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Autore: time_wings    13/10/2021    1 recensioni
[AtsuHina]
In una città schiacciata dal silenzio e dal suo grigio, basta una sola nota per accendere un colore. Casualità e forza di volontà si scontrano e forse, se si presta attenzione, si riescono a udire le crepe nel muro.
Una storia in cui, alla fine, il silenzio conta tanto quanto la musica.
Nel mezzo si incontrano frigoriferi quasi-parlanti, errori di numerazione, consegne noiosissime, fotografie, cactus, muraglie cinesi, saggi in incognito, soglie da spazzare e spuma di mare.
Hinata suona il violino e Atsumu fotografa solo quello che gli piace.
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Osamu Miya, Shouyou Hinata, Yachi Hitoka
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota iniziale: La storia che state per leggere oscilla tra accenni alla depressione e stupidità cosmica nell'arco di un rigo. Ci sono accenni anche all'uso eccessivo di alcol, ma non sfociano mai nell'alcolismo. Inoltre, è ambientata durante i mesi più critici dell'emergenza da Coronavirus. Anche se nessuno dei personaggi entra direttamente in contatto col Covid-19, questo (o meglio la situazione) fa da sfondo alla storia (quindi ci sono mascherine, gente che non si tocca, città vuote e solitudine). L'ultima cosa noiosa che mi preme dire è che IN NESSUN MODO (giuro nessuno) questa storia tenta di insultare, offendere, negare e andare contro altre ship. Le uniche volte in cui si fa accenno a qualcosa di simile, le parole e i concetti espressi si riferiscono al contesto di questa AU e al modo in cui si muovono i personaggi in questo caso, NON a una presunta evidenza canonica di mancanza di chimica o incompatibilità. Lo so che adesso sembra un discorso confuso e strano, ma più avanti servirà. Grazie a tutti per aver dato una possibilità a questo buco nero di follia, spero riesca a intrattenervi <3


 

SINONIMI DI VUOTO

 

affrontare l'amore in cinque fasi 





 

Fase 1 - negazione



Questo è l’ufficio del quartiere di Chuo. Siete pregati di rimanere in casa e astenervi dall’uscire.

