «Sarà, ma io devo ancora conoscerlo un portatore stand che non abbia
subito un trauma o non si sia sentito escluso»; «I miei genitori ne sapevano
qualcosa» –, ma tutto sommato condividevano anche la propensione alla
tranquillità, quando non erano provocati dal Caesar di turno, s’intende.
Dopo che Bucciarati e Abbacchio si erano fatti conoscere formalmente da una
tavolata composta da persone che avevano aiutato i Jojo delle epoche passate –
«Non sapevo esistesse più di un Jojo»; «Certamente, ma è fuor di dubbio che il
migliore resti quello di casa Kujo» – e che aveva scommesso sulla buona
riuscita della dichiarazione di Abbacchio – «È tutto merito mio! Dovete
ringraziare me e me soltanto!» aveva esclamato il Marcantonio trionfante – si
era creata questa simpatia reciproca sfociata in affetto disinteressato.
Qualche tempo dopo l’arrivo in paradiso del tanto citato Jojo che faceva Kujo
di cognome con al seguito la figlia più uno stand e tre avanzi di galera, avevano
perduto una scommessa ed erano stati costretti a scambiarsi i vestiti per
pagare il pegno, suscitando quante più reazioni disparate tra il loro cerchio
di conoscenze: se avevano ottenuto l’approvazione plenaria delle ragazze lo
stesso non si poteva dire per l’altro genere; «Sembri un pistacchio» era stato
il giudizio meno esilarante, che era venuto, a sorpresa, da Narancia nei
confronti di Bucciarati, mentre gli altri erano scoppiati a ridere o erano
arrossiti come Abbacchio che, fosse cascato l’aldilà ma col cavolo che lo
avrebbe ammesso, per tutto il tempo che erano rimasti nei panni dell’altro non
aveva smesso di fissare il pizzo sopra i pettorali di Kakyoin guadagnandosi le
prese in giro di Ermes.
A ogni modo, il fato, quel luogo ameno o, perché no, il motore immobile tanto
discusso dai filosofi sui loro trattati, aveva fatto sì che quelle due anime si
incontrassero, si scoprissero e intrecciassero un legame strano, anche se
sicuramente meno strano di quello formatosi tra un prete e una mammana, che in
quel momento, alla biblioteca, stavano discettando accanto al tavolo sul quale
Bucciarati sfogliava un manuale sul simbolismo delle rose.
Glielo aveva dato proprio Kakyoin in persona perché, ok che il paradiso non ha
un libretto di istruzioni, ma né lui né Abbacchio sapevano alcunché sul
linguaggio dei fiori e quindi almeno l’ex capo della squadra guardie del corpo
voleva sapere perché gli fossero capitate le rose pesca.
Mentre la mammana raccontava al prete di quella volta che aveva tirato per i
piedi– «Un piede soltanto aveva, povera creatura» –
un neonato con un occhio solo, Bucciarati scopriva che le rose pesca indicavano
gli amori segreti e le tresche.
«Ha senso» quella considerazione, appena mormorata, gli fuoriuscì dalle labbra
come per automatismo. Magari avrebbe informato Abbacchio della scoperta, ma
sicuramente gli avrebbe risposto che non c’era di che stupirsi. D’altronde, le
anime che gli gravitavano attorno avevano già percepito il sentimento che li
legava sin da quando erano diventati spiriti, per cui il libro gli comunicava
l’ennesima conferma che erano stati entrambi degli stupidi, e sicuramente
glielo avrebbe detto anche la statua in oro della dea Amaterasu¹
all’ingresso della sala studio se solo avesse potuto parlare.
