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Autore: MrsShepherd    16/10/2021    0 recensioni
Santana e Brittany hanno 35 anni. Santana vive a New York, con Rachel, Kurt e Blaine. Brittany vive in Ohio e ha aperto una scuola di danza con alcuni ex compagni del Glee club. A tenerle unite è la loro figlia Riley, che in questa storia sarà il filo conduttore che porterà le due donne a riavvicinarsi inevitabilmente e a chiarire ciò che dodici anni prima era rimasto sospeso.
Ogni capitolo porterà il titolo di una canzone eseguita dai protagonisti della serie tv. Il testo di ogni canzone rispecchierà il contenuto del capitolo.
Spero che questa fanfiction incentrata su Brittana possa appassionarvi quanto ha appassionato (e sta appassionando) me mentre la scrivo.
Un pensiero va' inevitabilmente a Naya Rivera, che ovunque si trovi, mi ha ispirato a scrivere questa storia.
Buona lettura!
Genere: Fluff, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Brittany Pierce, Nuovo personaggio, Santana Lopez | Coppie: Brittany/Santana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 4: I’M THE GREATEST STAR
Il piano di Bette aveva funzionato alla grande. Riley aveva rigato dritto: non un’insufficienza, nessuna lite nei corridoi, nessun comportamento insubordinato. Finnegan e Bette si comportavano come i bodyguard delle celebrità: accompagnavano Riley ovunque andasse, anticipandole ogni angolo ed evitando i luoghi frequentati da gente con cui la ragazzina aveva avuto qualche screzio passato. A Riley divertivano parecchio i loro discorsi in codice e tra sé e sé pensava che forse avessero preso quel compito troppo sul serio, ma in fondo le piaceva passare un po’ di tempo con i suoi amici, che da lì a breve non avrebbe visto per due intere settimane. Si stavano avvicinando le vacanze di Natale e Riley avrebbe trascorso le festività da Brittany in Ohio, come tutti gli anni. Bette e Finnegan sarebbero rimasti a casa con Blaine, Kurt, Rachel e Santana, che da quando si erano trasferiti a New York, amavano festeggiare il Natale “in famiglia”, come diceva sempre sua madre, e guardare la cerimonia del nuovo anno nella piazza di Times Square. Riley avrebbe tanto voluto prendere parte ai festeggiamenti, ma sapeva che quelle settimane erano le poche che poteva trascorrere con Brittany e passare del tempo con lei era egualmente importante. Riley adorava tutto di Brittany: i suoi occhi azzurri come l’oceano, il sorriso gentile, il suo modo di fare sempre dolce e attento; si volevano molto bene e durante il periodo che Riley trascorreva a Lima, Brittany non aveva occhi che per lei. Ogni giorno trovava sempre qualche ora da dedicarle e la ragazzina si sentiva molto amata. Le settimane a Lima erano come una pausa dalla vita frenetica di New York e Riley era ben contenta di non dover confrontarsi sempre con il mondo, di non dover dimostrare nulla a nessuno, ma di essere semplicemente lei.
Quella mattina si era alzata di buon umore, nonostante il solito tempo bigio cittadino. Spalancò la finestra e una ventata di aria gelida rinfrescò tutta la stanza: il freddo pungente e le decorazioni natalizie per le strade significavano solo una cosa per lei. ATLETA D’INVERNO.
Ogni anno, prima delle vacanze natalizie, la Andersen middle school organizzava una grande cerimonia in auditorium, nella quale veniva premiato, con tanto di statuina in falso oro, lo studente o la studentessa che avevano ottenuto ottimi risultati dal punto di vista atletico, accompagnati però da ottimi voti e da una condotta esemplare. Solitamente il premio andava a René Bjorken, una promessa dell’atletica leggera simpatica quanto un pennello secco intriso di colla vinilica. Quest’anno però, anche Riley si era candidata e aveva buone possibilità di vincere, perché al di fuori degli indiscussi insuccessi del calcio, anche i suoi voti erano nettamente migliorati. Spinta dall’entusiasmo di Finnegan e Bette, aveva iniziato a studiare ed impegnarsi sul serio, ottenendo A e B in tutte le materie, tranne in italiano, che nonostante i suoi sforzi, aveva sempre una C risicata, questo confortava un poco Bette, che con una punta di invidia (molto nascosta) sentiva usurpato il suo ruolo di migliore del trio. Riley non l’avrebbe mai ammesso, ma in queste settimane aveva scoperto un piacere segreto per lo studio e per la lettura. Era diventata segretamente famelica di novità e divorava libri e documentari in tv con la stessa velocità con cui macinava chilometri sul campo. Non aveva nemmeno più il tempo e le energie per combinare guai. Ora aveva uno scopo: dimostrare alla madre di valere qualcosa, di essere meglio di come lei si aspettava, di non essere per lei una delusione.