Quello era il regno di nessuno.
Una specie di apocalisse che si svegliava, una calamità che, ogni giorno alla stessa ora, come se qualcuno le avesse dato appuntamento, si presentava intransigente e leale.
Mille grazie, eh.
Ogni mattina e ogni pomeriggio, gli altoparlanti strillavano a tutto il suo quartiere che il Giappone era in stato d’emergenza, per via della pandemia, e Atsumu ascoltava la voce grigia e puntuale rimbalzare tra i palazzi, chiedendosi unicamente perché cazzo parlasse in inglese. L’eco degli altoparlanti vicini dava l’idea che il mondo fosse rimasto sospeso su un fil di ferro e fosse semplicemente destinato a cadere, l’unica curiosità restava capire su quale lato.
Atsumu sospirò e si lasciò scappare una bestemmia sottile e innocente, guardando i cocci della sua tazza sparsi sul pavimento della cucina, dell’idea di cucina, del buco nel muro in cui avevano fatto entrare un frigorifero e un fornello, quel tipo di cucina.
Ora ne prendo uno, soppesò Atsumu, inclinando il viso su un lato mentre valutava il profilo tagliente di uno dei pezzi di ceramica. Ora ne prendo uno e me lo ficco in un occhio. Fallo. Fallo, avanti, stronzo, che stai aspettando?
Raccolse i cocci della tazza, anche quel bastardo finito sotto i piedini del fornello, poi li gettò nella spazzatura. Aprì il piccolo mobile a muro, pescò un’altra tazza dalla mensola e se la riempì di caffè. Ci mise un po’ di latte, perché tanto viveva da solo e sapeva che nessuno poteva vederlo e dargli dello sfigato, poi attraversò il corridoio e abbandonò la sua unica tazza sullo spigolo del suo unico tavolo: una scrivania.
Con un sospiro, si lasciò cadere sull’unica sedia lì accanto.
Le veneziane erano ancora abbassate, ma, se non lo potevano essere le persone, a quell’ora il mondo era già frenetico e seguiva l’arco del sole. Un arco che a quel punto aveva allineato le sue frecce perchè si infilassero nelle strisce vuote delle veneziane.
Uno di quei raggi gli colpì una guancia e il suo calore si espanse pigro sulla pelle attorno. Atsumu accartocciò il viso come se l’avesse colpito nell’occhio.
Se quello significava essere baciato dal sole allora non lo voleva. Non faceva per lui. No, grazie. Niente baci, niente carezze, ho un po’ di tosse, hai capito che guaio che diventa, se è covid? Si sarebbe comportato a riguardo esattamente come aveva fatto con le amiche di sua nonna durante l’infanzia: scappando dai loro pizzicotti sotto il mento e sgusciando via dalle carezze violente che sembravano volergli strappare i capelli.
Voltò la testa pigramente verso l’altro lato della casa e lanciò un’occhiata di sfida al frigorifero, in fondo al corridoio. Il frigorifero ricambiò indifferente. Atsumu aggrottò le sopracciglia e lo osservò più intensamente, come a costringerlo a ribattere.
Il frigorifero era un tipo banale. Banale era un modo stravagante per dire che era vuoto. Il frigorifero era vuoto. Forse c’era una carota, dell’insalata annerita e un pomodoro. Forse c’era anche una confezione da sei di birre. Forse, tra una mezz’ora, se si fosse alzato per accertarsene avrebbe potuto premiarsi stappandone una.
Si alzò e, invece di derubare il frigorifero che piangeva, si lasciò cadere sul letto, sulla parete di fronte.
Erano le otto del mattino, comunque.
Alle otto del mattino aveva sempre luogo questo rituale. Atsumu si svegliava qualche minuto prima degli altoparlanti, perché il suo ciclo del sonno si era abituato a quella trapanata mattutina.
Lo sapeva, che non poteva uscire. Gli era molto chiaro, veramente. Gli era così chiaro che anche se la voce diceva che era invitato a non uscire, sapeva che in realtà non doveva farlo. Visto? Anche perspicace, un ragazzo dall
onnicomprensiva gamma di talenti.
Un paio di questioni che potrebbero esservi sfuggite.
Gli era rimasta una sola tazza perché le metteva tutte sull’orlo della scrivania. La scienza si sta ancora chiedendo per qualche motivo. Inoltre, contemplava l’idea di bere una birra entro le nove del mattino perché stava perdendo la testa.
Ora, Atsumu non era un alcolizzato. Aveva bevuto solo quattro giorni prima, tre giorni prima, due giorni prima, il giorno prima e intendeva farlo anche quel giorno. Non aveva abbastanza cronologia ed esperienza per essere un alcolizzato, ma forse era sulla buona strada.
Tornò a guardare la scrivania. La striscia di luce che prima gli aveva colpito una guancia si era spostata impercettibilmente. Era una consapevolezza sottile, vicina a un’idea, fatta della stessa consistenza dei segreti, eppure non ne prendeva il nome perché era insignificante. Però Atsumu sapeva che, se si fosse seduto e si fosse messo nella stessa posizione in cui si trovava prima, la luce l’avrebbe invece accecato, forse soltanto perché ne aveva rifiutato il bacio.
Quindi desistette dal passare altre trentadue ore a transitare dal letto alla scrivania e si ingegnò per trovare un modo di rendere anche quel giorno memorabile.
La verità era che esistevano due Atsumu Miya, su quella terra. Quello che usciva di casa ed era avvenente, sicuro, affilato come un coltello che si comprava unicamente per estetica. Quello beffardo, fortunato e generalmente migliore di te, dove ‘te’ rappresentava l’intera popolazione mondiale. L’altro era quello che diventava quando era a casa ed era solo. Quell’anima effervescente veniva lasciata sulla soglia della porta come un ombrello bagnato.
Spuma di mare.
Respirò quel vuoto e la voglia che gli faceva venire di mettersi a urlare.
In quella casa non abitava alcun rumore. Se il silenzio squillava, a volte fischiava, quella era assenza di suono. Come quella che si propagava prima dello scoppio di una bomba, quella che si imponeva quando qualcuno metteva il mondo in pausa, quella che si sperimentava quando si usciva di colpo dal martellare dei bassi di una discoteca.
Mentre Atsumu pensava alla sua miseria (bello, eh?) e alla maniera evidentemente inefficace con cui superava il dolore, scivolò nuovamente nel sonno.
 

