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Autore: Parmandil    11/10/2021    0 recensioni
[https://it.wikipedia.org/wiki/Dune_(film_1984)]
"Il principio è un periodo oltremodo incasinato. Sappiate che questo è l’anno Diecimila e Rotti. L’Universo Conosciuto è unificato sotto l’Impero Analogico, governato dall’Imperatore Pascià Sofà IV. In questo periodo, la più preziosa e vitale sostanza dell’Universo è il melange, la Spezia. La Spezia esalta tutte le facoltà della mente e del corpo. La Spezia fa arrapare anche i nonnetti. La Spezia è essenziale per annullare lo spazio, tenendo unito l’Impero Analogico. La potente Gilda Spaziale, e i suoi Navigatori che la Spezia ha sballato in oltre quattromila anni, usano il gas arancione del melange che conferisce loro la capacità di annullare lo spazio, e cioè di viaggiare in qualsiasi parte dell’Universo... senza mai muoversi.
Oh, già... ho dimenticato di dirvelo. La Spezia esiste su un solo pianeta nell’intero Universo Conosciuto. Un arido e desolato pianeta, con vasti deserti roventi. Nascosta tra le rocce in queste zone desertiche, vive una popolazione conosciuta come i Femen, che attende – secondo un’antica profezia – l’avvento di un giovane emo, che li guiderà finalmente verso la vera libertà. Il pianeta è Arrankis, così detto perché tutti arrancano come dannati nelle sue sabbie, conosciuto anche come... Dune. TUM-TUM-TU-TUUUM!”.
Genere: Avventura, Comico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Movieverse, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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I Vermoni di Dune

 

-Capitolo 1:

 

   “Il principio è un periodo oltremodo incasinato. Sappiate che questo è l’anno Diecimila e Rotti. L’Universo Conosciuto è unificato sotto l’Impero Analogico, sorto dopo i disordini del Jihad Complottaro, in cui i computer furono distrutti e il segreto dell’iperspazio fu perso per sempre. Ora i calcoli complessi sono affidati ai Dementat, individui addestrati a raggiungere le massime vette della logica. Ma coloro che più di tutti hanno esplorato il potenziale psico-fisico sono le Male Gesserit, una confraternita di sole donne, dedita a pratiche indicibili. Questo vasto dominio analogico è governato dall’Imperatore Pascià Sofà IV, mio padre.

   In questo periodo, la più preziosa e vitale sostanza dell’Universo è il melange, la Spezia. La Spezia esalta tutte le facoltà della mente e del corpo. La Spezia fa arrapare anche i nonnetti. La Spezia è essenziale per annullare lo spazio, tenendo unito l’Impero Analogico. La potente Gilda Spaziale, e i suoi Navigatori che la Spezia ha sballato in oltre quattromila anni, usano il gas arancione del melange che conferisce loro la capacità di annullare lo spazio, e cioè di viaggiare in qualsiasi parte dell’Universo... senza mai muoversi.

   Oh, già... ho dimenticato di dirvelo. La Spezia esiste su un solo pianeta nell’intero Universo Conosciuto. Un arido e desolato pianeta, con vasti deserti roventi. Nascosta tra le rocce in queste zone desertiche, vive una popolazione conosciuta come i Femen, che attende – secondo un’antica profezia – l’avvento di un giovane emo. Un Messia, che li guiderà finalmente verso la vera libertà. Il pianeta è Arrankis, così detto perché tutti arrancano come dannati nelle sue sabbie, conosciuto anche come... Dune. TUM-TUM-TU-TUUUM!”.

dal Manuale dell’Emo, della Principessa Iruxol Corrida

 

   «Paul... Paul... segui le mie orme sulla sabbia... questi sono i tuoi primi passi...» mormorò la ragazza dai capelli neri e gli occhi blu, muovendosi come a passo di danza sulle dune mosse dalla lieve brezza.

   Scimunito da cotanta bellezza, il giovane Paul tese le braccia in avanti e la seguì, cercando di ghermirla; ma si trovò ad arrancare nella sabbia. Più cercava di correre, più si accorgeva di sprofondare in quella grana chiara e finissima. «Io odio la sabbia!» gridò, al colmo della frustrazione. «È granulosa, ruvida, irritante... e s’infila dappertutto!». In quella i granelli gli andarono negli occhi, irritandoli al punto che dovette sfregarli, in preda al bruciore; allora la fanciulla scomparve del tutto alla vista.

   «Aspetta, porca Gesserit!» imprecò Paul, agitandosi tra le coperte. Riaprì gli occhi e si ritrovò nel suo letto... che era nei suoi alloggi... che erano nell’antico maniero di famiglia. La Casa Formaldeides era tra le più antiche e rispettate dell’Impero Analogico. Il vecchio castello si ergeva a picco sul mare di Calamar, il mondo oceanico che avevano in feudo. Le onde battevano la scogliera a ritmo costante e la brezza sapeva d’acciughe. «Un sogno... era solo uno stupido sogno!» mormorò il giovane, sfregandosi gli occhi che stranamente bruciavano proprio come se la sabbia li avesse irritati. «Certo che era una bella squinzia, quella là» aggiunse con rammarico. «Magari ce ne fossero così, su questo pianeta di pescivendole!».

   «Che succede, tesoruccio? Hai fatto brutti sogni? Hai bagnato il lettino?» chiese Lady Godiva, entrando come un turbine nella camera.

   «Santa pazienza, mamma, smettila di parlarmi come se avessi ancora cinque anni! Sono maggiorenne, ormai!» sbottò Paul, esasperato.

   «Sì, ma per me resterai sempre il monello che si nascondeva sotto i tavoli e lanciava petardi contro i Dementat!» sorrise Godiva, rammentando quei momenti, dolci per lei quanto schifosi per la servitù. «Allora, dimmi: hai avuto un incubo?» chiese, facendosi più seria.

   «Una mezzospecie» annuì Paul di malavoglia. «Arrancavo in un deserto e...». Tacque, non volendo menzionare la ragazza.

   «E cosa? Perché arrancavi?» inquisì Godiva.

   «Per andare da qualche parte, suppongo. Non so, non ricordo» mentì il giovane, desiderando solo porre fine al discorso.

   «Oh, Paul! Che ti addestro a fare, se non riesci neanche a ricordare i tuoi sogni?!» lo rimproverò sua madre.

   «Me lo chiedo spesso, che mi addestri a fare» convenne Paul. «Sono destinato ad essere il Duca, non certo a entrare nel tuo club per fighette!».

   «Modera il linguaggio, giovanotto! Le Male Gesserit sono la sorellanza più saggia e venerabile dell’Impero. Hanno fatto di me la donna che sono!» rivendicò Godiva.

   «Cioè una concubina stagionata che vive di ricordi» pensò il giovane, ma non osò dirlo a voce. Se sua madre non avesse dato al Duca il suo unico erede, ovvero lui, sarebbe stata scacciata dalla corte già da un pezzo. Così, invece, le era permesso vivere a palazzo e atteggiarsi a Duchessa... ma restava pur sempre Lady Godiva, e nulla più.

   Sua madre lo guardò storto, come se indovinasse i suoi pensieri, ma non volle insistere sull’argomento. «Beh, ormai sei sveglio, quindi tanto vale che ti alzi» disse.

   «Ma sono le cinque di mattina!» protestò il giovane. «Lasciami riprendere sonno!».

   «Il dovere non aspetta, rampollo del Duca!» insisté Godiva. «Ma se vuoi che ti lasci poltrire fino a tardi, puoi sempre usare la Voce».

   Ah, la Voce! Che fosse ipnosi, telepatia o una forma ancor più sottile di suggestione, una Voce ben modulata poteva costringere le persone a fare praticamente di tutto. Le Male Gesserit avevano portato quest’arte all’apice della perfezione. Per cosa se ne servissero realmente, lo sapevano solo loro. Comunque avevano dato a Godiva un’infarinatura di quell’arte, il che spiegava forse come fosse diventata l’amante del Duca. E Godiva, a sua volta, aveva dato un’infarinatura a lui. La cosa non era esattamente legale, dato che nessuna Mala Gesserit avrebbe dovuto trasmettere le sue conoscenze ai non iniziati; men che meno a chi era provvisto di cromosoma XY. Ma come diceva sua madre, «tutto fa brodo per restare vivi».

   «La Voce, eh? Okay, ci provo...» mormorò Paul, contorcendo la lingua e il velopendulo in modi che un tempo avrebbe creduto impossibili.

   «Fare o non fare! Non c’è provare!» lo sferzò Godiva.

   «Okay, allora lo farò!» sbottò il giovane, irritato. «Mamma... lasciami dormire!» gracchiò, infondendo tutta la sua forza di volontà in quel comando.

   «Cos’era quello? Sembrava il raglio di un somaro!» infierì Lady Godiva. «Ne devi fare di strada, prima di riuscire a influenzarmi. E ora in piedi, poltrone! I tuoi istruttori non aspettano!» aggiunse, strappandogli le coperte di dosso.

   «Groan... comincia un altro giorno di merda» pensò Paul, costringendosi ad alzarsi.

 

   L’istruzione di un futuro Duca non è cosa da prendere alla leggera. Si va dalla diplomazia stellare alla storia, dal diritto imperiale alla galattografia. E ovviamente non mancano le lezioni d’autodifesa: tiro al bersaglio, scherma e vari stili di lotta. Durante una delle sue prime lezioni, Paul aveva chiesto al suo istruttore a cosa servisse imparare a lottare, dato che ovunque andasse aveva sempre delle guardie del corpo – e persino delle guardie che sorvegliavano le guardie. Il buon vecchio Duncan Ohio gli aveva spiegato che, per quanto gli si potessero creare dei cerchi di protezione attorno, nessuno è al sicuro quanto colui che all’occorrenza sa trasformarsi in una sega circolare impazzita. Così eccolo di nuovo lì, a sudare nel dojo.

   Come di consueto, i due avversari si agganciarono i generatori Holtzman in cintura. Premuto il comando, gli Scudi si attivarono: due aure azzurrine che avvolgevano il corpo come una tuta, bloccando qualunque oggetto si muovesse a più di nove centimetri al secondo. Era stato il proliferare degli Scudi che aveva decretato la decadenza delle armi da fuoco e il ritorno della lotta all’arma bianca. Armi come le spade che i due contendenti impugnavano in quel momento.

   «Sei distratto» lo rimproverò Duncan, incalzandolo con la consueta maestria. «Che ti frulla nel cervello?».

   «Ho dormito poco» borbottò Paul, parando come un disperato.

   «Bene, chi dorme non piglia pesci!» commentò Duncan.

   «Ti prego, basta coi tuoi aforismi!».