Doveva solo superare la giornata e il premio sarebbe stato suo. Bette le aveva detto che le probabilità erano tutte in suo favore: sicuramente perché la commissione di valutazione era l’unica a cui Gregory Usborne non prendeva parte, ma anche perché il premio sarebbe stato il giorno dopo la sua ultima partita. Secondo uno studioso che Bette aveva citato molte volte, ma che non aveva fatto breccia nella memoria di Riley, gli eventi successi per ultimi sono quelli che restano più impressi. Quindi disputare una buona partita quella sera stessa, avrebbe portato alla vittoria assicurata.
Preparò la colazione, la borsa calcio, andò come tutte le mattine a svegliare la madre e si mise a leggere. Quando la madre entrò in cucina e la vide immersa nel suo libro non poté fare a meno di sorridere.
<< Cosa leggi di bello?>> chiese soffiando sul caffè bollente.
<< Fannie Flag. Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle stop.>> rispose la figlia senza alzare gli occhi dal libro.
<< Interessante?>>
La figlia annuì, addentando un pancake inzuppato di succo d’acero.
Anche a Santana piaceva molto leggere. Quando era alle superiori tra una pausa e l’altra tirava sempre fuori il cellulare e mentre tutti i suoi amici pensavano che stesse consultando qualche rivista gossip online, in realtà le era immersa in letture di pagine segrete, fotografate la mattina stessa e impresse nella memoria del telefonino. Alcune volte era talmente presa dalla lettura che finiva i capitoli fotografati in mattinata e passava tutto il pomeriggio con la voglia di tornare a casa per continuare le sue storie, delle quali sognava sempre di prendervi parte. La realtà era che la lettura l’aveva salvata. Quando aveva appena compiuto dieci anni il padre era uscito a comprarle il regalo di compleanno e non era più tornato. Mesi dopo si scoprì che aveva un’altra famiglia in Indiana e che i numerosi viaggi di lavoro erano in realtà visite di piacere. Sparì completamente lasciando la madre senza un soldo e senza lavoro. Santana passava le giornate da sua nonna, che aveva l’abitudine di raccontarle storie avvincenti sempre nuove e soprattutto, sempre a lieto fine. Quando frequentò le medie decise di iscriversi come volontaria alla biblioteca della città, non era un lavoro pagato, ma di tanto in tanto il bibliotecario allungava qualche mancia che il comune di Lima donava per la manutenzione dei libri. Non era tanto, ma bastava per pagarsi le lezioni di danza. Parallelamente frequentava anche dei corsi propedeutici di ginnastica gratuiti, tenuti da Sue Sylvester, che poi sarebbe diventata il suo coach durante il liceo. Le restanti ore libere le trascorreva con il naso immerso nei libri, un passatempo piacevole che addolciva le sue giornate. Quest’abitudine continuò anche alle superiori, anche se la sua posizione “popolare” non le permetteva di ostentarlo al mondo. Solo Brittany, la sua fidanzata, sapeva di questa sua passione, perché durante i pomeriggi trascorsi insieme a studiare Santana si sentiva libera di poter aprire i suoi libri, senza sentirsi minimamente giudicata. Ricordava con nostalgia quei momenti spensierati, nei quali le uniche preoccupazioni erano i vestiti, le acconciature e con quale cavaliere sarebbero andate al ballo della scuola. Ricordò il ballo a tema dinosauri organizzato da Brittany e quella bellissima fotografia con lei che faceva il segno di “vittoria” con le dita, ricordò i sorrisi, gli abbracci, i baci e le parole dolci e per un breve istante ebbe il desiderio di essere ancora lì, ferma nel tempo. Come era arrivata a tutto ciò? Ad inseguire la fama correndo da un posto all’altro, a vivere senza godersi la vita e i suoi affetti più cari. A perdere l’unica persona che l’aveva sempre accettata per quello che era.