Un suono ripetuto e irritante, blu scuro, si diffuse nella stanza. Sembrava permearla, farsi assorbire dalle pareti. In realtà era solo che Atsumu viveva in un buco.
Grugnì esausto e localizzò la fonte del disturbo, ovvero il cellulare sulla pila di libri che faceva da comodino. Lasciò cadere una mano alla sua destra e, con gli occhi ancora chiusi, si sdraiò supino, portando il cellulare all’orecchio.
“‘Samu” disse, senza leggere il nome sullo schermo. Lo chiamò come se avesse risposto a una domanda. Chi rende la tua vita un inferno? ‘Samu. Chi ha fatto venire la pandemia? ‘Samu.
“‘Tsumu” rispose lui, con lo stesso tono avvilito, meno le tracce di sonno.
Questa era la maniera abitudinaria e non per questo piacevole con cui iniziavano tutte le loro telefonate. Quando Osamu si rese conto che Atsumu non avrebbe fatto niente per venirgli incontro, si decise a riprendere la parola.
“È mezzogiorno e cinque.”
Atsumu si lasciò scappare un sospiro. Sorpreso? Costernato? Pentito? No, uno annoiato, come se Osamu fosse stato il mostro dei suoi sogni. Allontanò il cellulare dall’orecchio e schiuse un occhio contro la luce accecante dello schermo, mettendo a fuoco. “È mezzogiorno e tre, veramente.”
“Tra due minuti sarà mezzogiorno e cinque e tu sarai in ritardo di venti minuti.”
“Fortuna che sono solo diciotto.” Atsumu sorrise. Non era un sorriso, era una smorfia. Atsumu fece una smorfia.
“‘Tsumu” il tono piatto crepò di nuovo la voce di Osamu, si infilò tra le pieghe e scorticò la tranquillità che aveva messo su. Aveva un suono che variava dal beige all’azzurro pastello e Atsumu aveva imparato a detestarlo e insieme trovarci rifugio e pace.
“‘Samu.”
“Sono tuo fratello, ma sono anche il tuo capo. Il tuo turno iniziava venti minuti fa.”
C’erano due cose che ad Atsumu non piacevano nella voce di suo fratello.
La prima era la maturità, quella specie di saccenza mista a superiorità che quelli di due anni più grandi credevano di potersi permettere da bambini. Quando aveva dieci anni, Atsumu aveva minacciato di picchiare il marmocchio che gli aveva imposto di portargli rispetto, ma Osamu l’aveva trascinato via con un colpetto gentile del gomito e l’aveva portato a sedersi al tavolo in fondo alla mensa. Osamu continuava a guardarsi attorno, seccato e insieme teso. Atsumu aveva ignorato gli sguardi ostili dei compagni, che avevano deciso immediatamente che era antipatico.
“Ti odiano” gli aveva fatto notare suo fratello, sollevando un sopracciglio e guardandolo come se un po’ l’avesse odiato anche lui, ma non avesse potuto concedersi il lusso di farlo del tutto.
“Non m’importa” aveva risposto Atsumu, scrollando le spalle e cacciandosi un cucchiaio di riso in bocca.
Se Atsumu non sopportava quell’atteggiamento in un compagno di classe più grande, di certo non l’avrebbe accettato in suo fratello. Suo fratello gemello, di qualche attimo più piccolo.
La seconda cosa che ad Atsumu non piaceva del tono di Osamu era che avesse ragione.
“Oggi sono malato” rispose semplicemente, tirando un filo dal suo copriletto e guardandolo spezzarsi a metà strada.
“Ieri ti sei ubriacato.”
“Vero, ma che c’entra col fatto che oggi sono malato? Mi sento malissimo, ‘Samu. E se lo mischio a qualcuno? E se fosse...”
Un sospiro viaggiò dal ristorante di Osamu e raggiunse l’orecchio di Atsumu. “Hai cinque minuti per venire qui” concesse infine, il tono misericordioso non fece saltare i nervi ad Atsumu, li fece direttamente roteare.
“Se poi ti chiudono il ristorante è un problema tuo.”
Per la cronaca, Atsumu non era malato, era solo un portento a mentire a tutti quelli che non si chiamavano ‘Samu.
“I tuoi cinque minuti stanno già diventando quattro. Se sfori prendo una mancia per ogni minuto di ritardo.”
Atsumu si alzò di malavoglia e iniziò a cercare un paio di pantaloni nell
incubo di vestiti abbandonato in un angolo della stanza. “Non puoi farlo! Non è professionale.”
“Non venirmi a parlare di professionalità.”
“Senza di me saresti perso” gli fece notare Atsumu, incastrando il telefono tra la spalla e l’orecchio, mentre si vestiva.
“E tu dormiresti per strada.”
“Va’ a farti fottere.” Atsumu si sfilò il cellulare dall’orecchio e riagganciò in tempo per sentire suo fratello ribattere: “Credimi, di questi tempi non vedo l’ora.”
Poi fu di nuovo solo.
Il silenzio riprese a fare quei suoi giri vorticanti, come spire di serpente. Si avvolse, sempre più stretto, con l’intento di soffocarlo.
Scivolò con i piedi nelle scarpe, afferrò le chiavi dal gancio alla parete ed ebbe l’impressione che non tintinnassero. Poi abbassò la maniglia della porta e si preparò all’apocalisse.
 