   «Non posso smettere. Questi fottuti Dementat registrano tutto ciò che dico, e ogni volta che ti elargisco una perla di saggezza, ho un bonus in busta paga» spiegò il Maestro d’Armi, accennando al computer umano che stava in silente attesa presso la porta.

   «Ah, sì? Sta’ a guardare!» fece Paul, arretrando per disimpegnarsi. A grandi passi, si recò presso l’osservatore. Era Tuttfritt Megawatt, il Dementat di fiducia di suo padre, che lo seguiva come un’ombra da quando lui aveva imparato a camminare. Parlava poco, e in genere solo se interpellato, ma non smetteva mai d’osservarlo, e non scordava nulla di ciò che vedeva. Ogni sera quel maledetto guardone faceva rapporto ai suoi genitori, riferendo qualunque sua azione meno che onorevole e qualunque sua parola meno che ponderata. Decisamente la privacy non è nelle prerogative di un futuro Duca. Così il giovane si era fatto furbo.

   «Ascoltami bene, Tuttfritt!» ordinò Paul, sforzandosi d’usare la Voce persuasiva. «Voglio che tu calcoli il pi greco fino all’ultimo decimale! Recita ad alta voce!».

   Il Dementat sgranò gli occhi e s’irrigidì ancor più nella sua posa. Com’è risaputo, il pi greco – cioè il rapporto tra il diametro e la circonferenza – è un numero irrazionale, cioè composto da un’infinita quantità di decimali. Di conseguenza, nessun calcolatore – umano o sintetico – potrà mai fornirlo nella sua interezza. Eppure Megawatt aveva ricevuto un ordine a cui non poteva disubbidire. «Come vuole, signore» disse con voce fioca. «Il pi greco è 3,14159 26535 89793 23846 26433 83279 50288 41971 69399 37510 58209 74944 59230 78164 06286 20899 86280 34825 34211 70679...».

   Mentre il Dementat continuava la sua litania, Paul si appartò col suo istruttore. «Ho fatto un sogno strano» disse. «Mi aggiravo in un deserto rovente. Era un posto mai visto prima, eppure mi sembrava stranamente familiare. Non so come, ma... avevo l’impressione che fosse Dune».

   «Dune?» s’insospettì Duncan. «Ah, allora l’hai saputo! Pensavo che i tuoi genitori volessero tenerti all’oscuro fino all’ultimo!».

   «All’oscuro? No, per niente... dimmi pure i dettagli» lo invitò Paul, sperando di farsi confidare qualche segreto. Il Maestro d’Armi era un brav’uomo, fedelissimo alla Casa Formaldeides; ma non era quel che si dice una cima.

   «Allora, da quel che so, ormai è cosa fatta!» disse Duncan, fregandosi le mani per la soddisfazione. «Fra una settimana andrò su Dune per incontrare i Femen e assicurarmi che non vi sparino addosso al vostro arrivo. E di lì a poco, tu e la tua famiglia vi trasferirete con armi e bagagli. Naturalmente dovremo bonificare la capitale, e in special modo il palazzo, per accertarci che non ci abbiano lasciato assassini o bombe. Ma non possiamo perdere tempo, perché l’estrazione di Spezia non deve interrompersi. Ah, figliolo, ancora non immagini la tua fortuna... invece di vendere calamari e pesce, venderai Spezia! Quando sarai Duca, diventerai più ricco dell’Imperatore!» disse, scuotendo la testa con affetto misto a commozione.

   «Io... estrarre Spezia?! Significa che l’Imperatore ci ha dato Dune in usufrutto?!» esclamò il giovane, sentendosi formicolare da capo a piedi. Era il sogno più selvaggio di ogni grande casato, quello di amministrare il mondo più importante dell’Impero. Estraendo la Spezia e rivendendola a prezzo maggiorato, si ottenevano enormi guadagni. Naturalmente gli Imperatori lo sapevano e quindi concedevano Arrankis a rotazione a una Casa dopo l’altra, evitando che una singola famiglia si arricchisse tanto da diventare una minaccia per il loro potere. Ma ogni minuto di usufrutto guadagnato erano soldoni sonanti. Negli ultimi ottant’anni, questo immenso privilegio era toccato agli Scarafonnen, gli acerrimi nemici dei Formaldeides, che in tal modo erano diventati oscenamente ricchi e obesi. Il più ricco e obeso di tutti era ovviamente il capofamiglia, il sordido Barone Vladimir Scarafonnen; e attorno a lui prosperava una corte di corrotti e profittatori. Ma se il pianeta stava per passare di mano, allora le fortune già in ascesa dei Formaldeides li avrebbero innalzati al di sopra dei vecchi rivali.

   «Eh, proprio così... ma come, non lo sapevi?!» si crucciò Duncan. «E io che credevo di poterne parlare liberamente! Bello scherzo che mi hai combinato... se il Duca lo scopre...».

   «Fa’ conto che non abbia sentito nulla» disse Paul, allietato dalla rivelazione. «Io manterrò il segreto fin quando il mio vecchio deciderà di parlarmene. E saremo tutti contenti».

   «Okay, bastardello... non che abbia scelta, ormai» borbottò il Maestro d’Armi. «Ora riprendiamo l’allenamento. Ma prima libera Tuttfritt, prima che gli si fonda il cervello».

   «Oh già, m’ero scordato di lui» disse Paul, risvegliato dai suoi sogni di grandezza. Tornò svelto dal Dementat, i cui occhi erano ridotti a fessure per lo sforzo di concentrazione. Il suo cranio calvo e lucido aveva cominciato a fumare, tanto il cervello ribolliva al di sotto. «Basta così, vecchio mio. Hai dimostrato ancora una volta d’essere il migliore» lo liberò Paul.

   «Uhhh...» mugugnò Tuttfritt, inspirando per raffreddare il suo encefalo surriscaldato.

   «Ecco la tua ricompensa!» disse il giovane. Trasse di tasca un biscotto croccante e lo offrì al Dementat, che lo arraffò a mani tese e se lo sbafò con gusto, mentre Paul gli dava piccole pacche d’incoraggiamento sul testone lucido. Era pratica diffusa compensare i Dementat con leccornie come quella, ogni volta che eseguivano un calcolo particolarmente complesso. Sarà stato anche per quello che tendevano a ingrassare con l’età.

   Finito lo spuntino ricostituente, Tuttfritt riprese la rigida posa di sorveglianza. Paul invece raccattò la spada e tornò al centro dell’arena. Duncan era già lì ad aspettarlo, col sorriso sardonico di chi è pronto a rifarsi di uno sgarro. «In guardia, ragazzo... o quant’è vero l’Imperatore, ti faccio le chiappe nere con questa!» avvertì, carezzando il lato piatto della lama.

   Paul smise di sorridere.

 

   Quella sera, Paul riposava nel suo alloggio, disteso sul letto a pancia in giù. Era una posa necessaria per dare sollievo alle sue chiappe illividite, ma anche così il giovane non poteva permettersi di oziare, quindi decise di consultare un videolibro su Arrankis. Le luci si abbassarono e gli ologrammi invasero la stanza, mentre l’altoparlante recitava il testo. Volumi come quello erano ciò che più si avvicinava all’Intelligenza Artificiale, eppure anche quelli non erano propriamente pensanti: si poteva interrogarli, ma essi fornivano solo risposte preregistrate. In tutto l’Impero non c’era editore che osasse infrangere il credo fondamentale del Jihad Complottaro: “Non costruirai una macchina a somiglianza della mente umana!”.

   Attorno a Paul scorsero immagini di un pianeta bruciato dal sole, quasi interamente ricoperto da dune di sabbia finissima. Dove non c’era sabbia, vi erano rocce e montagne. Non c’era traccia di vegetazione, men che meno di corsi d’acqua.

   «Il popolo dei Femen – ma loro si definiscono Tribù Libere – costituisce la sola civiltà nativa di Arrankis» recitò il videolibro. «Essi sono i discendenti dei nomadi Zuzzurellunni e sopravvivono in condizioni ambientali estreme. Durante il giorno trovano riparo in caverne e altre cavità sotterranee, mentre sono più attivi la notte. Se devono uscire mentre il sole è alto, indossano tute integrali che li proteggono dal calore estremo; senza quest’accortezza qualunque umano morirebbe nel giro di un paio d’ore. La loro civiltà prospera grazie al riciclo delle acque nere».

   «Ugh... speriamo che non mi offrano mai da bere!» commentò Paul.

   «I Femen sono inoltre un popolo assai spirituale. Oltre ad avere un profondo legame col deserto in cui vivono, essi attendono da secoli l’avvento di un Emo che li guiderà verso la libertà e la grandezza...» proseguì il videolibro.

   «Cosa?! Forse volevi dire un Mahdi, un Messia?» si stupì il giovane.

   «No, intendo proprio un Emo: un giovane pallido e allampanato, sempre vestito di nero e con l’aria malinconica» confermò la voce artificiale. «Secondo la profezia, egli sarà capace d’ingurgitare quantità spropositate di Spezia, senza risentirne gli effetti collaterali».

   «Che strana profezia! Mi sa che il solleone la solitudine del deserto hanno cotto il cervello a quella gente» fece Paul, rassettandosi l’abito nero con la mano pallida. «Ma parlami della Spezia!».

   «La Spezia, anche detta melange, è la risorsa più importante di Arrankis e di tutto l’Impero, essendo l’unico strumento che consente i viaggi interstellari, mediante i Navigatori della Gilda. Tra le sue qualità vi sono inoltre il prolungamento della vita, l’esaltazione sensoriale ed extrasensoriale, la preveggenza. La Spezia dà una leggera assuefazione se presa in piccole dosi, ma un’assuefazione infinitamente più grave se presa in quantità superiori ai due grammi giornalieri per ogni settanta kg di peso corporeo. I principali segni d’assuefazione sono gli occhi blu e l’espressione da stoccafisso. Il prezzo del melange sul mercato imperiale arriva a 620.000 solari per decagrammo...».

   «Sì, sì, lo so!» sbuffò il giovane, che aveva studiato queste cose alle elementari. «Dimmi come si estrae la Spezia».

   «La Spezia si estrae grazie a grandi macchine cingolate dette Mietitrici, di 120 x 40 metri. Le Mietitrici setacciano costantemente la fine sabbia di Arrankis, in cerca della polvere grezza del melange, e provvedono anche a una prima raffinazione...».

   «Aspetta, setacciano la sabbia? Ma quindi il melange da dove viene?» chiese Paul. Era strano che non lo ricordasse... sicuramente glielo avevano detto all’inizio del suo percorso di studi, ma lo aveva scordato, limitandosi a dare per scontato che “la Spezia viene da Dune”.