La sua mente attraversò altri momenti, più bui, a New York: le sere in cui rincasava tardi, gli sforzi per arrivare a fine mese, i litigi con Brittany per l’educazione di Riley ed infine la scelta di separarsi per sempre. Era stata davvero la decisione giusta?
Dopo anni Santana non era ancora riuscita a darsi una risposta, sapeva solo che lei era bravissima a prendere delle scelte sbagliate sotto pressione, per poi pentirsene poco dopo.
<< Sai, l’ho letto anche io…>> disse rimanendo incantata nei suoi pensieri.
Riley sollevò lo sguardo sorpresa: << Davvero?>>
<< è stato…è stato tanto tempo fa…>>
La donna si guardò in giro, cercando di scacciare tutti quei ricordi dalla testa, osservò la borsa bordeaux della figlia appoggiata sul lato corto del divano panna.
<< Hai tutto?>> disse indicandola con il naso. Riley chiuse il libro e lo appoggiò sulla mensola della cucina.
<< Penso proprio di sì>>.
<< Sono forti?>> chiese Santana riponendo il suo piatto nel lavandino.
<< Abbastanza. Ma la vinciamo.>>
<< è lo spirito giusto, brava.>> le rispose con fierezza.
Riley si avvicinò alla mamma, nascose le mani nelle tasche della tuta fornita dalla squadra, anch’essa bordeaux e disse abbassando il tono di voce: << Sai, non te l’ho detto perché avevo paura di non essere dentro ma, in queste settimane mi sono impegnata tanto e…sono tra i candidati per l’atleta di inverno. Non è molto ma, insomma per il futuro…>>
Santana la strinse tra le braccia e la sollevò da terra entusiasta: << Ma stai scherzando!? È una notizia spettacolare! I licei ti cercheranno e faranno la fila per averti nella loro scuola. È fantastico!>>
<< Non c’è ancora nulla di certo, perché oggi c’è la partita, ma se gioco bene, cioè se la vinco…insomma magari…>> disse Riley infilando il mento nel colletto della tuta.
<< Certo che la vinci>> tagliò corto Santana con un grande sorriso: << Anzi, che ne diresti se venissi a vederti?>>
Gli occhi verdi di Riley si illuminarono raccogliendo tutta la luce presente nella stanza e sulla sua bocca si formò un sorriso. << Dici sul serio?>> rispose, non credendo a quello che aveva appena sentito: << Riesci ad esserci?>>
<< A che ora è?>>
<< Alle 18.>>
Santana ci pensò un attimo, ma poi disse senza troppi problemi: << Massì! Non capita tutti i giorni che tua figlia riceva un premio. Ci sarò!>>
<< Mamma il premio me lo danno domani, se l’ho vinto.>> rispose gioiosa Riley.
Santana si chinò verso la figlia, le abbottonò la giacca e le mise il pesante borsone sulle spalle.
<< Non ho alcun dubbio.>> disse scoccandole un bacio in fronte e sistemandole la chioma arruffata: << Ora va’ e fatti valere.>>
Riley si diresse verso la porta di casa al settimo cielo, pronta per uscire e salire sulla macchina di Rachel, che oggi faceva il turno mattutino per portare i ragazzi a scuola. Prima di chiudersi la porta alle spalle rivolse un ultimo sguardo verso Santana: << Mamma!>> la chiamò: << Sei contenta?>>
Santana le sorrise dolcemente: << Certo. E tu?>>
Anche Riley sorrise. E uscì.
_______________________________________________________________________________
“Resta calma, resta calma”.
Chiusa nello spogliatoio sentiva le urla dei tifosi nel piccolo stadio della Andersen Middle School. Non era una partita come le altre questa, c’era di mezzo il premio dell’atleta d’inverno, tutti ne parlavano e l’ansia la stava divorando da dentro, come un verme famelico che addenta una mela.
Doveva solo giocare bene e non pensare alle sue mani strette sulla piccola scarpa decorata in falso oro. Chissà se fosse pesante o leggera, magari non era nemmeno nulla di che. Scosse la testa allontanando questi inutili pensieri, per sessanta minuti avrebbe pensato solo al calcio e a nient’altro.