 
Due furgoncini campeggiavano come carrozze sulla strada. Questa era la triste e sfrenata realtà del quartiere studentesco. Gente che veniva, gente che se ne andava. Gente che partiva, ma solo per un anno di studio in America. Gente che sbatteva il portone e non tornava più. Gente che strillava ‘basta! Abbiamo chiuso!’ e la notte successiva gemeva come indemoniata dall’altro lato del muro di Atsumu. Gente. Un via vai di persone che uno crederebbe placarsi, con l’avvento di una pandemia, e che al contrario approfittavano della fase transitoria delle prime fasi dello stato d’emergenza per scappare dagli appartamenti universitari e studiare da remoto nelle loro case d’infanzia, sparse per il Giappone, per tagliare così i costi dell’affitto.
Atsumu aveva pensato di tornare nel Kansai e salutare Tokyo per un po’, ma non l’aveva fatto. Tornare indietro significava chiudersi in schemi inconciliabili con il suo nuovo modo di vivere. Significava vagare come un fantasma tra mura che non lo conoscevano più. Significava rischiare e significava anche stare a cinquecento chilometri da Osamu, ma questo non ditelo a nessuno.
Atsumu pensava a questo e altri grattacapi, osservando distrattamente i traslocatori caricare e scaricare cartoni, quando all’improvviso qualcosa gli colpì un fianco.
“Scusa!” trillò una voce e uno schizzo d’azzurro macchiò il suo campo visivo.
Qualcosa era una persona. Una ragazza, per la precisione. Una ragazza con un nido di rondini in testa.
“Scusami, scusami!” continuò lei, davanti alla confusione sorpresa di Atsumu, inchinandosi profusamente come se, invece che scontrarsi con di lui, gli avesse sottratto le sei birre nel frigorifero. A quel punto fece un salto di due metri indietro (impressionante, se aveste chiesto l’opinione di Atsumu) per mettere tra loro la distanza che avevano perso scontrandosi.
Atsumu le regalò uno dei suoi sorrisi più seducenti, dimenticando di avere la mascherina. Abitudine. “Tranquilla” le disse, stringendosi nelle spalle. Il tono tradiva un retrogusto di beffa. La ragazza lo captò e spostò nervosamente il peso da un piede all’altro. C’era chi si rilassava giocando ai videogiochi, chi si sparava ventisette episodi di una serie TV scadente in una sera, Atsumu Miya si rilassava mettendo a disagio le persone. Non troppo, solo un po’, quel tanto che bastava per rimanere impresso.
La ragazza riguadagnò il suo spirito spumeggiante, sebbene un po’ sfiatato sui bordi. “Vivi qui?” domandò poi, indicando con un pollice l’edificio da cui Atsumu era appena uscito.
Lui si passò una mano tra i capelli e annuì.
“Oh, anch’io!” Sorrise. Si guardarono. Era un modo strano di condurre una conversazione. La ragazza riconobbe che era passato troppo tempo tra la sua ultima frase e quel silenzio. Arrossì furiosamente e mormorò qualcosa, prima di continuare: “Sono appena arrivata qui. Yachi Hitoka” si presentò e si inchinò profondamente.
Atsumu si sarebbe presentato a sua volta se lei non avesse ripreso a parlare in una cascata di nervosismo.
“Lui è il mio amico Shouyou!” continuò, indicando un mandarino intento a parlare con uno degli autisti di un furgone. Parlare era una parola grossa. Aveva entrambe le braccia in aria, come una stella marina, una hostess di volo o un misto di entrambe. A quanto pareva era un modo di comunicare primitivo ma efficientissimo, perché l’autista annuì e si infilò nuovamente nell’abitacolo. Atsumu tornò a prestare attenzione a Yachi mentre continuava una frase diversa da quella che lui aveva sentito per ultima: “... io e lui siamo amici da anni e adesso i nostri appartamenti saranno vicini! Sono al 508 e Shouyou è accanto a me, al 507, so che non puoi venire a trovarci, ma mi farebbe piacere fare amicizia con i vicini, perché ho in programma di restare qui al di là della situazione che stiamo vivendo adesso. Mi rendo conto che è impossibile farsi amici tutti e che, con tutti questi piani, potremmo non essere neanche vicini nel senso proprio del termine! Ma sai...”
Atsumu annuì in quella maniera distratta che generalmente precedeva un congedo. Yachi non aveva voglia di parlare, aveva voglia di stemperare l’imbarazzo sommergendolo di parole, quindi Atsumu decise di risparmiare a entrambi il proseguimento di quella conversazione.
“Ci si vede in giro, allora” la salutò, strizzandole l’occhio. Anche senza occhiolino, in verità, il tono aveva la sfumatura di un’allusione. Atsumu non stava suggerendo proprio niente, a dire la verità.
Era più un istinto.
Era più quella spuma di mare.
Abbandonò Yachi proprio nel momento in cui Shouyou la raggiunse.
Intanto, Atsumu si avviò al parcheggio e constatò che aveva bruciato i suoi cinque minuti.
Be’, pazienza.

