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Autore: IndianaJones25    13/10/2021    2 recensioni
Gli anni sono trascorsi, lenti ma inesorabili. Anche per il professor Henry Jones, Jr. sembra essere giunto il momento di appendere la frusta al chiodo e di dire addio alla vita avventurosa. L’intrepido archeologo giramondo, ormai, è diventato un anziano signore che porta addosso i segni, i dolori e i ricordi dolceamari della sua spericolata vita passata.
Ma c’è ancora chi sembra avere bisogno di lui e Indiana Jones non è certo il tipo da tirarsi indietro dinanzi a una minaccia che potrebbe sconvolgere il mondo intero. Così, in compagnia di sua figlia Katy, di una giovane bibliotecaria e di un prete dal grilletto facile, Indy torna a impugnare la frusta e si getta a capofitto in un’ultima impresa, al cui termine potrebbe trovare la speranza di un nuovo inizio oppure una disastrosa rovina.
La lotta sarà difficile e insidiosa, perché l’ultimo vero nemico di Indiana Jones non saranno eserciti o folli invasati, ma proprio la sua irresistibile voglia di avventura…
Genere: Avventura, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Henry Walton Jones Jr., Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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     1 - La biblioteca
 
    Venezia, Italia, 1984

   La Biblioteca di San Barnaba era tra le più ricche e fornite di tutta la città, forse addirittura di tutta l’Italia settentrionale. Tra i suoi alti scaffali polverosi e le numerose scansie dislocate un po’ ovunque all’interno dell’edificio che un tempo era stato una chiesa, offriva una vastissima scelta di volumi, in grado di coprire tutte le epoche e tutti i campi dello scibile umano. Ma la parte senza dubbio più interessante dell’intera raccolta era costituita dall’archivio in cui erano conservati codici e volumi in pergamena, redatti a mano durante il medioevo.
   Era lì che erano racchiusi i più preziosi tesori, vere e proprie opere d’arte di carta rilegata in pelle.
   Nella luce fioca che filtrava attraverso le strette finestre, lunghi mobili di legno massiccio anneriti dal tempo ospitavano volumi e libri unici nel loro genere. L’odore della polvere si mescolava a quello della carta vecchia e della pergamena, pervadendo l’intero ambiente; e a questi aromi, così tipici per un luogo come quello, di quando in quando se ne mescolavano altri meno consueti, come quello salmastro dell’acqua che scorreva nel canale appena oltre la parete. C’era anche un altro odore, molto più strano ed estraneo: era come se, di quando in quando, dal sottosuolo si levasse un effluvio di petrolio.
   Valerija Bjelica si strinse nelle spalle.
   Doveva essere la sua fervida immaginazione, accesa ancor di più da quel luogo tanto affascinante, a farle sentire cose che non esistevano. Probabilmente la sua era una semplice associazione di idee: giusto la sera prima, dopo essere rientrata dalla cena ed essersi sdraiata sul letto della sua stanza in albergo, aveva acceso il televisore e aveva visto al notiziario un servizio in cui veniva sostenuta l’ipotesi che, gli avvistamenti di UFO avvenuti sull’Adriatico negli ultimi sei anni, non fossero altro che eventi legati alla presenza sottomarina di pozzi petroliferi. Si era addormentata davanti allo schermo ancora acceso, spossata per aver viaggiato tutto il giorno con numerosi cambi di treno, e così quelle informazioni dovevano aver continuato a penetrare dentro di lei. Anche se aveva creduto di non aver dato troppo peso alla cosa, evidentemente le era rimasta impressa, dato che stava vivendo l’assurda sensazione di sentire odore di petrolio persino lì, in biblioteca.
   In ogni caso, non era per il petrolio, né tantomeno per un’idiozia come i dischi volanti, che aveva varcato il confine, aveva attraversato Trieste ed era venuta a Venezia. Le era stata affidato un incarico molto importante e si sarebbe dovuta concentrare esclusivamente su quello, senza lasciarsi distrarre da nulla.
   Proprio per questo, dopo aver camminato per ponti e calli, sorridendo ai canti dei gondolieri e alle strilla dei mercanti che vendevano pesce alle bancarelle, accompagnata dai profumi tipici della città immersa nella laguna veneta e dal tiepido calore del sole autunnale, aveva raggiunto la biblioteca.