Chiuse il libro e si alzò dalla poltrona in punta di piedi: il prete e la
mammana stavano ancora dibattendo sulla sacralità delle vite dei neonati e andò
alla ricerca di colui che gli aveva suggerito quella lettura, non avendo idea
di dove ricollocare il libro in quell’edificio immenso, grande quanto un
aeroporto e talmente alto da avere l’impressione di essere all’interno di un
grattacielo senza piani, con gli scaffali immensamente lunghi percorsi da scale
altrettanto lunghe e spiriti che vi trascorrevano giornate intere, o forse
anni, o forse secoli – «Una volta ho cercato di tirare un sasso a uno che
sembrava un santo appeso alla scala, ma non sono riuscito a colpirlo. Da quando
vengo qui a studiare con Tenmei non l’ho mai visto scendere da là sopra, sembra
una specie di decorazione decrepita» aveva detto Narancia prima di essere
rimproverato per aver tentato di disturbare la quiete degli studiosi.
Nel tempo di un istante eternamente breve riuscì a trovarlo alcuni scaffali più
in avanti, seduto faccia a faccia con il giovane Ghirga e un ammonticchiarsi di
libri aperti a frapporsi tra loro. Dalla scioltezza con cui parlavano intuiva
che avevano appena terminato la loro sessione di studio e, fatto curioso, in
cima al piccolo disordine di pagine con esercizi ed errori cancellati di fretta
troneggiava un manuale di anatomia aperto sulla riproduzione della sezione del bulbo
oculare. Kakyoin teneva le dita di una mano arcuate ad artiglio a pochi
centimetri dal volto e stava raccontando qualcosa che, a giudicare
dall’espressione ansiosa di Narancia, doveva avere a che fare con gli occhi.
Bucciarati si sedette all’estremità del tavolo in attesa che i due terminassero
la loro chiacchierata – se tale poteva definirsi – post ripetizioni e quando
Narancia si fu alzato per raccogliere i libri e caricarli sulle braccia,
riservandogli una linguaccia di affettuosa monelleria nel momento in cui lo
incrociò, decise di avvicinarsi.
Kakyoin stava risistemando il tomo di anatomia al suo posto e senza salutare il
nuovo arrivato gli sfilò il libro di mano e sparì silenziosamente dietro lo
scaffale dedicato alla medicina. Al suo ritorno Bucciarati cercò di salutarlo
ma quello gli premette entrambi i palmi sulla bocca.
«Bruno! Ho dimenticato di darti una cosa! Spero che tu non te la prenda!»
sussurrò entusiasta a un Bucciarati più confuso che altro.
«Prima di tutto, ciao» disse quest’ultimo non appena venne liberato dall’impedimento
«secondo, non vedo perché dovrei prendermela per qualcosa di cui solo tu saprai
qualcosa, gioco di parole perdonando, e terzo» incrociò le braccia al petto «te
l’ho già detto che a volte non capisco cosa mi vuoi dire veramente?»
«Sì, questa è centocinquantaquattresima volta che me lo dici» senza badare al
cipiglio di Bucciarati, Kakyoin si era messo a frugarsi le tasche alla ricerca
di qualcosa con la lingua tra i denti.
«Eccola!» esclamò, estraendo da un taschino interno una piccola chiave di
bronzo con l’occhiello riccamente decorato a forma di freccia «Ne ho già data
una a Leone e un’altra a Narancia, mancavi solo tu. Devi perdonarmi, ma mi sono
messo a raccontare di quando avevo rischiato di perdere la vista laggiù e mi è
uscito di mente! Comunque sia devi sapere che queste chiavi le abbiamo progettate
io e Mohammed esclusivamente per…».
Stavolta fu il turno di Bucciarati di tappare la bocca a Kakyoin che, per
almeno alcuni secondi aveva continuato a parlare prima di accorgersi che farlo
con una mano sulle labbra non era proprio confortevole.
«Io davvero, a volte non ti capisco. Mi piaci come persona ma non ti capisco»
«Centocinquantacinque».
Bucciarati sospirò.
«Che devo farci con questa?» domandò rassegnato, liberando Kakyoin e sollevando
la chiave per vederla meglio.
«Aprirci una porta»
«Grazie mille don ciuffetto, fin qui ci ero arrivato»
«Allora vieni con me» Kakyoin sollevò le spalle e si allargò in un sorriso «hai
visto la forma che gli abbiamo dato?».