 
***
 
“Ci siamo!” gridò Shouyou, non appena ebbe raggiunto Yachi. Una chiave argentata luccicava nel suo pugno stretto come attorno a un premio.
“Entriamo?” domandò lei, anticipazione e stanchezza si agitavano nella sua voce in egual misura.
Hinata fece strada all’interno dell’edificio. “Chi era quello?” domandò con curiosità. Le sopracciglia chiare erano aggrottate come se l’identità del ragazzo con cui aveva parlato Yachi fosse stata una fonte infinita di confusione. La verità non era che era confuso. Carino, aveva pensato invece Shouyou, avvicinandosi affaccendato. Super carino.
“Il vicino” rispose lei, andando verso l’ascensore.
Hinata sgranò gli occhi come se un pugno d’aria gli avesse appena colpito lo stomaco. “Il vicino di appartamento?”
“Ehm” Yachi si lasciò scappare una risata imbarazzata. “Veramente non gli ho dato il tempo di dirmi dove abitasse. Consideralo un vicino di… residenza generica?”
Shouyou esitò con lo sguardo davanti a sé, come se le parole di Yachi avessero avuto una possibilità di avere senso e lui avesse iniziato a cercarla. Infine annuì convinto: l’aveva trovata, Miracolosamente, per giunta, perché non esisteva. “Come si chiama?” domandò a quel punto, gli occhi ridotti a una fessura.
“Ehm,” ripetè Yachi, grattandosi la nuca. “Non mi ha detto neanche questo.”
Hinata annuì come se fosse stato perfettamente normale, per le conversazioni, andare così fuori rotta.
L’ascensore segnalò ai ragazzi la sua presenza con un ding e i due si infilarono all’interno.
Il fatto che Shouyou passasse metà della sua vita a seguire schemi mentali personalissimi e l’altra metà a tentare di sintonizzarsi a quelli degli altri, non significava che fosse stupido. Neanche un po’. Significava solo che nessuno lo capiva. Non aveva fatto tutte quelle domande a Yachi per presentarsi con un sorriso smagliante e dei biscotti fatti in casa alla porta del misterioso vicino e chiedergli senza alcun garbo o pelo sulla lingua quale fosse il suo orientamento sessuale. Avrebbe risparmiato a tutti parecchio tempo e non tamponi, se avesse agito così, ma non era quello il piano. No, lui l’aveva fatto perché voleva starne alla larga. Covid a parte, il vicino era super carino, va bene, ma era uno schiacciatore laterale.
Hinata aveva smesso di giocare a pallavolo al liceo, ma non aveva mai smesso di classificare le persone in base ai ruoli che, secondo lui, avrebbero ricoperto in campo. La gente passava la vita a incasellare gli altri: simpatico, permaloso, vanesio. Lui la passava a fare la stessa identica cosa, ma in termini di alzatore, libero e opposto.
Uno schema personalissimo, per l’appunto.
Il vicino misterioso, qualunque fosse il suo nome, era uno schiacciatore laterale e uno schiacciatore laterale, in quel momento, era fuori discussione.
L’ascensore si arrestò al quinto piano con un altro ding, che però sembrava più un deeng. Yachi mise un piede oltre la soglia e si voltò a guardare Hinata, ancora fermo contro il muro dell’ascensore. “Andiamo?”
“In che senso?”
“È il nostro piano” disse lei, un sopracciglio sollevato in segno di confusione.
“Questo non è il quinto?”
Yachi annuì energicamente.
“Io sono due piani più su.”