   «Le origini del melange sono misteriose, ma si ritiene che esso sia prodotto dai cosiddetti Vermoni di Dune, le più grandi creature native del pianeta, venerati dai Femen» rispose il videolibro.

   «Oh, dimmi di loro!» si emozionò il giovane.

   «I Vermoni sono invertebrati che crescono fino a raggiungere dimensioni gigantesche: esemplari di oltre 400 metri sono stati avvistati nelle profondità del deserto. Sono molto longevi, a meno che non si mangino a vicenda o non finiscano annegati nell’acqua, per loro velenosa. I loro denti cornei sono così duri da tranciare l’acciaio delle Mietitrici; i Femen li usano per fabbricare i sacri pugnali detti pyss, che per tradizione una volta estratti devono obbligatoriamente bagnarsi di sangue umano. I Vermoni strisciano nel sottosuolo, dove sminuzzano costantemente sassi e rocce, tanto da far supporre che siano stati loro a creare la maggior parte della sabbia di Arrankis. Sono molto sensibili alle vibrazioni, specialmente quelle ritmiche: quando le sentono emergono in superficie e divorano qualunque cosa si muova, dagli incauti passanti alle grandi Mietitrici. Per questo i Femen hanno imparato a muoversi con il celebre Passo Arrancante, dal ritmo irregolare, che non attira i Vermoni. Le Mietitrici invece sono costantemente a rischio, tanto che all’inevitabile arrivo del predatore devono essere rapidamente sollevate e tratte in salvo da un’Ala Trasporto». L’ologramma mostrò il velivolo dalle ali battenti che sollevava la Mietitrice, appena in tempo per salvarla da un Vermone famelico.

   «Uhm... hai detto che i Vermoni “producono” il melange. In che modo?» s’incuriosì Paul.

   «Mi dispiace, le mie risposte sono limitate. Devi farmi...».

   «... le domande giuste. Sì, lo so!» sbottò Paul, abituato a quell’atteggiamento esasperante dei videolibri. «Definisci le modalità di produzione della Spezia da parte dei Vermoni» ordinò, sperando d’essere stato abbastanza chiaro.

   «Le origini del melange sono misteriose» ripeté il videolibro, «ma si ritiene che esso sia prodotto dai cosiddetti Vermoni di Dune, le più grandi creature native del pianeta, tramite defecazione».

   «Che?!» insorse Paul. «Sarebbe a dire che i Vermoni cagano Spezia, e noi ce la mangiamo?!».

   «Affermativo. Desidera approfondire gli effetti benefici della Spezia?».

   «No grazie, ne ho abbastanza» fece il giovane, disgustato. «Non si è mai riusciti a far acclimatare i Vermoni su altri pianeti?».

   «Negativo. I numerosi tentativi si sono sempre risolti con la morte dei Vermoni» confermò il videolibro. «In alternativa, i Vermoni trapiantati su altri mondi – sia pure desertici come Dune – hanno prodotto feci del tutto prive di poteri».

   «Groan, onore a quelli che le hanno assaggiate per appurarlo!» commentò Paul, sempre più nauseato. «Un’ultima cosa: i Femen hanno accesso alla Spezia?» chiese. Il videolibro gli aveva detto che tra i segni d’assuefazione c’erano gli occhi blu, e la misteriosa ragazza del suo sogno li aveva proprio così...

   «La capacità d’accesso alla Spezia dei Femen è ignota» rispose il videolibro. «Tuttavia la quasi totalità dei nativi esibisce gli occhi blu tradizionalmente associati col consumo intenso di Spezia. Ciò corrobora l’ipotesi che essi ne conoscano depositi segreti, o ne assumano dosi significative semplicemente respirandola nell’aria, assieme alla polvere del deserto».

   «Fantastico, questi riciclano le acque nere e respirano gli escrementi dei Vermoni!» borbottò Paul. D’un tratto non era più così sicuro di voler rintracciare la ragazza del suo sogno.

 

   Di lì a una settimana, il segreto che Paul aveva carpito a Duncan non fu più tale. Giunse infatti l’astronave dell’ambasciatore imperiale, che doveva annunciare la riassegnazione di Dune. Dal momento in cui il vascello simile a un cannolo fu avvistato nell’orbita di Calamar, tutto il castello fu in allarme. Le guardie predisponevano le misure di sicurezza, la servitù si affannava coi preparativi. Niente doveva andare storto, in quel giorno decisivo per le fortune dei Formaldeides.

   «Abbiamo visite importanti. Preparati, figlio mio!» raccomandò Lady Godiva, irrompendo nella camera di Paul (come al solito senza bussare). «Metti l’alta uniforme, è appena stirata. Ricordati di tenere ben dritta la schiena. E...».

   «... e cerca di non avere quell’aria da emo» raccomandò il Duca Letonto Formaldeides, sbirciando nella camera del figlio. «L’ambasciatore farà un grande annuncio, qualcosa che ci darà una ricchezza e un prestigio inimmaginabili. Cerca di non rovinare tutto con la tua aria da pesce lesso. E mi raccomando, non parlare; dobbiamo sembrare intelligenti!» raccomandò.

   «Sì, padre. Credi che...» cominciò Paul, ma Letonto si era già volatilizzato.

   «Ci vediamo sul campo d’atterraggio fra venti minuti. Ricorda d’indossare l’uniforme dritta, non a rovescio come l’ultima volta!» trillò Godiva, prima di scomparire anch’ella.

 

   Lasciata l’astronave in orbita, il modulo d’atterraggio dell’ambasciatore si posò sulla pista. Le truppe dei Formaldeides erano schierate a migliaia per ricevere l’illustre ospite. Gli stendardi del casato garrivano al vento salmastro, mostrando l’emblema del Pollo Spennato. Il Duca con la sua famiglia attendeva sopra un podio rialzato di qualche scalino. Paul si presentò buon ultimo; sua madre gli rassettò l’uniforme e lo sistemò accanto al padre, muovendolo come una pedina, nel tentativo di dare alla composizione un’aria simmetrica.

   «Porca Gesserit, non siamo un presepe! Lascia stare il ragazzo e mettiti al tuo posto!» la richiamò il Duca. Rassegnata, Godiva fece come ordinato.

   Le porte della navicella si aprirono con un sibilo. Il messo sbarcò col suo imponente e pittoresco seguito: diplomatici, assistenti e comparse varie. C’era anche un plotone dei ferocissimi Sardonen, le truppe d’elite imperiali, che vigilavano sulla sicurezza. Indossavano tute semicorazzate color sabbia; i loro volti erano invisibili sotto i caschi integrali. La mano senza volto dell’Imperatore...

   «Salute a voi, Casa Formaldeides! Sono latore di grandi notizie: la benevolenza dell’Imperatore è su di voi!» esordì il messo, con una vocetta incredibilmente stridula.

   «Ma... ha respirato elio?» bisbigliò Paul a sua madre.

   «No, dev’essere uno degli eunuchi di corte. Adesso capisci perché mi opponevo a farti fare la carriera diplomatica?» rispose Godiva, facendogli l’occhiolino.

   «L’Imperatore ne ha piene le balle di come gli Scarafonnen amministrano Arrankis. Quegli scopa-capre dei Femen continuano a disturbare l’estrazione di Spezia» proseguì l’alto diplomatico, in tono solenne anche se stridulo. «Negli ultimi cinque anni la produzione è diminuita del 10% e il prezzo è salito in proporzione. I clienti abituali sono in piena crisi d’astinenza. Così, nella sua saggezza, Sua Maestà ha deciso di ritirare l’usufrutto agli Scarafonnen. E nella sua infinita benevolenza, lo concede alla Casa Formaldeides. Accettate questo grande onore, e le responsabilità che ne derivano?» chiese.

   «L’Imperatore ci ha chiamati, e noi rispondiamo!» rispose il Duca con voce stentorea.

   «Bene, allora fate fagotto e andate su Arrankis il prima possibile. La produzione di Spezia non deve interrompersi né rallentare, neanche per un solo giorno! Altrimenti Sofà Pascià concederà il pianeta a qualcun altro. The show must go on!» ammonì l’ambasciatore. E si ritirò con la stessa rapidità con cui era arrivato.

 

   Quella notte, Paul non riusciva a trovare pace nel letto. Sebbene Duncan lo avesse già avvertito della novità, la visita del messo imperiale aveva reso le cose molto più reali e pressanti. Duncan era già partito per preparare il terreno, assieme a parte delle truppe Formaldeides. Con loro c’erano anche squadre di scienziati e ingegneri che dovevano fare una prima valutazione e riparare eventuali danni a strutture e macchinari. I Formaldeides si sarebbero trasferiti appena la situazione fosse stata ragionevolmente sotto controllo... e forse anche un po’ prima, vista l’urgenza.

   Ma non era solo l’emozione dell’imminente trasloco a tener sveglio il giovane. C’era qualcosa di strano... come una sorta d’elettricità nell’aria. A volte Paul riusciva a percepire l’arrivo dei temporali, ma questa era una sensazione diversa; pareva scaturire direttamente dal suo cervello. Qualcosa stava per succedere... anzi, qualcosa si stava avvicinando... ma non sapeva che cosa, e questo lo agitava ancora di più.

   Una luce bianca brillò attraverso la finestra. Paul vi si precipitò e vide una navicella dalla forma stranissima, più alta che larga, posarsi sulla pista d’atterraggio alla luce dei fari. Non ne aveva mai viste così e sulle prime non riuscì a identificarla. Comunque sembrava importante, forse un trasporto consolare; era strano che giungesse così inaspettata. Il portello di sbarco si spalancò, lasciando uscire una mezza dozzina di figure intabarrate in pesanti veli neri che coprivano anche il volto. Nel vederle – o meglio, nel non vederle – Paul si sentì accapponare la pelle. C’erano forse brutte notizie da Dune? In preda alla tensione, il giovane decise di vestirsi, nel caso lo avessero convocato. Aveva appena finito che sua madre entrò in camera, con l’abituale noncuranza per la sua privacy.

   «Ah, sei pronto» disse, per nulla sorpresa. «Vieni, presto. Abbiamo visite importanti».

   «Di chi si tratta?» chiese Paul, seguendola lungo i corridoi. Lady Godiva camminava così svelta che il figlio dovette quasi trottare per starle dietro.

   «Sono le Male Gesserit; sai che un tempo ero una di loro».

   «Sì, ma poi ti sei dedicata a una carriera più remunerativa...».

   «Nessuna smette mai d’essere una Mala Gesserit; tienilo a mente!» ammonì Godiva. «A farci visita è la Reverenda Madre in persona: Gaia Helen Mangiahuom. Era la mia insegnante alla scuola Male Gesserit e ora è la Veridica dell’Imperatore».

   «E che ci fa qui da noi?» inquisì Paul. «Dipende dal fatto che ci hanno dato Arrankis?».