Bucciarati la osservò meglio: sì, l’estremità imitava in piccolo proprio quella
freccia.
«Vedo… avete creato una specie di club per gli ex possessori di stand?»
«Una specie» Kakyoin gli fece un cenno per invitarlo a seguirlo nella sezione
della biblioteca dedicata al soprannaturale «all’inizio non sapevamo dove
collocarlo, ma poi abbiamo deciso che tra metafisica ed esoterismo andava bene.
Guarda qua, possiamo vederla solo noi e i maestri delle onde concentriche».
In mezzo al corridoio confinato tra i due scaffali era stata piazzata una
botola, appena distinguibile dal resto del pavimento in legno dalla minuscola
toppa contornata dallo stesso bronzo col quale era stata fabbricata la chiave.
«A te l’onore» Kakyoin indicò il buco della serratura e si posizionò alle
spalle di Bucciarati per permettergli di inaugurare la chiave.
Di rimando, il più grande inarcò un sopracciglio carico di sospetto e poi
eseguì con un «Grazie» monocorde: appena fatto scattare il cilindro ed estratta
la chiave la botola si aprì da sola rivelando dei gradini illuminati da lucerne
a olio che sprigionavano una vaga fragranza agli agrumi.
«Apperò, anche il profumo per ambienti avete messo!»
«Questa è stata un’idea di Mohammed» ammise Kakyoin «Le chiavi invece sono farina
del mio sacco»
«Ho capito» Bucciarati allungò il collo per capire quanto fosse ripida la
scalinata «mi fido eh»
«Fidati, abbiamo le ciambelle» lo rassicurò Kakyoin, beccandosi per questo
un’occhiata carica di perplessità.
«Le ciambelle»
«Le ciambelle» ripeté Kakyoin.
«E cosa c’entrerebbero coi portatori stand?»
«Niente, solo col modo col quale sono morto, ma anche con quello col quale è
morto Leone e con quello col quale…»
«Ok, ok, è un’altra battuta sulla tua morte, che novità» tagliò corto
Bucciarati «mi concedi l’onore di scendere adesso?»
«Se la voglia di contenere sempre il mio incredibile umorismo non ti assalisse saresti
già arrivato» fu la replica di Kakyoin.
Bucciarati decise che era saggio non controbattere. Sospirando ancora iniziò a
scendere i gradini, seguito dal co-creatore di quel luogo misterioso che nel
frattempo aveva chiuso la botola sopra le loro teste.
«Fammi capire, come vi è venuta l’idea di creare un club esclusivo per i
portatori?» chiese Bucciarati sfiorando una delle lampade e trovandola
piacevolmente tiepida.
«Ci abbiamo pensato quasi per caso, se non ricordo male dopo che avevamo fatto
conoscenza con un monaco buddista portatore sin dalla nascita… ci aveva
raccontato che alle volte sentiva la mancanza del suo stand e così le nostre
menti hanno iniziato a rimuginarci sopra… la metafisica del luogo ha fatto il
resto. Ovviamente Caesar ha origliato le nostre conversazioni e ha insistito
perché anche i maestri delle onde concentriche fossero ammessi, così lo abbiamo
accontentato… Col senno di poi ci siamo detti che aveva senso perché stand e
onde rappresentano due facce della stessa medaglia»² spiegò Kakyoin «ovviamente
tieni conto del fatto che i nostri corpi non esistono più, quindi quello che si
riesce a evocare con la mente è e sarà solo una proiezione».
Bucciarati abbozzò un piccolo sorriso.
«Bello, bello e nostalgico. Come l’ha presa il monaco?»
«Molto bene, era contentissimo!» Kakyoin batté le mani per la soddisfazione
«Stava quasi per mettersi a piangere dalla gioia, non l’avevamo mai visto così lieto
prima di allora».