La ragazza boccheggiò per un paio secondi di completo smarrimento. “Non è il 507?”
Hinata spalancò la bocca e volse lo sguardo al cielo come se non solo l’avessero costretto a contare troppe pecore, ma stesse trovando il compito anche estremamente difficile. “No!” gridò infine, che era un modo facile, veloce e indolore per farsi cacciare subito dal condominio, “è il 705!” che era anche il numero di pecore che il nostro ideale pastore di prima l’aveva messo a contare.
“Oh!”
Questo equivoco, gentili lettori, è il motivo per cui oggi raccontiamo questa storia.
 
***

Esattamente dieci minuti più tardi, Osamu osservava suo fratello entrare nel ristorante, forzatamente trafelato. Pensò che, con tutti i problemi che aveva il paese, se l’avesse ucciso nessuno avrebbe fatto troppe storie.
“Quindici. Dieci mance.”
“Te le puoi ficcare su per il culo.”
Osamu fece ondeggiare le sopracciglia, come a dire che, in assenza di alternative, si sarebbe accontentato delle mance. Atsumu soffiò via una risata e due sorrisi uguali si specchiarono sornioni l’uno nell’altro.
“Due onigiri classici e tre al tonno a Kobikicho” disse poi Osamu, lapidario, tornando serio e mettendogli una borsa termica davanti alla faccia.
Atsumu la afferrò per il manico con un sospiro e si diresse all’uscita, munito di guanti, mascherina e un tumulo di parolacce.
Osamu lo osservò salire in moto e lo seguì con lo sguardo prima che sparisse in un vicolo, poi si diresse in cucina per preparare l’ordine della consegna successiva.
Negli ultimi tempi, Osamu se la stava passando discretamente. Il ristorante era chiuso al pubblico, ma disponibile per le consegne, il che rappresentava una salvezza per tutti quelli che erano stati costretti a lavorare da casa e non avevano tempo, capacità o un misto di entrambi per prepararsi un pranzo o una cena da soli. La cosa, ovviamente, rappresentava una salvezza anche per Osamu, che aveva sentito notizie terribili sui ristoranti di ramen che non facevano cibo da asporto. Non potendo entrare in contatto con il ragazzo che, in tempi diversi, avrebbe fatto il cameriere, Osamu aveva assunto Atsumu per fare le consegne. Non vivevano insieme, ma sulla carta era un’organizzazione più pulita.
Era stata una conversazione turbolenta e complicata, che era partita con Osamu che scrollava le spalle e informava suo fratello del suo nuovo lavoro e Atsumu che gli diceva che non aveva bisogno della sua pietà per avere successo ed essere felice.
Poiché l’affitto non si pagava da solo e ad Atsumu piacevano i tetti sulle teste, Osamu aveva vinto.
Ora, se Atsumu era il gemello stupido, Osamu pure era il gemello stupido – nessuno aveva mai parlato di primati – ma sapeva osservare e credeva fermamente che Atsumu avesse bisogno di quel lavoro per non affondare. Non nei debiti, ma in qualcosa di ancora più insidioso.
Non ne avevano mai parlato, perché Osamu diceva che non gli importava un fico secco e marcio di quello che faceva suo fratello e Atsumu diceva che se la vita era un gioco, lui lo stava vincendo.
Famosi entrambi per essere bugiardi patentati, ovviamente a Osamu importava l’intera coltivazione di fichi, Atsumu il gioco lo stava perdendo stracciato venticinque a zero.

