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Autore: Camaleonte    15/10/2021    0 recensioni
"Si dice che la differenza tra un semplice turista ed un viaggiatore stia tutta nella volontà di comprendere. Nella voglia di informarsi, di apprendere, ampliare e accettare. Nel fantomatico mondo delle immagini riflesse nate dall’attività creatrice del poeta non si può essere meri turisti, non si può. O si è viaggiatori, o... si rimane chiusi nel proprio piccolo e squallido alloggio mentale."
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Un viaggio nel mondo dell'immaginazione, all'incontro di quattro creature fantastiche ognuna con il suo proprio unico problema.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ucra Stonfia


 

Si dice che la differenza tra un semplice turista ed un viaggiatore stia tutta nella volontà di comprendere. Nella voglia di informarsi, di apprendere, ampliare e accettare. Nel fantomatico mondo delle immagini riflesse nate dall’attività creatrice del poeta non si può essere meri turisti, non si può. O si è viaggiatori, o... si rimane chiusi nel proprio piccolo e squallido alloggio mentale.

Apprendere, ampliare, accettare. Anche l’anima più selvaggia, anche l’anima più sincera. Questo è il compito di qualsiasi coraggioso individuo che vuole intraprendere il viaggio di una vita.

In questa occasione il compito del viaggiatore è facilitato, dato che l’anima più selvaggia e, soprattutto, l’anima più sincera ha un nome, un indirizzo e pure un animale da compagnia.


 

Faggio Storto 5, angolo Bosso Ditalunghe.


 

Non è particolarmente facile raggiungere questa remota parte del bosco, bisogna armarsi di bussola, cartine geografiche e tanta buona volontà. Ma neppure impossibile: i sentieri sono tracciati, per quanto un poco trasandati e ricoperti d'erbaccia. È un’area lasciata a se stessa, desolata e selvatica. I pochi residenti l’hanno pian piano abbandonata, non perché inospitale, anzi una porzione di terra così ricca e rigogliosa è difficile da trovare. Sarà per via dell’elevata presenza di faggette che, grazie al loro humus, rendono il terreno particolarmente fertile: c’è un motivo se vengono spesso e volentieri chiamate “madri del bosco”.

Ad ascoltare i locali pare che oltre di buona volontà il viaggiatore debba essere fornito anche di una buona dose di coraggio. Mostri? Piante carnivore? Un labirinto per caso?

Nulla di tutto ciò.

– Al Faggio Storto? Pazzi!! –

– Vi volete del male, questo è certo! –

– È meglio starci lontano da quel posto, fermatevi qui e non correte alcun pericolo. –

È bene precisare che questo luogo tanto temuto dai locali è effettivamente un poco inospitale, non per la natura, non per il clima, ma per ormai l’unico abitante, residente al Faggio Storto numero 5, angolo Bosso Ditalunghe.

L’albero dalla forma contorta è facilmente riconoscibile nel piccolo quasi inesistente sentiero per la presenza di un bosso incolto, particolarmente grande, che per via dei lunghi rami che si diradano verso l’alto come delle dita scheletriche ha acquisito il nome Ditalunghe.

Molto tempo fa, prima della nascita di questo individuo capace di far sparire anima viva nel raggio di un paio di chilometri, il Bosso Ditalunghe era pure un amato punto di incontro.

– Andiamo al Ditalunghe stasera? –

– Al Ditalunghe organizzano una festa domani! –

– Il Ditalunghe è stato potato, andiamo a vedere? –

Questo era passato.

Adesso Ditalunghe è di nuovo un folto e incolto bosso.


 

Stonf


 

L’unico essere vivente che osa avvicinarsi al Faggio Storto è Stonf.

Sbatte forte le sue ali grigie mentre si fa spazio tra il fogliame. Si tratta di una specie di piccolo pipistrello, un poco più robusto e con due tenere corna a far capolino sul cranio rettangolare. È proprio vero che, in maniera inspiegabile, l’animale da compagnia assomiglia sempre al suo padrone, anche nel caso di Stonf: stesse grosse zampe, stesse orecchie appuntite, stessi occhi infossati.