Zero pressione.
Guardò l’allenatore, che come sempre dedicava i pochi minuti prima della partita per il suo discorso motivazionale.
<< Ragazze.>> iniziò: << Abbiamo tra di noi la futura campionessa d’inverno.>>
Appunto.
<< E mi rifiuto di lasciare il titolo alla Bjorken quest’anno. Questa partita non è come le altre. >> indicò Riley con le sue grandi mani rosse e callose per il freddo: << Questa volta la partita è sua. Lei deve brillare. Perciò ogni passaggio, ogni tattica, ogni uscita, deve finire con lei che segna. O almeno che prenda attivamente parte all’azione. Intesi?>>
Le ragazze annuirono e Riley si sentì profondamente in imbarazzo; sapeva bene che era la più forte della squadra e questo non le era mai importato molto. Dava sempre il massimo ad ogni partita cercando però di supportare anche le compagne, che giocavano per divertirsi ed erano molto migliorate. Questa volta però rimase zitta e annuì come le altre. C’era in ballo tanto, forse troppo e non aveva alcuna intenzione di rinunciarvi.
<< Ora mi rivolgo direttamente a te.>> disse l’allenatore parandosi davanti. Il suo capo stempiato rifletteva la debole luce al neon dell’umido spogliatoio sotterraneo. << Senti quelle urla là fuori? Sono tutte per te. Sono la tua forza e la tua carica. Ora tu esci e lì stendi tutti e alla fine della partita non uno di loro tornerà a casa dicendo “Quella Lopez è scarsa”. Vinci e dimostra loro quanto vali.>>
Riley chiuse gli occhi e impallidì. Tutta la squadra si mise in fila e cominciò ad uscire sul campo da gioco. Riley fece appello a tutto il suo coraggio e varcò la soglia che portava al campo della Andersen Middle School. E lo stadio esplose.
Strinse gli occhi per ripararsi dalla pioggia che le pizzicava il viso e cercò tra gli spalti gli unici volti conosciuti ai quali avrebbe realmente prestato attenzione.
Riparati sotto la tettoia, con il naso nascosto nelle sciarpe, Bette e Finnegan agitavano le mani, con la speranza di essere visti dall’amica; accanto a loro Kurt e Blaine, stretti tra loro indicavano la loro figlioccia e poco più accanto c’era Rachel, visibilmente infreddolita e con le mani sul naso per la paura di essere colpita dalla palla. E poi c’era lei, il suo inconfondibile cappotto in loden scuro e il colbacco grigio in finta pelliccia. Era riuscita veramente ad esserci.
Riley la salutò con la mano e poi si concentrò per la partita, aspettando impaziente il fischio d’inizio.
Evidentemente la strategia di puntare solo su Riley non era quella vincente; avevano sfiorato il goal un paio di volte, ma poi i continui passaggi su di lei erano risultati sempre più prevedibili e in pochi minuti gli avversari l’avevano raddoppiata. La pioggia scrosciante aveva fatto il resto. Alla fine del primo tempo le pantere di Andersen erano ancora a secco e Riley si sentiva esausta, fradicia e dolorante per tutti i colpi subiti dagli avversari che le impedivano di tenere palla.
<< Ragazze>> aveva detto all’inizio del secondo tempo: << Questa partita la dobbiamo portare a casa. Lasciate perdere la strategia del coach e ascoltate la mia.>> Le ragazze avevano fatto gruppo intorno a lei e ascoltavano la compagna più esperta con orecchie attente. Riley si sistemò la fascia di capitano: << Giochiamo come al solito. Non passatela per forza a me. Se si presenterà l’occasione segnerò, altrimenti, facciamo girare palla al centro campo, appena troviamo un buco la mettiamo agli esterni, cioè io. Attacchiamo subito, per evitare che ci prendano sul tempo. Se c’è spazio rientriamo e tiriamo, altrimenti si passa alla punta che fa l’uno due o segna.>>
<< E in difesa?>>
Riley si pulì il volto dalla pioggia: << Palla agli avversari, ci chiudiamo e spingiamo col corpo le fasce d’attacco verso l’esterno, senza schiacciarci.>>
La squadra parti con più frecce al suo arco rispetto al tempo precedente, perché riuscirono a tenere testa ai tori rossi della New York Middle Empire.