   «Concesso, non dato» precisò la Lady. «La Reverenda Madre vuole conoscerti. Ti farà qualche domanda, a cui è vitale che tu risponda sinceramente» disse, con sguardo carico di preoccupazione. «Inoltre... credo che voglia sottoporti a un’antica prova».

   «Di che si tratta?».

   «Lo scoprirai presto, figlio mio. Qualunque cosa accada, sii forte» raccomandò Godiva. «E non aver paura, perché... lei la fiuterebbe».

 

   La Reverenda Madre Gaia Helen Mangiahuom sedeva su una poltrona damascata, osservando madre e figlio che si avvicinavano. Loro invece non riuscivano a vederla bene in viso, per via del velo nero che la ricopriva. Le finestre ai lati si aprivano una sul mare scintillante, l’altra sulle verdi proprietà dei Formaldeides; ma l’ospite non era lì per il panorama.

   Godiva si fermò a tre passi dalla poltrona e fece una profonda reverenza. Poco più indietro, Paul eseguì un inchino più lieve, quello per “quando si è in dubbio sull’effettivo rango dell’interlocutore”.

   «Ah, eccolo qui!» disse la Mala Gesserit con voce stentorea. «Se solo avessi generato una figlia, come ti avevo ordinato... beh, mi accontenterò di quello che hai sfornato».

   «Ordinato? Sfornato?!» fece Paul, indignato da quelle parole. «Ma come si permette...».

   «Taci, infante. Parlerai se e quando te lo permetterò» disse l’ospite, alzando l’indice. Osservò il viso pallido e affilato del giovane, il naso sottile, i capelli nerissimi, il fisico alto e magro, gli abiti anch’essi scuri. Paul ebbe l’impressione che lo scrutasse non solo fisicamente, ma anche mentalmente; e che fosse rapida nel giudicare.

   «Uhm... i tuoi rapporti non esageravano; è proprio un emo» rimuginò Mangiahuom, rivolta a Godiva. «Anzi, direi che è più emo di Kylo Ren! Ma sarà proprio quell’Emo? Quello che stiamo cercando?».

   «Nel dubbio, mi sono permessa d’insegnargli le nostre tecniche, nei limiti di quanto è lecito...» si azzardò Godiva.

   «L’insegnamento è una cosa, il materiale di partenza è un’altra» la gelò la Reverenda Madre. «Beh, vedremo di che pasta sei fatto, bastardello. Quanto a te, Godiva, esci e mettiti davanti alla porta. Non far entrare nessuno e non rientrare tu stessa, finché non ti richiamerò».

   «Come volete, Vostra Reverenza» mormorò la Lady, pallida e tesa. Dette un’ultima occhiata al figlio, come se temesse di non rivederlo, e gli sfiorò la spalla. «Sii forte» sussurrò, per poi ritirarsi in tutta fretta.

   Non appena fu solo con la Mala Gesserit, Paul la squadrò con freddezza. «Avete congedato mia madre come se fosse una serva» commentò, in tono accusatorio.

   «Ah ah, ai suoi tempi era altro che una serva!» ridacchiò Mangiahuom. «Cortigiana è un termine più appropriato, ed era bravissima. Del resto ha studiato da noi. Non credo che tu sia consapevole di quanto ti ha protetto... ma ora non è più qui a farlo. Avvicinati, mezzasega!» ordinò.

   Il comando colpì Paul come una sferzata. Prima ancora di rendersene conto era davanti alla poltrona, a un passo dall’inquietante ospite. «La Voce! Quella vecchia baldracca ha usato la Voce!» comprese.

   «Sì, questa vecchia baldracca è molto versata nelle arti mentali» confermò la Mala Gesserit. «Ma per capire se vali il disturbo di venire qui, non c’è che un modo. Ti sottoporrò all’ordalia del gonad chemmal!» disse in tono teatrale. Così dicendo mostrò un cubo metallico, estraendolo chissà come dalle pieghe della veste. Paul vide che mancava di un lato, come una scatola; nessuna luce penetrava in quell’apertura nera e spaventosa.

   «Ora infilerai la tua carne indifesa nella scatola» disse Mangiahuom, malignamente compiaciuta. «E non ti azzardare a estrarla senza il mio ordine, altrimenti...».

   Un ronzio attirò l’attenzione del giovane. Una sorta di calabrone, o di grosso moscone, gli ronzava fastidiosamente accanto al collo. Istintivamente Paul fece il gesto di scacciarlo.

   «Io non lo farei, se fossi in te» ammonì la Mala Gesserit. «Quello è un Cercatore Assassino. Disobbedisci, e t’inietterà un veleno così mortale che schiatterai prima di poter chiamare aiuto».

   «Vuole uccidermi?!» fece Paul, esterrefatto. «Cos’è, l’hanno mandata gli Scarafonnen?».

   «Ma quali Scarafonnen, stupido sminchiato!» lo redarguì la Reverenda Madre. «Questa prova serve a verificare se la tua mente riesce a dominare la tua carne. Quando quest’ultima sarà dentro la scatola, proverai un dolore atroce. Avrai l’impulso istintivo di levarla. Se lo farai, il Cercatore ti ucciderà all’istante. Se invece sopporterai il dolore con la forza di volontà, allora sopravvivrai. Per fare le cose come si deve dovresti anche restare immobile, senza agitarti né piagnucolare... ma suppongo che sia chiedere troppo a un coglioncello come te! Quindi mi accontenterò di vedere che non ti ritrai. Non sono clemente?».

   «Clemente un corno! Credete di poter uccidere impunemente il figlio del Duca?!» obiettò Paul.

   «Finiscila di nasconderti dietro le sottane dei tuoi genitori! Questa è una prova per te, per capire quanto vali! Così vedremo se sei un uomo dotato di razionalità, o un caprone dominato dall’istinto!» lo sferzò Mangiahuom.

   «Se grido, arriveranno i soccorsi...» annaspò il giovane.

   «Niente affatto. Tua madre è lì davanti alla porta, con l’ordine di non far entrare nessuno» gli ricordò la Mala Gesserit.

   «Dovevo aspettarmelo, da quella sgualdrina!» proruppe Paul.

   «Ah, finalmente parli come il Duca tuo padre!» sogghignò Mangiahuom. «Comunque le cose stanno così; uscirai solo dopo aver sostenuto la prova. E sbrigati, cacasotto, che non ho tutto il pomeriggio da dedicarti! Tra poco devo andare a fare la liposuzione».

   «E va bene!» sbottò Paul, stanco d’essere vituperato. «Farò come dite, vecchia megera. Ma se pensate di uccidermi, vi sbagliate di grosso. Ho addestrato il mio corpo a una completa insensibilità al dolore!» si vantò. Fece dei respiri profondi e rallentò il battito cardiaco, mentre scorreva teatralmente le mani lungo il busto smilzo. «Conosco anche la vostra filosofia: «Non devo aver paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale. Guarderò in faccia la mia paura, permetterò che mi calpesti e mi attraversi. E quando sarà passata...».

   «Che stai cianciando?» l’interruppe la Reverenda Madre.

   «Come sarebbe? Cito la vostra celebre Litania contro la Paura...».

   «Quella l’abbiamo scritta quand’eravamo sponsorizzate dai Baci Perugina e ci davano da scrivere gli slogan» spiegò la Mala Gesserit, infastidita. «Sono stronzate da quattro soldi, dimenticale! E ora affronta la prova!» ordinò.

   «Oh insomma, va bene!» berciò il giovane, inserendo finalmente la mano nell’inquietante scatolina. Dapprima provò una sensazione di freddo; poi un crescente formicolio. Sapeva che presto sarebbe esploso il dolore... ma era pronto ad affrontarlo. Ne andava della sua vita, e anche del suo onore.

   «E adesso che fai, stronzetto?» chiese Mangiahuom, esasperata.

   «Come sarebbe a dire? È mezz’ora che mi scassate le balle con la storia dell’ordalia... vi ho accontentata!» rispose Paul, sentendo crescere una sensazione di prurito e punzecchiamento alla mano.

   «Non è la mano che devi infilare, pezzo d’asino! Perché credi che il rituale si chiami gonad chemmal? È un’altra parte anatomica che devi ficcare là dentro! Avanti, fessacchiotto, tiralo fuori! Tanto non m’impressioni, ho visto ben altro!» lo provocò la Reverenda Madre.

   «Ah, no!» fece Paul, estraendo la mano che cominciava a bruciare. «Tutto, ma questo no! Piuttosto datemi una scatola più grande, in cui possa ficcare la testa!».

   «Non sei tu a fare le regole, fighetto!» lo rampognò Mangiahuom. «Li do io gli ordini! Sei con una Mala Gesserit, il che significa che devi soffrire! E ora... ficcalo dentro!» sibilò.

   Il giovane si oppose con tutte le sue forze, ma la vecchia arpia aveva usato di nuovo la sua Voce irresistibile...

 

   Fuori dalla porta, Lady Godiva passeggiava nervosamente avanti e indietro, torcendosi le mani. Sapeva bene in cosa consisteva il rituale, e cosa sarebbe accaduto a suo figlio qualora avesse fallito. Eppure aveva lasciato che tutto ciò accadesse. Non aveva nemmeno avvertito Letonto del pericolo; certo il Duca sarebbe intervenuto, anche se poi il casato avrebbe avuto rogne. La sua fedeltà all’Ordine giungeva quindi al punto d’immolare suo figlio? Che avrebbe fatto, se rientrando lo avesse trovato a terra, privo di vita...?

   In quella udì dei rantoli che provenivano dall’interno. In certi momenti erano gemiti disarticolati, in altri si precisavano in parole o brevi frasi smozzicate, tutte ingiuriose. «Uh, come brucia! Ahi, boia d’un mondo! La pagherete, stupide talebane! Dalla prima all’ultima! Ohi ohi, che male! Accidenti a voi e ai vostri giochetti sadomaso! Quando sarò il Duca, allora vedrete! Vi cercherò una per una, e allora sarò io a divertirmi! Ahi, ahi... UUUAAAAARGHHHH!!!».

   L’ultimo grido fu così lacerante da far tremare la spessa porta in legno. Poi tornò la quiete, anzi, un silenzio di tomba. Lady Godiva si appoggiò allo stipite per non accasciarsi. Sapeva che, se Paul si era ritratto per sottrarsi all’agonia, la Reverenda Madre lo aveva certamente ucciso. Il suo Ordine non tollerava la debolezza e l’imperfezione.

 

   «Beh, dopotutto hai superato la prova. Non ci avrei scommesso un soldo bucato» commentò la Mala Gesserit. La scatola maledetta era sparita in una piega della sua veste, e così il Cercatore.