   Dopo aver scambiato poche parole con il bibliotecario – un tizio occhialuto alto, magro, pelato e con i baffi, che assomigliava in modo impressionante al Mahatma Gandhi, che la giovane aveva sorpreso tutto impegnato a timbrare le prime pagine di alcuni volumi – era passata in fretta davanti alla vetrata accanto a cui svettavano le colonne condotte lì dopo il sacco di Bisanzio, ed era entrata nell’archivio.
   Solo che, una volta lì, si era trovata davanti a una difficoltà in apparenza insormontabile.
   La biondissima Valerija, con i capelli raccolti in una treccia che le ricadeva sulla spalla sinistra, raggiungeva a stento il metro e cinquanta di altezza; anche allungando il braccio fino a correre il rischio di slogarsi un muscolo, non sarebbe mai riuscita a raggiungere la scansia più alta, dove era riposto il libro che le interessava. Di certo non poteva mettersi a saltellare per sperare di raggiungerlo. Prima di andare a disturbare Gandhi, distogliendolo dal suo timbro, provò a guardarsi attorno, cercando una scaletta che l’aiutasse a salire più in alto, ma non sembrava essercene traccia.
   Rassegnata a dover fare una misera figura, si avvicinò a un tavolo e raccattò una sedia per issarsi al di sopra.
   Per fortuna, nell’ala semibuia, oltre a lei c’era soltanto un anziano signore vestito con un completo marrone di velluto a coste, elegante anche se lievemente liso, la barba bianca e fluente e un paio di occhiali da lettura in bilico sul naso, chino sopra un antico codice miniato di fianco al quale era appoggiato un cappello di feltro marrone. L’uomo era assorto nella lettura e non pareva per niente interessato ad alzare gli occhi contornati da una ragnatela di rughe per scoprire che cosa volesse combinare la ragazza con una sedia.
   Valerija afferrò lo scranno per lo schienale e, barcollando un poco a causa del peso, lo trasportò attraverso la stanza fino ad avvicinarlo allo scaffale. Finalmente, anche se con qualche difficoltà a causa della stretta gonnella che le rendeva difficoltosi certi movimenti, poté mettersi in piedi per prendere ciò che le serviva. Anche così, però, il libro restava testardamente fuori dalla sua portata. Si sollevò sulle punte, senza nemmeno domandarsi cosa sarebbe successo se, perdendo l’equilibrio, fosse caduta proprio contro la libreria.
   «Serve aiuto?» domandò una voce femminile lievemente roca, parlando un italiano dal forte accento americano.
   La giovane abbassò gli occhi e si sentì arrossire fino all’attaccatura dei capelli.
   Una ragazza che doveva avere suppergiù la sua età, sui venticinque anni, abbastanza magrolina e parecchio abbronzata, la osservava dal basso, sbucata da dietro chissà quale porta o dall’angolo di qualche altro scaffale. I suoi occhi verdeazzurro, sottolineati da un buon tratto di matita scura, la scrutavano con la medesima ironia che le incurvava le labbra dipinte da un rossetto scurissimo. Teneva le mani appoggiate ai fianchi, coperti da un giubbotto chiodo di pelle nera pieno di borchie, su cui ricadevano i lunghi capelli corvini, molto lucidi e decisamente spettinati. E il nero doveva essere il suo colore preferito, almeno a giudicare dai pantaloni di pelle e dagli anfibi di cuoio – che la facevano sembrare molto più alta e slanciata di quanto non fosse veramente – della medesima tinta.
   «Bisogno di aiuto, tappetto?» ripeté la ragazza, facendo scorrere lo sguardo – parecchio interessato – su tutto il florido corpo di Valerija.
   A quest’ultima si imporporarono ulteriormente le gote. Non era abituata a lasciarsi prendere in giro in quella maniera… specialmente, non da un’americana vestita come un becchino e che non doveva superarla in altezza se non per una decina di centimetri. E, soprattutto, non era avvezza a essere guardata in quella maniera da un uomo, figurarsi da una donna!
   «Hvala, ne! Ja to radim sam!» replicò nella sua lingua, sperando che bastasse a togliersi di torno quell’importuna.