Dopo dieci minuti, le pantere erano passate in vantaggio, grazie al goal sottoporta di Lindsey Johnson, la punta della squadra che era riuscita a sfruttare l’assist di Riley in scivolata. Pochi minuti più tardi le squadre erano finite in pareggio, per un intervento troppo duro del difensore Amber Parrots sull’attaccante avversario, che le era costato un rigore.
Riley si sentiva le gambe pesanti e le sembrava di essere dentro un film, tutti si muovevano rapidamente per il campo, mentre lei si sentiva incatenata al terreno. Aveva corso talmente tanto che le cosce le pulsavano e sentiva i polpacci bollenti esplodere nei parastinchi. Cercò di levarsi le gocce di fango dal viso pulendosi con la spalla della maglietta fradicia e stava per fermare la sua corsa, quando vide Maryem Zinab il terzino della squadra lanciare il pallone verso di lei. Nonostante la pioggia negli occhi, riuscì con uno stop perfetto a mantenere viva la palla, ma sentì subito due avversarie chiudersi dietro di lei e attaccarsi con il petto verso il suo corpo. Erano molto più alte e l’avrebbero sicuramente buttata a terra, così decise in un nanosecondo di appoggiarsi con la schiena e di saltarle con un sombrero. Le due ragazze non poterono far alto che vedere la palla volare sopra le loro teste, mentre Riley sfruttava la loro spinta per mettersi in piedi e girarsi completamente. Sgusciò via dalle due ragazze e recuperò immediatamente palla, un’avversaria la bloccò sulla fascia in prossimità della linea, ma lei riuscì a scartarla, tirando la palla verso l’interno del campo, uscendo dal campo per poi tagliare in obliquo al doppio della velocità. Ormai aveva fatto breccia nelle fila nemiche, avanzò di qualche metro, fino a ritrovarsi sotto porta, fece una finta al portiere che si buttò a sinistra e tirò secca dall’altro lato. Nello stadio si udirono boati di gioia; a pochi minuti dalla fine Riley Lopez Pierce era riuscita a segnare e quel goal valeva tanto. La ragazzina venne travolta dalle compagne, che la buttarono a terra e la abbracciarono, immergendola nel fango. Quando si rialzò Riley pesava almeno due chili in più ma non le importava, voleva solo guardare la sua mamma dritta negli occhi e urlarle che finalmente ce l’aveva fatta. Spostò lo sguardo sugli spalti in direzione della sua famiglia e alzò entrambi i pollici in aria in segno di vittoria. Tutti ricambiarono saltando animatamente sul posto e agitando in aria ombrelli e cappelli. Persino Rachel aveva tolto le mani dal naso ed esultava indiavolata verso la sua direzione. Riley sorrise. Poi guardò meglio. Santana non c’era. Accanto a Rachel era rimasto un posto vuoto. Subito si guardò in torno per vedere se per caso si fosse spostata a bordo campo o in un’altra zona, ma non la vide. Perse immediatamente il sorriso e a testa bassa ritornò in campo per giocare gli ultimi minuti. Non mollò nemmeno di un centimetro, forse era arrabbiata, forse era concentrata, forse voleva il premio più di ogni altra cosa, ma nonostante la delusione continuò fino alla fine. Quando l’arbitro fischiò sua mamma non c’era ancora. Scosse la testa e percorse la strada che la portava alle docce: fu fermata da molti, che le facevano i complimenti o le chiedevano un selfie, proprio come aveva previsto il suo coach. Era tutto quello che aveva sempre sognato, ma non si sentiva felice. Era solo triste, perché aveva fatto il goal più importante della sua vita e sua mamma non era rimasta lì a vederla. Non doveva sentirsi così, in fondo non era né la prima né l’ultima volta che Santana saltava una sua partita, ma la speranza che lei fosse presente per una cosa per lei così importante, aveva preso il sopravvento. Si fece la doccia e pianse, lacrime di rabbia, lacrime calde e amare, poi per paura che le compagne se ne accorgessero, si versò accidentalmente un po’ di shampoo negli occhi, lamentandosi a voce alta per il bruciore della schiuma. Quando si rivestì, un’ora dopo era come nuova. La tuta del mattino ricadeva aderente sul suo esile corpo e i capelli arruffati ora profumavano di pulito e di vaniglia. Uscì dallo spogliatoio e fu subito accolta dagli applausi di tutti. Santana era ricomparsa e le si avvicinò strizzandole una mano sulla spalla.