Anch’esso viene riconosciuto dagli abitanti della zona che prontamente si allontanano al suo passaggio, funesto presagio.

A lui non importa, è contento di tornare a casa dal suo padrone. La semplicità e l’innocenza degli animali riesce a far sopportare anche la più dura schiettezza e crudezza. Ciò che invece non sono riusciti a sopportare i vicini del suo padrone. Le parole graffiante, dolorose eppure vere, hanno fatto scappare tutti quanti. Nessuno è riuscito a reggere la dura realtà, buffo no?

– Io spocchioso e arrogante mammalucco?? –

– Mi ha definito piatta come un’insalata scondita! –

– Come si permette di chiamarmi viscido millepiedi! –

Stonf invece gradisce in maniera particolare la compagnia di questo strano individuo. Non è minimamente disturbato dalle parole schiette, al massimo alza gli occhi al cielo ai continui grugniti grezzi del padrone. Non ha da temere Stonf, nessuna verità potrà smascherarlo: gli animali non fingono.

Finalmente l’ha raggiunto e si è riappropriato del suo posto in cima ad un masso. Dispiega le ali dalle falangi sproporzionatamente lunghe e secche e soddisfatto cova con gli artigli ben arpionati la strana roccia.

Tradisce così la presenza quasi invisibile dell’essere più odiato del luogo, perché quel masso un po’ triangolare non è altro che il suo cranio e Stonf il suo strambo copricapo.


 

Ucra Stonfia


 

Talmente fusa con la natura intorno a lei, quasi è irriconoscibile. La pelle grigia chiaro si confonde con la corteccia liscia del Faggio Storto. La sua casa è infatti il tronco cavo dell’albero ricoperto di muschio e licheni. Non si capisce se è stato il legno a crescere intorno a lei o se lei si è adattata perfettamente alla sua dimora. Fatto sta che non si riconosce più dove inizia la vegetazione e dove finisce lei. Pare che un falegname inesperto abbia scavato dentro il tronco e poi continuato a intagliare grossolanamente i lineamenti dell’ospite senza fare alcuna distinzione.

La testa dalla forma triangolare, unica a sporgersi un poco fuori dalla corteccia, è caratterizzata da un cranio glabro e ossuto, duro come la roccia. La fronte spaziosa evidenzia uno sguardo antico, reso da penetranti occhi neri infossati profondamente nelle orbite oculari. Il naso largo e grezzo invece è immerso in una folta barba, talmente folta da coprire interamente la parte inferiore del viso. Col tempo è cresciuta così tanto che adesso è raccolta in una grossa treccia chiusa da un tenero ramoscello verde. A due spalle tanto ossute da sporgere come due attaccapanni sono attaccate le lunghe braccia flosce dalle mani lunghe e nodose che strusciano sempre per terra, causa le corte e tozze zampe posteriori.

La barba indurrebbe a pensare di trovarsi di fronte ad un esemplare maschio, il seno grosso cascante tenuto su da uno sporco grembiule lascerebbe intuire tuttavia il contrario. Si tratta in realtà di una signora, e il tipico tocco femminile lo si riconosce dai due bottoni rossi cuciti sulle spalline dell’indumento.

A malapena raggiunge un metro d’altezza, eppure un metro basta per far scappar via tutti.

Ucra Stonfia (così si chiama questa creatura) appartiene alla razza dei goblin del sottobosco, nati dalla linfa che fuoriesce dalle radici degli alberi morti.

Mentre nel nostro mondo, causa deforestazioni e piromani, questa specie è sempre più comune, nel suo Ucra Stonfia è quasi più unica che rara. E lei così vuole rimanere.