   Si voltò di nuovo e ricominciò a contorcersi nel tentativo di allungarsi verso l’alto. Ebbe la sgradita sensazione che gli occhi dell’americana adesso le stessero guardando il fondoschiena. Mannaggia a lei quando, quella mattina, aveva indossato solo un tailleur blu dalla giacca piuttosto corta, anziché il suo solito cappotto lungo fino alle ginocchia. Resistette alla tentazione di controllare che almeno la gonna non le si fosse sollevata più del dovuto. Deglutì, sperando che fosse soltanto immaginazione, e moltiplicò i suoi sforzi per raggiungere il libro.
   Ma se aveva sperato di sbarazzarsi di quell’impertinente, si sbagliava di grosso. Quella, infatti, rispose in un croato perfetto, con accento allegro: «A me sembra invece che tu abbia davvero bisogno di aiuto!»
   Possibile che si fosse imbattuta non solo in un’impicciona, ma pure poliglotta?
   Senza attendere una sua risposta, la ragazza vestita di pelle spiccò un balzo atletico e salì accanto a lei sulla sedia. Nel muoversi, fece tintinnare le collanine e i braccialetti che aveva addosso, nascosti sotto il giubbotto. Per la sorpresa, Valerija rischiò di cadere all’indietro, ma l’altra l’afferrò senza ritegno, passandole il braccio sinistro  attorno alla vita e trattenendola.
   «Eh… ehi…!» balbettò la giovane croata, sentendosi andare letteralmente a fuoco.
   Fingendo di ignorare il suo imbarazzo e continuando a stringerla, come se abbracciare una perfetta sconosciuta fosse la cosa più normale del mondo, l’americana inspirò un paio di volte, quasi che stesse valutando il profumo alla vaniglia di Valerija; quindi allungò il braccio destro e afferrò il grosso libro rilegato in cuoio amaranto che lei aveva cercato inutilmente di prendere.
   «Ecco qua» disse, porgendoglielo con un sorriso che risplendette a pochi centimetri dal suo viso ancora in fiamme. «È questo che volevi, vero?»
   Suo malgrado, Valerija si scoprì a sorridere a sua volta. Fece per mormorare un ringraziamento, ma non riuscì a pronunciare una sola sillaba che risuonò una voce profonda e cavernosa, parecchio scorbutica.
   «Per la miseria, Katy! Cosa ci fai in piedi su quella sedia?! Smettila di giocare alla bella statuina e vieni a darmi una mano!»
   Entrambe si volsero verso il vecchio seduto al tavolo, che aveva sfilato gli occhiali da lettura e le fissava con sguardo arcigno attraverso la stanza. I suoi occhi parvero balenare nella semioscurità e i bagliori che penetravano da una finestrella facevano risplendere il candore della sua barba lunga.
   «Lo so che sembra il nonno di mio nonno e che potrebbe essere nato prima del Diluvio Universale, a vederlo così» bofonchiò la ragazza di nome Katy, parlando all’orecchio di Valerija, «e suppergiù non credo che ci si sbaglierebbe, come datazione geologica. Credo che abbia tirato la coda a un dinosauro, quando ha raggiunto la mezza età. Ma giuro che è sul serio mio padre.» Poi, alzata la voce, replicò: «Arrivo subito, Old J!»
   «E non chiamarmi in quella maniera!» brontolò il vecchio, inforcando di nuovo gli occhiali e ricacciando lo sguardo sul codice miniato.
   «Be’, ecco qua» riprese la ragazza, porgendo il libro a Valerija, che lo strinse tra le mani. «Come avrai capito, io sono Katy. Katy Jones.»
   «Valerija Bjelica» replicò lei, senza capire come mai stesse diventando sempre più rossa e sentisse quello strano calore infonderle tutto il corpo. Forse era perché il braccio dell’americana non l’aveva ancora lasciata andare.
   «Piacere di averti dato una mano, Valerija» rispose Katy. Il modo in cui pronunciò il suo nome parve una stilla di miele fatta parola. Sfilò il braccio e balzò all’indietro, scendendo dalla sedia con vera grazia. Le rivolse un occhiolino di complicità, poi si incamminò verso il tavolo dove sedeva suo padre.
   Valerija, nonostante la sorpresa e l’imbarazzo, non riuscì a fare a meno di restare imbambolata a contemplarla finché non si fu accomodata. Doveva riconoscere che il modo in cui ondeggiavano i suoi pantaloni di pelle a ogni singolo movimento del suo corpo snello e aggraziato non era affatto un brutto spettacolo.