   «Almeno non sono rimasto menomato» borbottò Paul, risistemandosi i pantaloni. Durante la prova aveva avuto una sensazione ustionante. Al termine dell’ordalia era stato un enorme sollievo constatare d’essere ancora sano.

   «Certo che no! Era dolore tramite stimolazione nervosa, non una vera ustione. Non posso andare in giro a evirare potenziali esseri umani» spiegò Mangiahuom, in tono pratico.

   «Ah, quindi lo fa spesso! Chissà quanto ci gode. Ma perché questa prova è così importante, per la miseria?!».

   «Ancora non l’hai capito, specie di ottusangolo? Okay, ti farò un esempio. Hai mai setacciato la sabbia?».

   «Certo! Lo facevo da bambino sulla spiaggia, per trovare le conchiglie».

   «Bene. Sappi che noi Male Gesserit setacciamo la gente, per rintracciare i veri uomini» spiegò la Reverenda Madre.

   «E quando li avete trovati, che gli fate?» volle sapere Paul, visto che ciò lo riguardava.

   «Oh oh, cosa credi che gli facciamo?!» fece Mangiahuom, scossa da una risata grassa. «Ti ricordo che siamo tutte donne, nel nostro Ordine! Dobbiamo pur spassarcela, in qualche modo! Ma non temere, tu sei troppo emo per i nostri gusti» lo rassicurò. «In effetti, sei talmente emo che potresti essere proprio quello che cercavamo. Ma di questo discuterò con tua madre. Godiva!» strepitò, rivolta alla porta.

   L’uscio si spalancò e la Lady si fiondò all’interno. Vedendo che  Paul era in piedi, riprese colore e riuscì a sorridere debolmente. Dopo di che richiuse la porta, intuendo che bisognava scambiare ancora parole riservate.

   «Come vedi, tuo figlio s’è rivelato un uomo, anche se piagnone» commentò la Reverenda Madre. «La tua linea di sangue è interessante, dopotutto. Continueremo a lavorarci».

   «Lavorarci? Ma...» fece Paul.

   «È dall’indomani del Jihad Complottaro, quando i computer furono aboliti, che il mio Ordine lavora per costringere la mente umana a evolversi» spiegò la Mala Gesserit. «Noi dobbiamo fare in modo che gli individui più dotati s’incontrino, per generare eredi ancora più dotati, e così via. In mancanza di simulazioni computerizzate, dobbiamo adottare un approccio più... empirico».

   «Cioè selezionate le donne dalla mente più evoluta, le addestrate e infine le buttate tra le braccia degli uomini che vi paiono più indicati» comprese il giovane, osservando di sottecchi sua madre. «È così che sono venuto al mondo... sono solo un tassello dei vostri studi» disse deluso.

   «No, tu sei mio figlio, ti amerei in ogni caso...» si affannò Lady Godiva.

   «Già, a volte le nostre consorelle si affezionano fin troppo al lavoro» commentò Mangiahuom. «Comunque il nostro scopo ultimo è creare l’Emo: un essere che grazie alla Spezia avrà inimmaginabili poteri di preveggenza e dominerà l’Universo Conosciuto. Così porterà finalmente un po’ d’ordine in questo casino che è l’Impero Analogico. Ci lavoriamo da secoli, incrociando le linee di sangue più promettenti, e mi sa che ormai ci siamo vicine» gongolò.

   «È curioso, sa? Anche i Femen – i nomadi di Arrankis – hanno una profezia del genere» notò Paul, ricordando il videolibro.

   «Sono tutte predizioni fatte da veggenti sotto l’influsso della Spezia» spiegò Godiva. «Non c’è da stupirsi che coincidano: il melange non mente».

   «Macché; fummo noi a diffondere la diceria su Dune» la smentì la Reverenda Madre. «Così quegli straccioni dei Femen sarebbero rimasti buoni in attesa del loro Messia, invece di attaccare gli impianti. Purtroppo negli ultimi tempi si sono stancati d’aspettare e hanno cominciato a darci noie, quindi toccherà a voi Formaldeides tenerli al guinzaglio» ammonì. «Qualunque cosa accada, non lasciate che la produzione di Spezia ne risenta, o l’Impero Analogico crollerà come un castello di carte e i nostri secoli di maneggi andranno sprecati. E ora scusatemi, devo andare a sballarmi con la Spezia». Con queste parole, la Reverenda Madre si alzò e si diresse verso l’uscita.

   «Un momento!» la rincorse Paul, sebbene l’ordalia appena sostenuta lo costringesse ad adottare un passo largo e barcollante. «Quando arriverà il vostro Emo, come farete a riconoscerlo?».

   «Riuscirà a sniffarsi quantità industriali di melange restando in piedi» rispose la Mala Gesserit, già sulla soglia. «Molti hanno tentato, ma...» aggiunse in tono grave.

   «Sono morti» comprese Paul, sapendo quant’era pericolosa la Spezia se assunta in dosi eccessive.

   «No, sono diventati degli stupidi bimbiminkia» rivelò Mangiahuom. «Ma nel tuo caso, non ci sarebbe una gran differenza. Arrivederci... ci rivedremo quando deciderai di metter su famiglia! Per allora chiamami, Godiva! Ho già qualche pollastrella da consigliarvi!». Con questa minaccia, la Reverenda Madre scomparve tra le ombre del corridoio. Di lì a poco la sua navicella decollò per tornare a Can-can, la lontana capitale dell’Impero.

 

   Il vento spazzava il promontorio erboso, portando il consueto odore d’acciughe dal mare. Le tombe dei Formaldeides erano allineate lì: ventisei generazioni di duchi, tanto era durato il loro dominio su Calamar. A differenza d’altri casati, che si facevano erigere tombe monumentali, i Formaldeides si accontentavano di severe lapidi in pietra grigia. Le più vecchie erano ormai coperte di muschio e corrose dall’aria salmastra. Fu tra quelle vestigia della loro famiglia che Letonto volle passeggiare con suo figlio. Era l’ultima escursione sul loro mondo natale, perché la partenza era imminente: le navette sarebbero decollate l’indomani.

   «Sei nervoso, figliolo?» chiese a un tratto il Duca.

   «Un po’» ammise Paul. «Dune è un mondo totalmente diverso da questo. Dovremo imparare tutto daccapo».

   «Puoi ben dirlo! Qui avevamo il potere del vento e del mare; laggiù dovremo acquisire il potere del deserto» pontificò Letonto.

   «Che significa?».

   «Nulla di particolare, ma detto così sembra epico» spiegò il Duca. Il suo sguardo si posò sulle tombe degli antenati. «E io che pensavo di riposare tra i miei avi, in riva al mare! Invece sembra che finirò i miei giorni su una palla di sabbia. E così sarà anche per te, figliolo» disse gravemente.

   «Ehi, calma!» fece Paul. «Il fatto che ci abbiano assegnato Dune non significa che ci portino via Calamar. Guarda gli Scarafonnen: non hanno mai perso il controllo del loro feudo di Latrina Primo. Il Barone Scarafonnen – che gli venga un accidente – è sempre vissuto lì, accontentandosi di visitare Dune ogni tanto».

   «Perché ha due nipoti, Rubik e Frizzata, che sono sempre stati su Dune a sorvegliare i lavori» puntualizzò il Duca. «Io ho solo te, purtroppo».

   «Non mi ritieni all’altezza?» fece il giovane, ferito dalla scarsa considerazione paterna.

   «Mah, sai, figliolo... uhm... a proposito, com’è che ti chiami?» fece Letonto, colto dal suo lapsus ricorrente.

   «Paul, papà».

   «Ah sì, come il mio polpo preferito!» si rianimò il Duca. «Dicevo, mio caro Paul, che nella nostra famiglia il talento sembra procedere a generazioni alterne. Il mio sfortunato padre fu così coglione da ripristinare la corrida, e morì incornato da un toro» disse, accennando alla lapide che ritraeva fedelmente la scena. «Io invece me la sono cavata piuttosto bene, come dimostra il fatto che abbiamo ricevuto Arrankis. Così ora sono preoccupato per te, giovanotto. Sei talmente emo!» disse, osservandolo dispiaciuto.

   «Se vuoi, posso vestirmi a colori vivaci» suggerì Paul, cercando disperatamente di compiacere il genitore.

   «No, sembreresti un corvaccio caduto nella tavolozza di un pittore» sospirò Letonto.

   «Pensi di escludermi dalla successione?» chiese il giovane, con un groppo in gola.

   «Macché! Abbiamo dei vecchi legami di sangue con gli Scarafonnen, e in mancanza di un mio erede, quel lardoso Barone accamperebbe pretese sulla mia eredità» spiegò il Duca. «Quindi è d’uopo che sia tu a ereditare. Osserva bene le mie mosse, quando saremo su Dune, così comincerai a capire qualcosa di politica. Anzi, penso che comincerò fin da subito a darti qualche incarico, così ti farai le ossa».

   «Volentieri, padre... prometto che non ti deluderò».

   «Non fare promesse che non sei certo di mantenere, figliolo» sospirò Letonto, fermandosi per fronteggiarlo. «Comunque sappi che anch’io alla tua età ero incerto sulle mie doti. Non sapevo nemmeno se accettare questo». Sollevò la mano per mostrare l’anello di famiglia dei Formaldeides, portato dai duchi in carica. «Alla fine ho trovato la mia strada... sarà lo stesso per te» disse, sorridendogli incoraggiante.

   «Lo spero... grazie di cuore» disse Paul, sentendosi finalmente apprezzato. I due restarono fermi per qualche minuto in cima alla scogliera, osservando per l’ultima volta il tramonto sul mare. Il disco rosso si ridusse all’orizzonte, fino a svanire in un ultimo raggio verde.

   «Bene, torniamo a casa. Domani ci attende una giornata impegnativa, mio caro... uhm... come ti chiami?» tornò a chiedere il Duca.

   «Paul» gli ricordò il giovane, alzando gli occhi al cielo vespertino.

   «Già, continuo a dimenticarlo!» fece Letonto, scuotendo la testa. «Beh, vieni con me. Ci attende un banchetto d’addio al pianeta. Chissà quanto passerà, prima di poterci mettere di nuovo piede...» aggiunse pensoso.