La scalinata, che come tutte le cose dell’Oltrevita non aveva una lunghezza
fisica definita, giunse al termine con un uscio di legno privo di maniglia e
apribile solo con la stessa chiave utilizzata per la botola. Senza attendere
istruzioni Bucciarati infilò per la seconda volta la chiave nella toppa e,
sempre con uno scatto del cilindro, la porticina si aprì per consentire
l’accesso all’unica stanzetta di una baita senza finestre e rischiarata al
centro da una lampada da terra che diffondeva un chiarore simile a quello delle
lucerne; al posto del camino e dell’arredamento tipico di una casetta di
montagna era stato allestito un elegante espositore ricolmo di ciambelle di
ogni tipo, che occupava tre delle quattro pareti.
«Serviti pure!» disse Kakyoin indicando delle ciambelle glassate di bianco e
cosparse di gocce al cioccolato «Queste le abbiamo fatte ispirandoci a te».
Bucciarati non poté non scoppiare a ridere guardando i dolcetti i bella vista
che effettivamente ricordavano il suo abbigliamento. Ne prese una e, senza
smettere di tenersi la pancia per la scoperta, riuscì così a esclamare:
«Sei proprio uno scemo! Però apprezzo tantissimo il pensiero»
«Grazie, le ho farcite coi fagioli»³
«Non dici sul serio»
«Ovvio che no»
«Ho ragione a dirti che sei scemo»
«Ma resto comunque lo scemo più intelligente che tu abbia mai incontrato»
Kakyoin prese due ciambelle, una ai mirtilli e una allo zabaione, e aprì la
seconda porta, quella che conduceva all’esterno.
«Benvenuto nel nostro paradiso segreto, spero sia di tuo gradimento» una lama
di luce solare tagliò la stanza e illuminò il volto dello studente «ti avviso
che al momento è incompleto, ma ci stiamo lavorando».
Con una mano occupata a tenere il dolce e con l’altra a schermirsi dal sole, a
Bucciarati si parò dinnanzi un’arena di forma ellittica di terra battuta rossa
circondata parzialmente da una cavea di marmo bianco. Dalla porzione non ancora
coperta dalle gradinate era possibile scorgere una distesa infinita fatta di
prato e crisantemi bianchi. Il cielo terso, del tutto simile a quello di una
bella giornata primaverile, scaldava con gentilezza gli spalti conferendo
all’ambiente un’atmosfera da fiaba.
«Quante cose riesce a fare la mente di uno spirito» fu la prima cosa che disse
Bucciarati alla vista del marmo in via di costruzione «chissà come deve essere
pensare una cosa e vederla realizzarsi sotto i tuoi occhi… Prima o poi dovete
insegnarmi questo trucchetto»
«Devi solo voler costruire qualcosa che abbia uno scopo, il resto viene da sé»
Kakyoin lo superò e chiuse la porta della baita «Andiamo a sederci? Abbiamo già
compagnia».
In fondo, presso la fila più bassa di sedili, sei spiriti ciarlavano a voce
alta mentre un settimo stava sdraiato un po’ in disparte e teneva il volto
nascosto dal cappellino e le braccia dietro la nuca, all’apparenza per niente
disturbato dal vociare insistente dei più giovani. Senza destare l’addormentato
Kakyoin gli si avvicinò a passo felpato e posò la ciambella allo zabaione
sull’addome del dormiente. Mentre stava allontanandosi per raggiungere
Bucciarati che si era già seduto il più rumoroso dei sei lo richiamò agitando
le braccia:
«Mangiariso! Vai a prendermi una ciambella!»
«Prenditela da solo!» rispose Kakyoin senza nemmeno voltarsi e ignorando la
controrisposta non verbale del dito medio.
«Vedo davvero quello che sto vedendo?» Con le gambe incrociate sul sedile e la
ciambella in grembo, Bucciarati assottigliò lo sguardo per assicurarsi di aver
identificato coloro che si trovavano in basso «Caesar che ci prova con Jolyne?
Sul serio?»