   Si riscosse all’improvviso. Che diavolo stava facendo? In piedi sopra una sedia, con un antico libro stretto tra le mani, nel mezzo di una biblioteca, che osservava l’ancheggiare di una ragazza un po’ troppo intraprendente. Doveva tornare in sé.
   Scese dalla sedia e si guardò attorno, per andare a posare il libro sopra un tavolo sufficientemente lontano da quello a cui sedevano Katy e suo padre.

 
* * *

   «Hai visto che bella, papà?» bisbigliò Katy, protendendosi verso il vecchio da sopra il tavolo.
   Indiana Jones alzò gli occhi e scrutò per un momento la ragazzina ancora in piedi sulla sedia. Tornò a concentrarsi sul codice.
   «Ho smesso da un po’ di pormi problemi di questo tipo» bofonchiò. Nonostante tutto, il suo sguardo si sollevò un’altra volta a studiare le morbide forme della ragazza che si allontanava. Lo abbassò di nuovo. «Io ho occhi per due sole donne, ormai. E una sei tu.»
   «E l’altra è la mamma, lo so bene» rispose Katy, sorridendo. «Però un giudizio estetico lo saprai ancora dare, no?»
   L’occhiata di Indy si volse per la terza volta a osservare la giovane che si accomodava a un altro tavolo.
   «Ha delle belle movenze e il fatto di essere così piccoletta di statura la rende ancora più carina» concesse, con un grugnito. «Ma se hai intenzione di provarci anche con quella bambolina» e qui Jones sottolineò il concetto concentrando lo sguardo penetrante sulla figlia, «io non voglio averci proprio nulla a che fare. L’ultima volta che mi hai messo in mezzo in una delle tue scappatelle, mi sono trovato addosso un ragazzotto di campagna inferocito che mi accusava di volergli insidiare la sua promessa sposa.» Assunse un tono fintamente indignato. «Io, insidiare la sua sposina! Alla mia età! È arrivato con quindici anni di ritardo!»
   Katy dovette premersi il pugno chiuso sulla bocca per soffocare una risata.
   «E io come potevo sapere che Grace doveva sposarsi proprio il giorno dopo?» biascicò, con le lacrime agli occhi.
   «Non potevi saperlo, va bene» ammise Indy. «Ma potevi almeno immaginare che, portandola in camera mia, avresti creato guai a me! Ho dovuto fare a pugni con un contadinotto di trent’anni, senza contare che poi sono arrivati anche il padre e il fratello della sposa! Tutti a dirmi che io mi ero portato a letto la loro onorata figlia, sorella, fidanzata, e che un’onta del genere andava lavata subito nel sangue!»
   «Be’, quella è gente sempliciotta e tradizionale, contadini del Tennessee molto all’antica, non potevano minimamente sospettare che a Grace piacessero anche le ragazze» ridacchiò Katy. «Non è nella loro mentalità, capisci?»
   «Sì, però tu e la tua Grace avreste potuto dirlo prima che iniziassimo a menarci, anziché aspettare così a lungo prima di far aprire la mente di quei tipi là!» grugnì Indy, scuotendo la testa e riabbassando lo sguardo al libro.
   «Suvvia, Old J, che ci siamo divertiti!» trillò la ragazza, allungandosi di nuovo sul tavolo per battergli una manata sull’avambraccio.
   «Tu e Grace di sicuro!» borbottò il vecchio. «Io, invece, ho avuto uno zigomo nero per un mese!»
   «Quante storie! Ha ragione la mamma, quando dice che più invecchi e più diventi brontolone!»
   «Lascia perdere la mamma, ché con quella storia stava impazzendo» grugnì Indy, con una smorfia. «Perché a un certo punto si era messa in testa pure lei che me la fossi davvero portata a letto io, quella Grace…»
   Katy fece un ampio sorriso.
   «Sono riuscita a spiegarle la situazione prima che ti fracassasse quell’autentico vaso Ming sulla testa, no?» lo rabbonì, dandogli un’altra pacca sul braccio.
   «E stai ferma una buona volta con quella brutta manaccia, Katy! Mi fai male!» si lamentò lui.
   «Ohhh, ma che lagna, Old J!» ridacchiò lei. Poi, prima che il padre avesse avuto modo di replicare, indicò il libro. «Allora, l’hai trovata? È quello giusto?»