 

   Le fabbriche di Latrina Primo non si fermavano mai, e quindi nemmeno le vibrazioni del suolo e il rimbombo degli ingranaggi all’opera. Ma coloro che erano nati e cresciuti su quel mondo oscuro si erano talmente abituati da non farci più caso. Un tempo la perla dell’Impero, il pianeta aveva conosciuto un’urbanizzazione e un’industrializzazione selvagge, prive di qualunque rispetto per l’ambiente. Come risultato, tutta la vita autoctona si era estinta, tranne i pochi esemplari che sopravvivevano in qualche zoo. I miliardi di abitanti Umani vivevano stipati come formiche nei livelli sotterranei, o nei grattacieli senza finestre che svettavano verso il cielo perennemente oscurato dallo smog. Il reticolo urbano era punteggiato dalle centrali nucleari che dovevano soddisfare l’immane fabbisogno energetico di quel mondo-formicaio. Grandi fabbriche lavoravano incessantemente alla produzione d’armi, astronavi e macchinari pesanti. Le loro ciminiere esalavano fumi tossici nel cielo scuro, mentre gli scarichi riversavano composti venefici in fiumi e mari, che ormai avevano assunto il colore (e anche l’odore) degli escrementi. Su tutto incombeva il palazzo del Barone Vladimir Scarafonnen, simile a una piramide. Le piogge acide scorrevano sulle scure pareti inclinate, riversandosi nei condotti di scarico, e grandi riflettori lo illuminavano a giorno.

   I passi pesanti di Rubik, nipote del Barone, rimbombarono nel corridoio. Il rampollo del casato aveva vissuto per anni su Dune, tenendo a bada i Femen e assicurandosi che l’estrazione della Spezia continuasse; ma con l’editto imperiale era tutto finito. Ora era tornato sul suo mondo natale, con la coda fra le gambe e la collera nel cuore. Ma in quel momento, alla rabbia era subentrata la paura; perché doveva fare rapporto al terribile zio e temeva che questi lo incolpasse dell’accaduto. Oltrepassati i Dementat senza degnarli di un saluto, Rubik – detto il Bestione da quando aveva strangolato i suoi genitori – si fermò solo davanti all’ingresso dei quartieri privati del Barone. E qui trovò ad attenderlo suo fratello minore, Frizzata.

   «Che puzza di merda!» sbottò Rubik, fermandosi davanti al fratello.

   «Parli di me?» chiese Frizzata, divertito.

   «No, parlo di tutto questo lurido pianeta. Avevo scordato quanto fosse vomitevole, ma le prime zaffate me l’hanno ricordato» spiegò il Bestione.

   «Non so di che parli. Qui l’aria è dolce e fragrante... aria di casa!» gongolò Frizzata, inspirando a pieni polmoni l’aria flatulenta. A differenza dei parenti, che erano di corporatura massiccia, il giovane era alto e allampanato. Invece di radersi la testa come gli altri, inoltre, Frizzata aveva lasciato crescere i suoi capelli arancioni, sempre dritti come se avesse ricevuto una scossa elettrica. Abbinati agli occhi spiritati e al ghigno da pervertito, gli davano un’aria folle.

   «Lui è dentro?» chiese Rubik, accennando alla porta.

   «Certo, ti sta aspettando» annuì Frizzata.

   «E... com’è?» chiese il Bestione, non riuscendo a reprimere un fremito.

   «Ah, se lo vedessi... dev’essere sui quattrocento chili, ormai» ridacchiò Frizzata. «Inoltre i suoi eczemi sono peggiorati: è pieno di pustole che trasudano un pus schifoso...».

   «Non mi riferivo alla sua salute, ma al suo umore!» borbottò Rubik. «T’è parso arrabbiato, rassegnato, combattivo...?».

   «E chi lo sa? Sono giorni che non esce dalle sue stanze» rispose Frizzata. «Però si fa continuamente portare hamburger e coca-cola. Secondo me, gli servono per annegare il dolore!». La sua risata somigliò al latrato di un cane, con tanto di lingua fuori.

   «Va beh... entriamo e speriamo bene» disse Rubik, accostandosi all’ingresso.

   «Come sarebbe, entriamo? Ha convocato solo te, Bestione!» gli ricordò Frizzata.

   «E invece verrai anche tu, buono a nulla! Così, se si arrabbia, se la prenderà con entrambi!» ringhiò Rubik. Lo afferrò per il collo, sbatacchiandolo come una marionetta.

   «Okay fratellone, ti seguo a ruota!» rantolò Frizzata. Solo allora fu rilasciato.

   Ancora teso, il fratello maggiore alitò sul lettore dell’ingresso, confermando la sua identità. Il portone corazzato si sollevò cigolando, mostrando un vasto salone semibuio e rimbombante. «Ci sei, zietto? È arrivato Rubik!» esclamò Frizzata, introducendo solo la testa.

   «Ah, bene... che entri!» rispose una voce asmatica.

   I due fratelli entrarono quasi in punta di piedi, a piccoli passi. Videro alcuni inservienti allineati lungo le pareti, in silente attesa, ma dello zio non c’era traccia. E sì che la sua mole non passava inosservata!

   «Là» sussurrò Frizzata, accennando a una grande vasca circolare ricavata nel pavimento. Al suo interno ribolliva una melma calda e puzzolente, di colore marrone.

   «Bene... o è il suo bagno di fango, o il vecchio mostro è annegato nella sua merda» pensò Rubik. Lui e Frizzata si avvicinarono, finché furono proprio sull’orlo della vasca, e si curvarono lievemente in avanti.

   Le bolle aumentarono e un testone calvo fece capolino dal sudiciume. Due occhietti piccoli e avidi, sprofondati tra le pieghe di grasso, si appuntarono su Rubik. «Eccoti qui, ribaldo! Allora, hai completato il ritiro da Arrankis?».

   «Sì, è tutto fatto» confermò l’interpellato. «Ma l’Imperatore non doveva farci questo! Per donarlo ai Formaldeides, poi!».

   «Già, sono certo che i nostri avversari siano compiaciuti della loro fortuna» ansimò il Barone. «Ma sono degli stolti; come sei stolto tu a dolerti della nostra sorte».

   «Come sarebbe?!» fece Rubik, interdetto.

   «Nipote, chiediti questo: quand’è che un dono non è un dono?» lo interrogò il Barone.

   «Io... uhm... non saprei...» borbottò Rubik, che non si aspettava un enigma.

   «Dacci un attimo per pensare. Il primo che risponde sarà il più sveglio!» propose Frizzata, che era in lizza col fratello per la successione al titolo. Rubik infatti lo guardò storto. Non approvava i suoi continui tentativi di apparire più meritevole agli occhi dello zio, anche se a dire il vero aveva ben di rado successo, anzi sortiva spesso l’effetto opposto.

   «Pensateci con comodo. Nel frattempo... ho fame!» tuonò il Barone. Subito un inserviente si fece avanti con un gigantesco hamburger. S’inginocchiò accanto alla vasca, porgendolo ossequiosamente al ciccione, che lo afferrò con le mani ancora fangose e cominciò a sbafarselo.

   «Vediamo... quando ci si aspetta qualcosa in cambio?» propose Frizzata, ansioso di battere il fratello sul tempo.

   «Gnam... no» lo smentì il Barone. Dal suo enorme panino spuntava quello che sembrava, in tutto e per tutto, il grugno di un maiale. Quando lo Scarafonnen gli dette un gran morso, la senape colò abbondante dalle narici.

   «Allora... quando va restituito dopo un certo tempo?» tentò di nuovo Frizzata.

   «Fuochino... ma ancora non ci sei. Munch!» fece il Barone, continuando a sbafarsi l’hamburger.

   «Uhm, vediamo... magari quando...» rimuginò il giovane, con gli occhi strabici e la lingua di fuori per l’insolito sforzo mentale.

   «Quand’è una trappola!» ruggì Rubik, certo di aver indovinato.

   «Ah, vedo che almeno uno dei miei nipoti non ha la zucca completamente vuota!» lo lodò lo zio. «Sì, mio buon Rubik, la cessione di Arrankis non è altro che una trappola ai danni dei Formaldeides. Una trappola ordita dall’Imperatore in persona, che teme il loro crescente potere. Ovviamente ho fatto in modo, nel corso degli anni, di attizzare il suo timore mediante un’accorta campagna di disinformazione. Il risultato è che Sua Maestà ha deciso d’eliminare i Formaldeides dallo scacchiere dell’Impero, ma senza sporcarsi direttamente le mani. Anzi, all’apparenza ha concesso loro il massimo degli onori: la gestione di Arrankis! Ma sarà una gestione impossibile, se tu hai fatto come ti ho ordinato» si rivolse a Rubik.

   «Le raffinerie di Spezia sono sabotate, ma i Formaldeides non ci metteranno molto a ripararle» rispose l’interpellato. «Ho anche predisposto la trappola per il duchino» disse in tono sprezzante, riferendosi a Paul.

   «E se non funzionasse?» si preoccupò Frizzata.

   «Non è indispensabile che funzioni, basta che – slurp – metta i nostri avversari sotto pressione» disse il Barone, terminando d’ingozzarsi.

   «Sono confuso...» cominciò Frizzata.

   «Questo non mi stupisce, nipote».

   «... sabotaggi e attentati non li metteranno sul chi vive?».

   «Certo! Ma proprio per questo si appoggeranno ai loro uomini più fidati... senza sapere che uno di loro è al mio servizio! Muahahahaha-cough-cough!». La risata malefica del Barone echeggiò in tutto il salone, salvo spegnersi in una tosse asmatica. Un servitore gli somministrò prontamente uno spray nasale, permettendogli di riprendere il discorso. «Al momento opportuno, il mio agente disattiverà gli schermi protettivi della capitale. E allora... attaccheremo in forze! Urgh!». Trascinato dall’emozione, lo Scarafonnen – ancora immerso nella vasca – aveva dato un pugno sulla superficie fangosa, col risultato di farsi schizzare la melma in faccia.

   «Wow, che figata!» si emozionò Frizzata. «Chi sarà al comando?».

   «Tuo fratello, naturalmente».

   «Ma...».

   Le proteste del giovane si spensero quando Rubik si fece avanti, per nulla rallegrato dalla prospettiva. «Zio, i Formaldeides avranno sicuramente con sé le loro truppe migliori. E la capitale è fortificata per proteggerla dai Femen. Anche se gli scudi saranno abbassati, sarà una dura battaglia. Dovremo mettere in campo tutte le nostre forze. E supponendo di vincere... come reagirà l’Impero a tutto questo?» si preoccupò.

   «L’Impero, come ti ho detto, è dalla nostra!» assicurò il Barone. «Figurati che Sua Maestà mi ha promesso tre legioni di Sardonen per guidare l’attacco!».

   «I Sardonen!» esclamarono a una voce Rubik e Frizzata, ben conoscendo quei famigerati e crudelissimi guerrieri.