«Lo fa apposta, sa di non avere speranze, ma quando lei gli spezzerà le falangi
la smetterà all’istante» Kakyoin gli si sedette accanto e prese a
sbocconcellare il suo dolce «più che altro mi domando se a fracassarlo di botte
sarà prima Jolyne, Narciso o Leone, ma vedo bene anche tutti e tre assieme
visto che ha preso la bandana del tuo ragazzo»
«Ecco cos’è l’affare che ha in testa!» Bucciarati si picchiò una mano in fronte
e guardò la porta della baita non senza un velo di apprensione «Leone era
convinto che a rubargliela fosse stato Iggy e invece l’ha presa lui! Ma è imbecille
o cosa?»
«Si diverte così, almeno da quando ha preso confidenza con voi non mi tormenta
più come prima» gongolò Kakyoin «non dirgli che non l’ho insultato, potrebbe
prendermi di mira di nuovo» aggiunse subito dopo infilando un altro pezzo di
ciambella in bocca, mentre proprio in quel momento vedevano Caesar abbracciare
vigorosamente Jolyne facendo scattare in piedi Anasui.
«Visto? Lo fa apposta».
«Temerario… ma lasciamo perdere Caesar per un attimo» disse Bucciarati «mi fai
vedere quella cosa dello stand? E perché avete scelto di costruire proprio un
anfiteatro?»
«Ah, vero» Kakyoin mandò giù l’ultimo boccone, chiuse gli occhi e incrociò le
braccia: trascorsero alcuni secondi e dietro la sua schiena apparve la
luminescenza verdastra di un umanoide con le labbra sigillate e lo sguardo
vacuo che, staccandosi dallo spirito che lo aveva evocato, percorse alcuni
passi e si dissolse come pulviscolo appena qualche istante dopo.
«Dobbiamo ancora perfezionare questa capacità, ma prima non erano nemmeno in
grado di camminare» Kakyoin aprì gli occhi e tese la mano per raccogliere un
po’ di quella polvere verde che scomparve una volta a contatto con la pelle
«presto potranno correre, volare e sparire a comando… come uno stand ma senza
poteri».
Lo disse con una certa rassegnazione. Si perse a osservare il vuoto, o forse
qualcosa che fosse visibile solo a lui, e per un attimo venne crudele, come il
bagliore di un fulmine, la malinconica consapevolezza di non essere più un
corpo fisico, di non essere più una vita ma solo il concetto astratto di un
essere vivente posto all’interno di un concetto astratto più grande,
movimentato e immobile, e per questo infinito. Perché di sicuro sarebbero
rinati, ma i ricordi delle loro esistenze precedenti si sarebbero sciolti come
l’imitazione dello Ierofante.
«Ti manca?» chiede a un tratto Bucciarati.
Kakyoin si riscosse. Strinse il ponte nasale e piegò le labbra in un mezzo
sorriso, un sorriso con un che di amaro nelle pieghe tipico di chi ha
sperimentato lo struggimento per qualcosa di bello non più recuperabile.
«Era un pezzo di me» Kakyoin si stiracchiò sul sedile come per scrollarsi di
dosso quella nube di mestizia «Non so se rinascerò con uno stand o se sarò un
essere umano normale, ma quel che so è che Hierophant Green non tornerà più. È
diventato una statuetta di cristallo con una targa che gli altri spiriti
ammirano per un po’ prima di pensare agli affari loro. Certe volte mi domando
che vite conducano adesso i portatori reincarnati in altri corpi, ma posso solo
supporre. L’arena, beh… avevo visto su un libro la foto dell’anfiteatro di
Capua e mi era piaciuto… E poi molti portatori erano anche dei combattenti,
quindi l’idea di un posto in cui si potesse dare sfogo alla propria
competitività mi allettava. Mohammed era d’accordissimo a riguardo. Più che
altro… a mancarmi è il breve momento di utilità che ho sperimentato quando sono
scappato di casa, quando… prima di morire. Per la prima volta sentivo di far
parte di un gruppo».