   Jones annuì pensosamente e osservò le pagine che aveva aperte innanzi a sé, corredate da due miniature che sembravano raffigurare un guerriero colto nell’atto in cui scagliava una freccia verso un vasto mare solcato da grandi onde spumose, al di sotto di un cielo cupo.
   «Sì, la leggenda è narrata tutta qui» grugnì, picchiettando il dito sulla pergamena ingiallita. «Tuttavia, non credo che ci sia un vero fondo di verità, in questa storia. A mio avviso, si tratta soltanto di una favola della buonanotte, nulla di più.»
   La ragazza fece un sorriso indulgente.
   Conosceva bene lo scetticismo di suo padre, sia per averlo frequentato a lungo, sia per i racconti che gliene avevano fatto sua madre e i vecchi amici. Anzi, era proprio perché si era appassionata tanta alle imprese di Old J, che aveva scelto di percorrere le sue stesse orme e diventare a sua volta archeologa.
   Non era mai stata una studentessa modello e aveva strappato risultati minimi agli esami; aveva sempre preferito andare ai concerti di Joan Jett, la sua cantante preferita, e strimpellare a casaccio la chitarra elettrica fingendo di essere lei  – con il solo risultato di far scappare con le mani sulle orecchie e un’espressione orripilata dipinta in viso chiunque avesse attorno in quel momento – oppure divertirsi fino all’alba con i suoi amici girovagando per tutti i locali aperti, e dormire poi fino al tardo pomeriggio, piuttosto che starsene troppe ore china sui libri. Ma ciò che contava era il risultato finale: si era laureata da ormai quasi due anni e, da quel giorno, aveva visitato diversi scavi archeologici in tutto il mondo, sia da sola sia accompagnata dal padre che, seppure ormai molto avanti con gli anni, non era per niente intenzionato ad andare in pensione.
   Le era persino stato proposto un impiego quale assistente del docente di archeologia, all’Università di Chicago: avrebbe insegnato come sostituito del docente quando lui non fosse stato presente a lezione e, un giorno, dopo diversi anni di apprendistato, ne avrebbe preso il posto, assumendo così la cattedra che era stata di suo nonno, il professor Abner Ravenwood. Per il momento, però, aveva declinato l’offerta: si sentiva uno spirito libero e ribelle e non aveva nessuna voglia di andare a seppellirsi in un’aula e in un vecchio studio. Era fatta per gironzolare in cerca di avventure, lei, non per fossilizzarsi davanti a una lavagna. Inoltre, si riteneva ancora eccessivamente giovane per andare a tenere lezioni davanti a ragazzi e ragazze che avrebbero avuto quasi la sua stessa età.
   «Dici sempre così, Old J, e poi il fondo di verità salta sempre fuori, altro che favole della buonanotte» gli ricordò, dandosi una manata alla fronte per allontanare una ciocca ribelle che le era scivolata davanti agli occhi.
   «Può essere, come può non essere» grugnì lui, accarezzandosi la barba. «Ci devo riflettere. Quella facilona di tua cognata fa presto a parlare.» Atteggiò le faccia a una smorfia e cominciò a dire, in falsetto: «“Dottor Jones, per favore, ci sarebbe questa cosa che starebbe bene nel museo, perché non va dall’altra parte del mondo a vedere di recuperarla?”» Riassunse il suo tono solito, profondo e brusco. «Ci mette un attimo, lei! Tanto quello che deve sorbirsi le rogne sono sempre io, alla fine!»
   Sul volto di Katy il sorriso si distese ancora di più.
   Sua cognata, Manuela Pilar, era la moglie di suo fratello Mutt, nonché la madre dei suoi tre nipotini. Indy stravedeva per quei piccoletti che gli si arrampicavano sulle gambe e gli tiravano la barba, quando rimaneva mesi senza radersi e la faceva crescere lunga, proprio come in questo periodo; e, anche se cercava di non darlo a vedere, era il più emozionato della famiglia per la nuova gravidanza della nuora. Manuela, però, era anche stata la curatrice del museo del Marshall College di Bedford, nel Connecticut; poi, da quando lei e il marito si erano trasferiti in California, aveva assunto lo stesso incarico al Museo Nazionale di San Francisco. Ogni tanto, quindi, non mancava di domandare al suocero – e, da quando si era laureata, anche alla cognata – di compiere qualche recupero archeologico per arricchire le teche del museo.