   «Proprio così... il mio agente mi consegnerà il Duca Letonto e i Sardonen faranno polpette del resto» assicurò il Barone, leccandosi le labbra alla parola “polpette”. «Del macello saranno incolpati i Femen, così avremo una scusa per mazziare anche loro. Ci saranno grandi manifestazioni di cordoglio in tutto l’Impero, dopo di che... beh, lo sapete... l’estrazione di Spezia non può fermarsi!» sogghignò. «E poiché i compianti Formaldeides avranno fallito il compito, all’Imperatore non resterà che restituirci il pianeta».

   «Ooohhh... sagace!» esclamò Frizzata, spalancando gli occhi spiritati.

   «Ma sei certo che ci restituirà Arrankis? Non lo attribuirà a qualche altra Casa?» domandò Rubik, ancora sulle spine.

   «Questi sono i patti, e non credo che li tradirà» rispose il Barone. «Gli ho anche promesso un piccolo sconto sulla Spezia... ma non temere! Quando ci saremo sbarazzati dei Formaldeides – e dei Femen – i nostri introiti cresceranno a tal punto che sarà comunque un guadagno. Parlo del venti, anche trenta per cento dei profitti in più!» gongolò il grassone, sguazzando tutto eccitato nel fango.

   «È un piano magnifico, zio» si complimentò Rubik. «Ma il tempo è essenziale, dovendo attaccare prima che i Formaldeides si siano ben fortificati. Comincio subito a radunare le nostre truppe» si offrì.

   «Sì, il buon Porker ti ragguaglierà sui dettagli» convenne il Barone, accennando al capo dei suoi Dementat, che attendeva presso l’uscita.

   «E io che faccio?!» chiese Frizzata, saltellando per l’eccitazione.

   «Tu guarda e impara, se ne sei capace» lo liquidò lo zio. «Dunque, per prima cosa occorre... bah, ho la gola secca per tutto questo parlare. Ehi, voi... ho sete!» ordinò. Un altro inserviente gli si precipitò appresso, consegnandogli un bottiglione di coca-cola provvisto di cannuccia. Era la bevanda preferita del Barone, in accompagnamento ai suoi mastodontici hamburger. Subito lo Scarafonnen prese a ciucciare soddisfatto, mentre i nipoti pregustavano l’imminente rivincita sui rivali Formaldeides.

 

   «Sei sano come un pesce, figliolo» disse il dottor Olé, finendo di tastare Paul.

   «Lo dici sempre» commentò il giovane, irrigidito mentre sopportava il tocco invasivo del medico di famiglia. A volte si chiedeva com’erano le visite mediche prima del Jihad Complottaro, quando i dottori avevano fior di strumenti per diagnosticare le condizioni dei pazienti. «Non come ora, che devono metterci le manacce addosso per percepire i disturbi» si disse.

   «Lo dico perché è vero, ed è un bene» ribatté il medico, ritraendosi. «Su Dune ti aspettano condizioni ambientali tremende, che non hai mai sperimentato. Ti ci vorrà un po’ per acclimatarti... questo vale per tutti noi» ammonì.

   Il buon vecchio Olé era al servizio della famiglia da quando Paul aveva memoria. Sembrava avere sempre la stessa età e lo stesso temperamento pacato. Baffi e pizzetto spiccavano sul volto liscio, mentre i capelli neri erano raccolti in treccine, come previsto dalla Scuola Rasta presso cui aveva studiato. Sulla sua fronte spaziosa spiccava il rombo del Rintronamento Imperiale, segno che era stato condizionato per essere totalmente fedele ai suoi assistiti e per mantenere il segreto professionale. Ora che aveva finito con Paul, cominciò a palpare anche Lady Godiva; come al solito se la prese comoda.

   «Allora, ci diamo una mossa?!» lo sferzò il Duca Letonto, un po’ irritato da quella vista.

   «La signora è in ottime condizioni» garantì il medico, ritraendosi.

   «E allora andiamo; Dune ci aspetta!» disse Letonto. Si avviò con passo deciso, uscendo dallo studio medico. I parenti gli si accodarono e così fece Olé con i suoi assistenti. Il corteo crebbe durante tutto l’attraversamento del palazzo e dei giardini, man mano che collaboratori e servitori vi confluivano. Era ormai una processione quando giunsero sulla pista d’atterraggio, davanti all’astronave d’imbarco. Per quanto fosse lunga un centinaio di metri, non era che una scialuppa per portarli al vero vascello interstellare. Questo attendeva in orbita, non essendo progettato per atterrare.

   «Addio, Calamar!» disse Paul, inspirando per l’ultima volta l’odore d’acciughe del suo mondo natio. L’attimo dopo s’imbarcò con i suoi genitori sulla navicella. In accordo con l’estetica dell’Impero Analogico, questa aveva interni in stile steampunk che avrebbero fatto la felicità del Capitano Nemo. Le pareti avevano bulloni a vista, ovunque c’erano leve e quadranti. I sedili erano foderati di raso rosso e i tondi oblò somigliavano a quelli di un sottomarino. I Formaldeides presero posto nello scomparto VIP – quello con gli oblò vicini all’ala – mentre il resto del corteo proseguiva l’imbarco e il personale dello spazioporto ultimava i preparativi. Per navicelle come quella si usavano ancora propellenti chimici, principalmente azoto e ossigeno, di cui su Calamar non c’era penuria.

   «Le Signorie Vostre sono pregate di allacciare le cinture di sicurezza» disse una voce dall’altoparlante. «Il decollo avverrà tra pochi minuti. Potrebbe venirvi un certo chicchirichì allo stomaco. Se vi sale la nausea, ricordate di usare gli appositi sacchetti. La Gilda Spaziale vi augura buon viaggio».

   «Buon viaggio, con quello che costa!» borbottò il Duca. «Ma quando saremo noi a controllare la Spezia, le cose cambieranno! Oh, se cambieranno!».

   Intanto Godiva aveva estratto uno dei sacchetti e lo mostrava al figlio. «Vedi, tesoro? È questo che devi usare, se dovessi...» cominciò, premurosa come al solito.

   «Mamma, ti prego!» la bloccò Paul. «Sono sopravvissuto al gonad chemmal; sopravvivrò anche al mal di spazio».

   «Sei sopravvissuto a cosa?!» chiese Letonto, cascando dalle nuvole.

   Mentre i Formaldeides bisticciavano, la navicella si sollevò in volo, seguita da altre dello stesso modello. Lasciarono l’atmosfera nebbiosa di Calamar, innalzandosi nello spazio senz’aria, e nel far questo si disposero in una lunga fila. Dal suo sedile, Paul si sporse ansiosamente a guardare fuori dall’oblò. Finalmente la vide: l’imponente Nave Cannolo della Gilda Spaziale. Il nome descriveva già la forma; ma questo cannolo era lungo chilometri e aveva lo scafo blindato.

   «Ooohhh... quant’è lunga?» chiese Paul, rivolto al fedele Tuttfritt, che aveva seguito i padroni in cabina.

   «La Nave Cannolo misura venti chilometri» rispose il Dementat con l’usuale prontezza.

   «Sembra... vissuta» commentò il giovane, notando le scalfitture sullo scafo. «Quant’è antica?».

   «Questo vascello è in servizio da trecento anni» rivelò Tuttfritt.

   «Così tanto?! Speriamo che non sia scassato» mormorò Paul, osservandolo con crescente apprensione.

   «Le navi della Gilda sono longeve. Dopotutto le sole cose davvero importanti sono i razzi di manovra e la tenuta stagna» ricordò il Dementat. «Per il balzo interstellare c’è il Navigatore».

   «Già... non ne ho mai visto uno all’opera» ammise il giovane. «Posso andare a vederlo?» si rivolse al padre.

   «Non è un bello spettacolo, ma se ci tieni...» annuì il Duca.

   Le navi d’imbarco confluirono nell’apertura anteriore, in fila indiana, e si attraccarono alle apposite ganasce. Un breve scossone ed era fatta. Una cinquantina di navicelle si alloggiarono in questo modo, recando con sé l’imponente bagaglio dei Formaldeides: provviste, parti di ricambio e solo da ultimo gli effetti personali. In aggiunta vi era tutto il personale necessario, dagli ingegneri che dovevano far funzionare gli impianti estrattivi alle truppe incaricate della sicurezza, fino a cuochi e domestici. Solo i giardinieri e gli addetti alle imbarcazioni furono lasciati indietro, presumendo che non avrebbero avuto granché da fare su Dune. Nel complesso, era un vero e proprio esodo da un mondo a un altro. Ma giungere in orbita era la parte facile: ora si doveva effettuare il balzo interstellare. E l’unico che poteva trasferire il vascello con tutto il suo contenuto era il Navigatore, grazie ai mistici poteri conferitigli dalla Spezia.

 

   Emozionato, Paul si presentò nella camera del Navigatore. Era un antro spoglio, a eccezione della grande vasca dalle pareti trasparenti che si levava al centro, salendo fin quasi al soffitto. Aveva  forma squadrata, ma con le estremità bombate, ed era irrobustita da listelli metallici. Al suo interno, in un fluido arancione, galleggiava il Navigatore della Gilda.

   Era un brutto sgorbio dalla pelle glabra, con il cranio enorme, gli occhi sporgenti da calamaro e il muso purulento con una specie di becco. Il corpo si allungava all’indietro come quello di un girino, sebbene fossero visibili i minuscoli braccini e le gambette, nient’altro che organi vestigiali. L’insieme era strano e disturbante. Ancor più inquietante era il fatto che quella creatura, pur non potendo dirsi umana, discendeva da esseri umani.

   La Gilda infatti allevava i suoi Navigatori da oltre quattromila anni, selezionando le mutazioni favorevoli indotte dalla Spezia e facendoli incrociare fra loro, fino a creare una nuova specie, le cui immense facoltà mentali erano devolute al viaggio interstellare. Nessuno sapeva esattamente perché si fossero trasformati in lumaconi; forse tendevano a diventare sempre più simili ai Vermoni di Dune, da cui il melange era prodotto. Quale che fosse il motivo, ormai quegli esseri non potevano più vivere al di fuori del loro bagno di Spezia, né sembravano interessati a farlo. Nessuno sapeva realmente fin dove giungessero i loro poteri mentali e le loro facoltà predittive; ma c’era da credere che oltrepassassero persino le Male Gesserit. Con la sola forza di volontà potevano traslare se stessi e l’astronave in qualunque punto dell’Universo, semplicemente convincendosi d’essere già lì. La forza della convinzione era tale che toccava alla realtà piegarsi, per accontentarla. Il difficile era convincere il Navigatore – sballato dalla Spezia – della necessità di recarsi presso un determinato pianeta, piuttosto che altrove. A questo era devoluta la cricca di specialisti della Gilda che in quel momento si affollavano intorno alla vasca, schiamazzando e gesticolando.

   «Avanti, Frank! Mostraci che sei sempre il migliore, portaci ad Arrankis!» esclamò un copilota della Gilda, del tutto umano. Così dicendo indicava uno schermo, su cui campeggiava un’immagine d’archivio di Dune.