Caesar aveva lasciato andare Jolyne e stava indietreggiando da Anasui che
sembrava non desiderare altro che usarlo come sacco da boxe, e lo avrebbe
certamente preso a pugni se Weather Report non lo avesse afferrato per la vita
e caricato sulla spalla per condurlo lontano dalla catastrofe.
«Non pensi di far parte di un gruppo anche adesso?» Bucciarati staccò un altro
pezzo di ciambella e se lo mise in bocca «Non dai l’impressione di essere uno
che si pente delle azioni che ha commesso»
«Non mi pento di niente infatti» mentre lo diceva, Kakyoin posò il mento su una
mano e contemplò la figura addormentata sugli spalti «mi dispiace solo di aver
lasciato da soli i miei genitori, se proprio devo essere onesto. Saperli
distrutti non è stata esattamente la notizia più bella che potessi venire a
sentire, ma dopo che c’è stato il casino del reset mi sono rivisto per un
attimo ed è stato strano… in alcuni universi ho messo su famiglia, in altri
sono una donna e in altri ancora continuo a morire allo stesso modo, ma in
nessuno di questi provo rimorso per le mie azioni»
«In una manciata di universi faccio l’infermiere, porca vacca che salto di qualità» disse Bucciarati
«quando ci penso mi sento strano, ma Narancia non fa che ripetermi che è il
mestiere che più mi si addice»
«Per me ha ragione… cioè, se ti sposti la frangetta lo hai scritto in fronte
che ti piace salvare la gente»
«Ma…» A Bucciarati si colorarono le gote «guardati allo specchio prima di
parlare!»
«Il sottoscritto ha salvato il mondo, so bene di averlo scritto in fronte a
differenza di qualcun altro» Kakyoin drizzò fiero la schiena e si batté il
petto «finché non ti renderai davvero conto di essere stato una brava persona
gli ellebori te li puoi scordare, tienilo in mente»
«Facile quando non sei tu a doverti autoassolvere» rintuzzò Bucciarati
puntandogli contro il penultimo pezzo di ciambella.
«Non ho detto che sia facile, e poi chi ti ha detto che non debba
autoassolvermi dai crucci che sento di avere?» gli domandò retoricamente quello
«Tutti qui, chi più o meno, hanno un peso col quale devono imparare a convivere,
e io non faccio eccezione»
«Onestamente non saprei di quale cruccio dovresti farti carico, la gente ti
adora»
«Soprattutto Leone quando indosso la tua lingerie per una scommessa perduta»
«Sei un imbecille»
«Grazie, anche io penso che tu sia dotato di grande acume»
«Ah, non sviare il discorso!» sbuffò Bucciarati alzando la voce di un tono «Sul
serio, cosa spinge uno come te ad avere dei sensi di colpa così grandi?».
Kakyoin parve rabbuiarsi di nuovo. Prese a giocherellare col ciuffo e al tempo
stesso guardava con insistenza l’addormentato al quale aveva donato la ciambella
allo zabaione.
«Ti è mai capitato di amare più di una persona contemporaneamente? Non intendo
solo in senso romantico, intendo in senso totalizzante. Come… non so, una
centrifuga di sentimenti dentro cui non sai quale tra questi prevalga».
Bucciarati rimase per un attimo in silenzio, anche se la risposta la conosceva
già.
«Ciò che dici accomuna molte persone… Se poi queste persone ti hanno cambiato
la vita è normale provare per loro sensazioni forti».
«Il fatto è che… sai, no? Alla maggior parte degli spiriti piace vedere cosa
fanno i cari rimasti laggiù, mentre io non ne ho voluto sapere niente. Sono
venuto a conoscenza di tutto il casino con Pucci e Jotaro solo dai diretti
interessati quando tutto era già finito, ma né Jotaro né gli altri sembrano far
caso a questo dettaglio»
«Non vedo perché dovrebbero» Bucciarati prese l’ultimo boccone e si preparò a
mandarlo giù «non sta scritto da nessuna parte che sei obbligato a guardare
quel che fanno i viventi»
«Lo so, ma quelli che ho avuto non sono stati solo degli amici… Sento di non aver
compiuto il mio dovere di custode! Persino Leone sbircia quello che fa Giorno
per assicurarsi che stia bene» Kakyoin si grattò la testa con energia «Uffa! A
chi viene in mente di baciare un amico?!» sbottò una volta per tutte come se
avesse vomitato un rospo molto grosso.