   Katy, naturalmente, era sempre entusiasta di partire per una nuova impresa; Indy, invece, ogni volta brontolava di essere ormai troppo vecchio, stanco e logorato per fare ancora quel genere di cose. Tutti i suoi brontolii e i suoi rimbrotti, tuttavia, portavano sempre al medesimo risultato, immancabilmente.
   «Manuela farà anche presto a parlare, però eccoti qui, un’altra volta all’opera per darle una mano» lo prese in giro Katy.
   «Tua madre si era messa in testa di fare le pulizie di primavera, anche se siamo in ottobre» si giustificò Indy, con una smorfia. «Se non fossi scappato, mi sarei trovato con una ramazza in mano, e magari mi avrebbe anche obbligato a spolverare tutti i cimeli che ho accumulato nel mio studio.» Inorridì al solo pensiero di dover spostare e pulire tutta quell’immensa catasta di roba, così vasta che non sapeva nemmeno lui di quanti e quali pezzi fosse composta con esattezza. «Partire per cercare quella freccia mi sembrava il male minore.»
   Si guardò attorno, con aria improvvisamente trasognata, e parve ricordarsi di qualcosa di importante che non aveva ancora detto.
   «E poi, questa biblioteca, mi riporta con la memoria all’inizio di una delle mie avventure più strepitose. Avevo proprio voglia di rivederla. Fu proprio qui, sai, che io scoprii un indizio fondamentale per trovare il Santo Graal. In verità, fu tutto merito di mio padre… tuo nonno… e fu grazie a quella vicenda che poi ci riconciliammo.» Il suo sguardo si fece malinconico, quasi acquoso. «A volte vorrei averlo fatto molto prima. Ci sono tantissime cose che avrei voluto condividere con lui, e il tempo sembra passato troppo in fretta…»
   Katy sorrise di nuovo. Questa volta, però, le sue labbra non assunsero il solito atteggiamento strafottente, ma si aprirono in un vero sorriso, colmo di dolcezza. Succedeva di rado che suo padre si lasciasse andare ai ricordi o alla malinconia; quando capitava, però, si rammentava di quanto gli volesse bene e di quanto si sentisse profondamente legata a lui.
   Indiana Jones si riscosse all’improvviso e tornò a puntare lo sguardo sul codice.
   «In ogni caso, qui c’è scritta la storia che interessa a tua cognata. Se ci teneva tanto, poteva anche venire a leggersela da sola…»
   «Papà, smettila!» lo rimproverò Katy. «Manuela è al settimo mese di gravidanza, lo sai benissimo! Non può certo andarsene in giro per il mondo come se nulla fosse!»
   Quella semplice informazione rabbonì il vecchio, che sorrise da sotto la barba bianca. Ogni volta che si rammentava di essere nonno, lo spirito gli si riempiva di amore.
   «È vero, è vero» bofonchiò. «Dunque… allora, guarda qui…»
   Spinse il codice verso la figlia, che lo contemplò senza però riuscire a capire una sola parola di quello che vi stava scritto sopra. Riconobbe le lettere e le decifrò, ma non fu in grado di attribuirvi un significato. Aveva già studiato numerose lingue, perché suo padre l’aveva asfissiata fin da piccolissima dicendo che la conoscenza di altri idiomi è tutto, ma questa non la conosceva ancora.
   «Che cosa dice?» domandò, facendo scorrere il dito sotto i caratteri cirillici.
   «È scritto in bulgaro» la informò Indy, «e, come eravamo convinti, offre diverse informazioni interessanti riguardo alla freccia di Bogatyr…»
   Un grido acuto e improvviso lo interruppe. Padre e figlia si guardarono attorno smarriti, cercando la fonte di quell’urlo. Colta da un presentimento improvviso, Katy si volse verso il tavolo dove si era diretta Valerija, ma la ragazza che aveva conosciuto poco prima non era più al suo posto.
   Con uno scatto, balzò in piedi e si lanciò di corsa verso il locale principale della biblioteca.
   «Katy, aspetta, dove diavolo stai andando…?!» tentò inutilmente di fermarla Indy, allungando un braccio verso di lei.
   Ma sua figlia era già scomparsa oltre la porta dell’archivio.
   
 
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