<< Non sono riuscita a vedere tutto tesoro. >> le disse sorridendo fiera: << Ma mi hanno detto che stasera li hai fatti secchi tutti.>>
<< Li abbiamo. Tutte insieme>> la corresse la figlia.
<< Riley la tua modestia mi commuove.>> trillò Rachel radiosa: << Mi domando da chi tu possa averla presa.>> sogghignò tirando una frecciatina alla madre, che scosse la testa alzando gli occhi al cielo.
<< Beh, sono le otto passate. Che ne dite se andiamo a mangiare tutti insieme?>> chiese Blaine gioviale.
Bette e Finnegan erano entusiasti della proposta e saltellarono scuotendo l’amica per le spalle.
<< In realtà avevo promesso a Riley che avremmo fatto una cenetta di sole donne io e lei.>> precisò Santana.
<< Scusaci, non sapevamo che era un incontro privato per mamma e figlia! >> La canzonò civettuolo Kurt.
<< Noi avevamo detto così, vero Riley?>> chiese la madre alla figlia: << Però se vuoi possono unirsi anche loro.>>
Riley guardò tutti con l’aria di chi si sente in dovere di fare quello che le era stato appena chiesto, ma le scoppiava la testa e non aveva proprio voglia di festeggiare.
<< Sì, però in realtà sono stanchissima.>> simulò un finto sbadiglio: << Scusatemi, ma correre sotto la pioggia mi ha distrutto…poi quella doccia calda! Sto buttando fuori tutta la fatica e credo che chiuderò gli occhi appena toccherò il letto.>>
Poté leggere l’espressione di delusione sugli occhi dei presenti, soprattutto di Bette e Finnegan, che speravano di poter essere ripagati di tutti quegli sforzi dell’ultimo mese di fronte ad una pizza dal formaggio fumante e filamentoso.
<< Ma possiamo fare domani o dopo!>> aggiunse: << O quando avrò veramente il premio tra le mani!>> concluse con un sorriso forzato.
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Riley era stanca e sconfortata, si sentiva le palpebre pesanti. Si strinse nella giacca di denim, che però non le teneva più così caldo e si lasciò cullare dallo scorrere ritmico e veloce dei lampioni sulla strada. Chiuse gli occhi e si addormentò tremando.
Santana parcheggiò la macchina sotto casa, spostò Riley leggermente dal lato del guidatore in modo da non farle male una volta aperta la portiera. Sua figlia dormiva già profondamente, provata dalla valanga di emozioni giornaliere. Scaricò prima tutte le borse in casa, poi tornò e la ritrovò nella stessa identica posizione, assorta in un sonno profondo. Si chinò e la sollevò. Stava diventando grande, ma era ancora una ragazzina minuta tutta pelle ed ossa e finché restava “la sua bambina” Santana poteva ancora permettersi di prenderla in braccio. La tenne stretta e al caldo, fino a che non arrivarono nell’appartamento. Una volta entrate, l’adagiò delicatamente sul letto, levandole giacca e scarpe. Andò in bagno, svuotò la borsa infangata direttamente in lavatrice e torno dalla sua bambina. Riley dormiva con la testa leggermente piegata da un lato, respirando silenziosamente, senza emettere alcun rumore. Come faceva quando sua figlia era piccola, Santana le appoggiò una mano sul cuore e si rassicurò nel sentire il battito, accompagnato dal suo respiro regolare.
Riley voltò la testa dall’altro lato e una lacrima rigò il viso corrucciato. Santana turbata l’asciugo con la punta delle dita. Poi si chinò a baciarle entrambe le guance e la fronte, un rituale abituale che usava per farla addormentare quando era piccola.
“Un bacio da Brittany. Uno da Santana. E uno per la bambina più importante del mondo.”
Riley era il suo mondo e le voleva bene più di se stessa, anche se non glielo diceva così spesso.
<< Sono molto fiera di te.>> Le sussurrò commossa.
   
 
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