   «Devo proprio?» biascicò il Navigatore, la cui voce usciva da un altoparlante collegato alla vasca. «Ci siamo già stati altre volte».

   «Ma questa è la più importante... gli equilibri dell’Impero dipendono da questo viaggio!» insisté il copilota.

   «Al diavolo l’Impero, ho voglia di vedere altri posti! Perché non andiamo a Can-can? Quello almeno è un bel pianeta!» propose il Navigatore.

   «Nooo, ma che dici? C’è troppa burocrazia...!» fece il copilota, asciugandosi il sudore dalla fronte. Ma era troppo tardi: la Nave Cannolo e il suo contenuto furono traslati nell’orbita della capitale imperiale. Sullo schermo principale apparve il mondo azzurro e verde, circondato da un magnifico sistema d’anelli. Un addetto ai sensori si curvò su un pannello di controllo e, avuta la conferma della destinazione, lo riferì ai presenti.

   «Porca Gesserit!» imprecò sottovoce il copilota. «Senti, Frank, ci hai portati in un posto fantastico, ma noi dobbiamo andare a Dune. Ti ricordi? È lì che dobbiamo portare i Formaldeides!».

   «I chi?» fece il Navigatore, colto da amnesia. «Ah sì, i fortunelli! Quel giovane là in fondo è uno di loro, vero? Avvicinati, fatti vedere!» lo invitò.

   Bruscamente chiamato in causa, Paul esitò, mentre tutti gli sguardi si appuntavano su di lui. Allora il copilota gli venne appresso. «Beh, che succede?» chiese il giovane.

   «Succede che il vecchio Frank fa i capricci, come al solito!» sbuffò l’esperto, avendo però cura di parlare sottovoce. «Vorrebbe girare l’Universo, lui, e andare dove gli pare! Il fatto è che, per ogni giro a vuoto, sprechiamo un botto di melange. Quindi, se non vuoi che il prezzo della corsa lieviti, aiutaci a convincerlo!».

   Messo alle strette, Paul non poté esimersi dall’intervenire. Si fece avanti con cautela, osservando il lumacone che galleggiava nel suo brodo con un misto di fascinazione e orrore. Giunto accanto alla vasca, vi picchettò sopra con le dita. «Ehilà, Frank... come va?» chiese, cercando di suonare amichevole.

   «Splendidamente, e a te?» rispose il Navigatore in tono vivace.

   «Oh, non c’è male... però sai, dovremmo proprio andare a Dune» disse il giovane. «Puoi darci uno strappo fin là?».

   «Dune, Dune!» borbottò Frank. «Che ci sarà d’interessante, su Dune? Solo sabbia e vermoni e nomadi misantropi! Ci sono posti molto più interessanti, nel cosmo! E allora perché volete sempre andare lì?».

   «Beh, sai, questo è un viaggio molto importante» cercò di spiegare Paul. «L’Imperatore ci ha dato il pianeta in usufrutto, togliendolo agli Scarafonnen...».

   «Gli Scarafonnen! Se avete dei problemi con loro, perché non li affrontate? Guarda, ti ci porto in un attimo!». Il Navigatore si concentrò, ed ecco, il disco oscuro di Latrina Primo comparve sullo schermo. Immediatamente squillarono gli allarmi.

   «Siamo stati rilevati dalla griglia di difesa planetaria. Stanno lanciando i missili nucleari!» avvertì un addetto.

   «Razzi di manovra, allontaniamoci dall’orbita!» ordinò subito il Capitano. Gli ufficiali corsero da tutte le parti, effettuando operazioni incomprensibili, mentre l’allarme squillava a tutto spiano. «Porca Gesserit!» imprecò Paul, accorgendosi che rischiavano la vita. «Senti Frank, bisogna che ce ne andiamo, e subito!».

   «Ma perché? Non è l’occasione buona per appianare i vostri contrasti?» obiettò il Navigatore.

   «Direi proprio di no. Gli Scarafonnen sono già incacchiati per aver perso Dune; se poi ci presentiamo a casa loro senza preavviso...».

   «Ma insomma, cos’è questo panico? Non conoscete la Litania contro la Paura? Non devo aver paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale...» recitò il lumacone.

   «Senti, noi possiamo anche stare calmissimi, ma quelle testate atomiche ci polverizzeranno lo stesso!» obiettò Paul. «Portaci via di qui, subito!».

   «Okay, non scaldarti. Dunque... dov’è che volevi andare?» chiese Frank, cercando di concentrarsi.

   «Missili in avvicinamento, impatto fra un minuto!» avvertì un ufficiale.

   «Ovunque vuoi, ma non qui!» gracchiò il giovane, sentendosi la pelle d’oca.

   «Okay, tieniti pronto... si parte! Yuppieee!» trillò il Navigatore. L’oscuro mondo industriale svanì dallo schermo e così i missili in volo. Al suo posto apparve un pianeta grigio, ammantato di nubi temporalesche.

   «E adesso dove diavolo siamo capitati?!» si esasperò Paul, rivolgendosi agli ufficiali della Gilda.

   «Si direbbe... Saludos Amigos, il mondo natio della Casa imperiale, nonché base operativa dei Sardonen» rispose l’addetto ai sensori. «Degli intercettori stanno già lasciando la superficie».

   «Groan... se ci abbordano per ispezionarci, ci terranno bloccati per giorni!» si lamentò il Capitano. «Per ogni spillo fuori posto dovremo pagare una multa salatissima. È meglio levarci di torno. E tu, Navigatore dei miei stivali, fa’ il tuo dovere, o ti taglio le razioni di Spezia!» minacciò.

   «Nooo... levami tutto, ma questo no!» si disperò il lumacone. «Non te la prendere, capo, volevo solo giocare un po’... mi annoio così tanto...».

   «Allora senti questa proposta» intervenne Paul, toccando di nuovo le pareti della vasca per attirare la sua attenzione. «Se adesso fai il bravo e ci porti a Dune, avrai doppia razione di melange, che ne dici? Ma se continui a fare i capricci... a letto senza Spezia!».

   «Come volete, sigh. Volevo solo mostrarvi un po’ di cosmo, ma niente, voi avete occhi solo per quella palla di sabbia» si lagnò Frank. «E va bene... se volete Dune, che Dune sia! Spero abbiate preso la crema abbronzante!».

   Mentre il Navigatore parlava, i tecnici della Gilda pomparono un’abbondante dose di Spezia nella sua vasca, per compensare quella che aveva già consumato. Il bagno del lumacone, da giallognolo che era, divenne di un bell’arancione vivo. Gli effetti sulla creatura furono immediati: gli occhi parvero schizzargli dalle orbite, il becco si aprì e richiuse convulsamente. «Yu-huuu! Dovete provarci anche voi, ragazzi!» ululò Frank, dimenando il corpo da girino.

   Il pianeta grigio e piovoso scomparve dallo schermo, come anche gli incursori in avvicinamento. Al suo posto comparve un globo color sabbia, senza particolari segni distintivi. Non c’erano acque superficiali, né foreste, e nemmeno nuvole di vapore acqueo. Vi era solo una distesa arroventata, che andava dal giallo all’arancio, con qualche tocco di bruno nelle zone più rocciose. Una vasta tempesta di sabbia copriva gran parte dell’emisfero meridionale, mentre gli insediamenti erano così piccoli da non essere visibili dallo spazio. Questo era tutto. Tre piccoli satelliti naturali lo contornavano, ma erano rocce informi, del tutto prive d’atmosfera. Così a prima vista poteva sembrare uno dei mondi più poveri e insignificanti dell’Impero, e invece... era la gallina dalle uova d’oro.

   «Casa» si disse Paul, osservandolo rapito. Qualcosa si sommosse in lui, ed ebbe l’inesplicabile certezza che il suo destino sarebbe stato per sempre intrecciato a quello strano mondo.

   «Tutto bene?» chiese il copilota, venendogli a fianco.

   «Sì» rispose il giovane, riscuotendosi dalla contemplazione. «Sento che qui staremo benissimo. Insomma, cosa può andare storto?!» si entusiasmò. Ovviamente erano le ultime parole famose.

 

 

-Commento:

   Come avrete intuito, questo racconto è una parodia di Dune di Frank Herbert. Si basa un po’ sul libro e un po’ sulle due trasposizioni cinematografiche (quella del 1984 e il remake del 2021). Ad essere onesto non sono un grandissimo fan di questa saga, ma dopo la visione del remake mi sono reso conto che si presta benissimo a essere parodiata. Ho deciso di adottare uno stile particolarmente ironico e graffiante; spero che i lettori comprendano l’intento umoristico e non si offendano per certi nomi o per le battute mordaci che i personaggi si scambiano.

   Siccome la storia contiene molti nomi, che naturalmente ho parodiato, ecco uno schema dei nomi originali e della mia versione umoristica, utile a coloro che non hanno familiarità con questa saga.

 

Nomi propri e di famiglia:

Opera originale:

Parodia:

Imperatore Padishah Shaddam IV Corrino

Imperatore Pascià Sofà IV Corrida

Principessa Irulan Corrino

Principessa Iruxol Corrida

Duca Leto Atreides

Duca Letonto Formaldeides

Lady Jessica

Lady Godiva

Paul Atreides, detto Mua’dib

Paul Formaldeides, detto Emo

Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam

Reverenda Madre Gaia Helen Mangiahuom

Thufir Hawat

Tuttfritt Megawatt

Duncan Idaho

Duncan Ohio

Dottor Yueh

Dottor Olé

Barone Vladimir Harkonnen

Barone Vladimir Scarafonnen

Glossu Rabban, detto la Bestia

Rubik Scarafonnen, detto il Bestione

Feyd-Rautha Harkonnen

Frizzata Scarafonnen

Piter de Vries

Piter Porker

Dottor Kynes

Dottor Kinkes

Stilgar

Sticazz

Chani

Cianidrina

Alia Atreides

Aliena Formaldeides

 

Nomi di organizzazioni e rituali:

Opera originale:

Parodia:

Imperium o Landsraad

Impero Analogico

Gilda Spaziale

Gilda Spaziale

Bene Gesserit

Male Gesserit

gom jabbar

gonad chemmal

Sardaukar

Sardonen

Mentat

Dementat o Savant

Fremen

Femen

 

Nomi di pianeti e veicoli:

Opera originale:

Parodia:

Arrakis o Dune

Arrankis o Dune

Kaitain

Can-can

Caladan

Calamar

Giedi Primo

Latrina Primo

Salusa Secundus

Saludos Amigos

Heighliner

Nave Cannolo

Ornitottero

Porcicottero

 

   
 
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