È cosciente che la sua vita equivale ad una morte, e lei non è disposta ad accettarne altre, anche se questo vuol dire che nessun altro goblin del sottobosco passeggerà mai attraverso la sua foresta di faggette. Alla fin fine la solitudine non le è mai pesata, anzi per raggiungere il suo scopo è necessaria. Perché dove la mano civilizzata arriva, immancabilmente qualche traccia dietro di sé lascia.

E così Ucra Stonfia adottò il metodo più veloce e indolore per scacciare quegli individui che rischiavano di mandare a monte la sua missione: iniziò a dire solo la verità.

Senza finzione, senza falsità, senza reticenza.

Bastò quello.

 



 

Nel momento in cui Ucra Stonfia decise di adottare solo parole vere e sincere, la solitudine divenne quasi una salvezza. La comunicazione avveniva infatti sempre più spesso attraverso smorfie, sguardi perforanti e versi sgraziati. Ciò non solo la rese agli occhi estranei maleducata e scorbutica, ma anche grezza e incivile. Frasi intere servivano solamente per dare risposte troppo elaborate per essere sostituite da grugniti, ma spesso queste non erano neppure tanto gradite. Il lessico ristretto di Ucria Stonfia venne preso per un segno di ignoranza e rozzume, che permise ai locali feriti nel loro orgoglio di sputare veleno su di essa e mascherarsi nuovamente dietro raffinate parole altolocate agli occhi di tutti – pure di se stessi.

In realtà per Ucria Stonfia le parole sono una merce troppo preziosa per essere sprecata in inutili chiacchiere.

Poiché per essere sincera essa deve dire sempre la verità.

E come si può dire la verità riguardo al passato? Tacendo.

E come si può dire la verità riguardo al presente? Osservando.

E come si può dire la verità riguardo al futuro? Facendo sì che quelle parole diventassero verità.

Per questo Ucra Stonfia è legata alle sue parole. Esse sono per lei legge, rimangono incise nel tempo, non possono sparire, né affievolirsi. Le ha marchiate sulle labbra, se le trascina ad ogni fatidico passo che compie. Sono questi suoni di senso compiuto che le gravano sulle spalle aguzze, mentre ogni giorno, piano piano, cercando di non fare male al Faggio Storto, si stacca dal tronco cavo. Lentamente, una grossa zampa leonina davanti all’altra, la barba lunga che struscia per terra, il goblin si avvia al limitare della foresta.

La sopravvivenza e la prosperosità delle ‘madri’ sono divenute il primo pensiero di Ucra Stonfia. Accompagnata da Stonf – che in fondo sa che il goblin è un essere buono – essa si allontana ogni volta di un passo più lontana da casa per spingere da sotto il suolo gli alberi fuori dalla terra così che crescano più in fretta. Questa è la sua missione.

La foresta è diventata sempre più grande, sempre più viva e rigogliosa, sempre più selvaggia e incolta. Incolta come il Bosso Ditalunghe che ormai non ha più nessuna forma se non la sua. Sempre più lontani vivono gli abitanti della zona (per grande gioia di Ucra Stonfia) e sempre più maestosi e possenti sono diventati gli alberi.




 

Non è particolarmente facile raggiungere questa remota parte del bosco, bisogna armarsi di bussola, cartine geografiche e tanta buona volontà. E forse anche di un po’ di coraggio. Quello necessario per uscire dai soliti percorsi turistici, quel tanto che basta per avventurarsi in luoghi ardui e difficili.

Ci vuole coraggio per mettersi alla prova e saggiare i propri limiti. Fin dove riusciamo ad arrivare? Fin quanto siamo disposti a digrignare i denti prima di tornare sconfitti a casa? Quanto siamo disposti ad accettare di noi stessi?

Prima di partire bisogna ricordarsi sì di un pizzico di coraggio. Il coraggio necessario per andare a cercare se stessi. Perché viaggiare non ha come scopo proprio questo?


 


 


 


 


 


 


 


 


 

 
  
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