 
***
 
Mentre il mondo si chiudeva in casa, la primavera muoveva i primi timidi passi verso l’esterno. L’ultima consegna del giorno era in una stradina solitamente trafficata, costeggiata da alberi che, al contrario della gente, iniziavano lentamente a ripopolarsi di foglie e colori.
Atsumu frenò all’improvviso, fissò lo sguardo da qualche parte tra i rami degli alberi e l’accenno di via vai nella strada alle loro spalle. Si contorse come un serpente per raggiungere il portaoggetti e frugò all’interno, cavandone una bottiglia d’acqua e una borsa dalla forma irregolare. Poi accostò sul ciglio della strada, scese dal motorino e si avvicinò a uno degli alberi, mettendo mano alla borsa.
Gli sembrava di fare un baccano allucinante, di far cadere un bicchiere d’acqua sporca di pennelli sciacquati su una tela immacolata. Non era tanto il silenzio, a far rumore, Tokyo non faceva mai silenzio. Era più che l’impressione della solitudine attenuava i rumori come una spugna, ne diminuiva l’eco squillante, e quindi anche un respiro diventava un boato.
A quel punto, come a ogni persona sana di mente verrebbe naturale fare, Atsumu rovesciò l’acqua rimanente nella bottiglia sulle foglie neonate dell’albero. Scosse il ramo a cui si arrampicavano disperate e valutò con uno sguardo le gocce tonde e resistenti sopravvissute a quello shock. Specchi rovesciati. Annuì sbrigativo, avvicinò l’obiettivo a un passo dalla foglia più spiraleggiante e mise a fuoco. La macchina ronzò per accomodarsi ai suoi desideri, poi catturò uno squarcio di città grigia e vuota otturata dal piangere di una foglia. Atsumu osservò l’immagine in anteprima: gli impegni delle rare persone che scappavano dai loro stessi mostri, l’accartocciarsi della foglia, gli edifici immensi sullo sfondo. Il via vai ridotto aveva l
aspetto di un’abitudine distorta con tale sottigliezza da apparire potenziata nei suoi aspetti più insoliti. Gli stava dicendo che era solo.
Forse mancava colore, che poi era lo stesso che dire che mancava rumore. Forse Atsumu avrebbe dovuto scattare di nuovo quella foto in un altro momento, in una stagione più florida, sul dettaglio di un fiore di ciliegio. Forse avrebbe solo dovuto aspettare che qualcuno vestito in maniera stravagante e colorata si mettesse sullo sfondo e facesse suonare la città.
Lanciò un’occhiata ai passanti, ai loro completi gessati e ai loro sguardi. Aggrottò la fronte seccato e si diresse a casa.
Ovviamente, se avesse letto queste parole, si sarebbe ricordato di passare a un alimentari qualunque e rifornire il suo frigorifero.
Ma Atsumu non leggeva neanche le insegne dei negozi, nella vita.