Bucciarati era rimasto con l’ultimo pezzo di ciambella a mezz’aria. Rimase
bloccato con il pan di spagna tra le dita e i denti pronti a masticare, ma si
concentrò a guardare il compagno di aldilà con le sopracciglia aggrottate.
«C’è del discorso nella tua confusione» fece ironico «molto poco, ma c’è»
«Non so se il mio sia semplice affetto, ecco tutto» Kakyoin gonfiò le guance,
un po’ scocciato e un po’ imbarazzato «e sì, Mohammed lo sa, Cherry lo ha
saputo da Caesar, Caesar l’ha visto, quindi lo sapeva già, e adesso lo sai
anche tu, e no, non è un problema per nessuno tranne che per me»
«Va bene, adesso credo di aver compreso» Bucciarati infilò in bocca l’ultimo
boccone «vi siete baciati mentre eravate in viaggio e non hai ancora idea di
cosa significasse perché sei morto troppo presto per capirlo, mentre Jotaro è
andato avanti con la sua vita e pensi ci abbia messo una pietra sopra… Se è
così potete sempre chiarirvi»
«E cosa ci diciamo? Troppo semplice parlare adesso quando sia io che lui volevamo
montare».
Quell’affermazione giunse talmente inaspettata che Bucciarati rischiò di
strozzarsi nell’atto di deglutire, tossendo più rumorosamente del dovuto e per
questo attirando l’attenzione delle anime in arena.
«Tutto a posto?» sentirono gridare da Foo Fighters «Guarda che ti basta morire una
volta sola!».
Bucciarati sollevò una mano per rassicurare che non c’era nessun problema,
riprese un po’ del suo contegno e guardò Kakyoin con tanto d’occhi, che nel
frattempo ricambiava stranito come se dal suo canto non avesse detto chissà
cosa di sconvolgente.
«Scusa, cosa vuol dire che volevate montare? Siete entrambi attivi?»
«Lo abbiamo capito solo nel momento in cui… insomma hai inteso» Kakyoin sorrise
imbarazzatissimo come se lo avessero spogliato degli abiti che indossava «Cioè…
io lo sapevo da tempo, ma non sapevo che Jotaro avesse i miei stessi gusti… come
i poli uguali di due batterie che si respingono, non so se mi spiego… ce ne
siamo tirati fuori con una risata e non ne abbiamo più fatto parola… Però il
dubbio su quello che potrei provare è rimasto visto che io sarò per sempre un
ragazzino mentre lui è diventato un uomo».
Bucciarati alzò gli occhi al cielo.
«Chi per primo mi ha spiegato perché vedessi il carro di Afrodite sei stato tu,
tanto per ricordatelo, e poi qualsiasi cosa sia quello che prova per te ti
vuole un bene dell’anima, si vede che gli mancavi… L’ho notato persino io che
nemmeno sapevo chi foste»
«Mh» Kakyoin arricciò il naso per dissimulare – male – il senso di vergogna che
provava «Ci proverò… Forse»
«Lo farai e basta» quello di Bucciarati somigliava più a un ordine che a
un’esortazione.
Kakyoin stava per replicare: stava, perché l’uscio della baita si spalancò con la
furia di un calcio e Abbacchio apparve più furente che mai, con la gamba ancora
sollevata e le braccia cariche di ciambelle, facendo sobbalzare i due seduti in
alto e l’uomo col cappellino sulla faccia che, dopo aver bofonchiato
un’imprecazione in giapponese, raccolse in tempo la sua ciambella prima che
cadesse a terra e guardò da dove provenisse il chiasso.
«Caesar!» urlò Abbacchio «Ridammi la bandana o te le spalmo addosso!».
Senza nemmeno aspettare la replica dell’altro discese i gradoni e si gettò al
suo inseguimento lanciandogli contro i dolcetti e puntando con particolare
sadismo ai capelli.
«Gli sta cospargendo la testa di zucchero e crema, che bastardo» commentò
Kakyoin «non vuoi fermalo?»
«Nah, e perché» Bucciarati si sistemò meglio sullo schienale per godersi lo
spettacolo «non vedo l’ora che finisca le munizioni, lo picchierà di santa
ragione e poi gli farà lavare a mano la bandana».
Col caos che stava accadendo lì sotto era diventato impossibile
riaddormentarsi, quindi l’anima di Jotaro stirò le braccia, sistemò il cappello
in testa e si avviò a passi lenti verso l’uscio aperto con la ciambella che gli
aveva portato Kakyoin. Gli sorrise brevemente quando gli passò accanto e,
passando in rassegna la scena decise di porre a Bucciarati la stessa domanda
che aveva fatto prima l’amico:
«Non vuoi fermarlo?»
«No, è divertente»
«Come volete…» Jotaro sbatté le palpebre e mise a fuoco l’aggressione perpetrata
ai danni di Caesar «in effetti è divertente».
Senza dire altro voltò loro le spalle e lasciò l’arena avendo cura di chiudere
l’uscio prima di andarsene. Solo a quel punto Bucciarati staccò gli occhi da
Abbacchio che cercava di strozzare il ladro di bandane e guardò di nuovo il suo
interlocutore:
«Forza, chiediglielo»
«Di entrare nel giardino di Mitra?»
«Esattamente. Alzati e vai ad acciuffarlo».
Kakyoin esalò un lungo sospiro per infondersi coraggio.
«Agli ordini» disse infine.
Non era necessario minacciarlo per fargli eseguire quel comando. Bucciarati lo
avrebbe verificato poco dopo, mentre camminava tutto da solo nei pressi del
labirinto; avrebbe visto i roseti sbocciare rivelando rose candide come la neve
sul Vesuvio nei giorni della merla. L’eccezione sarebbe stata un unico bocciolo
che custodiva una goccia di sangue, una piccola e quasi invisibile rosa rossa,
che così come era nata sarebbe regredita allo stato di germoglio prima delle
sue sorelle più vistose, sancendo la dipartita di qualunque velleità
passionale.
Un altro piccolo, grande passo verso un’altra notte degli ellebori era stato
compiuto.
I know I hurt you and I made you cry
Did everything but murder you and I
But love left a window in the skies
And to love I rhapsodize
Locus amoenus
FINE
***
²Nel capitolo Jotaro Kujo (terza parte) Joseph afferma che lo stand «è una presenza fissa [...] uno spirito delle onde concentriche». Anche se in seguito si è aggiunta la sottotrama inerente alla freccia ho voluto integrare queste due informazioni che, di fatto, non vanno in contraddizione.
³È canon che a Bucciarati non piacciano i fagioli, quindi ho voluto giocarci sopra.
E anche questa storia è giunta al termine. Da un lato ho chiarito alcune sottotrame illustrate in precedenza, dall'altro ho dato la mia personale opinione su certe dinamiche di certi personaggi verso le quali provo sensazioni contrastanti. Alla fine dei conti ho reso la Jotakak un legame forte ma al tempo stesso delicato, fornendo, come avevo fatto con la Bruabba, una versione leggermente differente rispetto a quella presentata solitamente dal fandom.
Grazie a chi segue, preferisce e soprattutto recensice le mie storie, siete meravigliosi/e. Prometto che tornerò (è una minaccia, includete la risata malvagia preregistrata) e quando accadrà tirerò fuori il meglio del peggio di me con un rating rosso. :V
Grazie mille e a presto, vi si vuole bene,
Green Star 90.