 
Il portone si richiuse con un tonfo, sebbene l’avesse accompagnato con le mani. Atsumu rese l’appendere le chiavi al loro gancio, il togliersi le scarpe al volo e il lanciare il cappotto su una stampella un unico gesto fluido. Poi attraversò il corridoio di fretta e affondò di faccia nei cuscini del letto.
Passò qualche secondo di completo silenzio e apnea. Un silenzio che non era un suono, bianco panna, l’assenza ovattata di rumore, tappi nelle orecchie, cinque metri sott’acqua, sotto tutta la spuma di mare.
Si lasciò scappare un grugnito attutito. Questo perché il frigorifero, a qualche metro di distanza, stava singhiozzando come un neonato con le coliche e lui aveva dimenticato di pregare in ginocchio Osamu di dargli da mangiare. Grugnì di nuovo, per buona misura, e decise di rimanere ancora un po’ con la faccia seppellita tra due cuscini. Forse, con uno sforzo di fantasia necessario, negli ultimi tempi, poteva immaginare che la cosa fosse vagamente sessuale. Forse era patetico. No, era decisamente patetico. Forse avrebbe dovuto iniziare a cercare il sesso lontano dai cuscini del letto e forse, forse avrebbe dovuto smettere di vedere il suo frigorifero come un’entità senziente e capace di portare rancore.
Si alzò per raccattare una di quelle sei birre – erano le otto di sera. Le otto erano un orario accettabile, no? – ma qualcosa lo bloccò sul posto, a metà tra il letto e la cucina.
Era un ronzio, una chiazza di verde acido che ondeggiava, una tensione, non era un suono, non era l’opposto del silenzio, ma almeno lo faceva vibrare, almeno aveva sollevato quel telo insonorizzato che Dio aveva drappeggiato sul suo appartamento.
E poi il suono arrivò davvero.
Atsumu tornò indietro e si accomodò sulla sua unica sedia a mani vuote, gli occhi fissi poco più su del letto, sul muro che lo separava da quella musica. Musica di violino si diffuse come burro e colò fin sulla sua parete. Squillante, pulita e insieme vagamente metallica a causa dell’interferenza. Continuò a fissarla – a fissare il muro – per un tempo che oscillò tra i tre secondi e le tre ore. Realisticamente, dovevano essere stati solo tre minuti.
In quelle potenziali tre ore e realistici tre minuti, Atsumu realizzò tre cose che presenteremo adesso in ordine casuale, perché le pensò tutte insieme o forse in fila ma non fu abbastanza rapido da stilare una classifica.
La prima era che chiunque stesse suonando era bravo, perché sapeva distinguere tra rosso e magenta. Ora, Atsumu si guadagnava da vivere in un ristorante e si comprava da sognare con una macchina fotografica. Di musica non ne capiva niente, se non che non ne capiva niente. Però sembrava qualcuno che sapeva il fatto suo, ecco, che sapeva cosa fare con un archetto in mano.
La seconda cosa che realizzò era che il violino faceva un rumore micidiale, perché sembrava davvero che il musicista gli stesse suonando nell’orecchio.
La terza cosa era che, fascino schiacciante a parte, Atsumu ultimamente era uno che bagnava foglie di un albero per fotografarle e stilava liste sugli aggettivi negativi che stavano meglio a suo fratello, disponendoli dal più azzeccato al meno veritiero. Quindi era in una fase della sua vita in cui fondamentalmente era uno sfigato. Questo è un pezzo di informazione segretissima che non deve uscire da qui, ma tant’è. Quindi Atsumu Miya, da bravo uomo-che-sussurrava-ai-frigoriferi, realizzò che, se il musicista avesse continuato a fargli le sviolinate, si sarebbe potuto innamorare anche solo di un suono che passava attraverso un muro.
Merda, gli sembrò naturale aggiungere come corollario alla terza realizzazione.
Si tuffò nella stanza più lontana dal muro del letto (il bagno, quella stanza era il bagno), si mise le cuffie e fece partire l’heavy metal più heavy che gli venisse in mente oltre alle sigle di Naruto.
Perché, a dispetto di tutto, Atsumu Miya era un tipo veramente tosto.
   
 
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