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Autore: Adeia Di Elferas    16/10/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Lucrezia Medici ci aveva pensato parecchio, prima di andare davvero alle Murate. La notizia che voleva veicolare alla Tigre di Forlì, in fondo, poteva esserle riferita anche da Francesco Fortunati, ma la donna sentiva il bisogno di rivedere la Sforza.

Avendo organizzato tutto all'ultimo minuto, non era certa che la Leonessa fosse stata avvisata per tempo del loro incontro, ma sperava di non darle comunque fastidio. In più, quella mattina, sotto una leggera spruzzata di neve, Lucrezia aveva fatto visita, tra le altre, alla tomba di Giovanni in San Lorenzo. Voleva farlo sapere a Caterina e ci teneva anche a dirle che, nel pregare sulla lapide del povero Medici, aveva pensato intensamente anche a lei.

Sperava, soprattutto, di non spaventare la milanese, con il suo arrivo improvviso. Anche per quel motivo, aveva deciso di portare con sé dei doni – poche cose, che potessero facilmente essere scambiate per un presente fatto alla Superiora – sia in vista del vicinissimo Natale, sia per addolcire la Leonessa e toglierle l'impressione che la sua visita portasse brutte notizie.

In effetti quando, sul far della sera, la Tigre venne richiamata da Suor Elena, il suo primo pensiero fu molto cupo. Si immaginò che fosse andato storto qualcosa e che i suoi figli, alla villa, fossero in pericolo. Si immaginò che Lorenzo avesse scoperto il nascondiglio di Giovannino e stesse andando a prenderlo. Si immaginò perfino che il Valentino fosse arrivato in Firenze e l'avesse reclamata di nuovo per sé, non trovando nessuno che gli impedisse di avanzare una simile pretesa.

Perciò fu del tutto spontaneo il sospiro di sollievo che la Sforza emise, quando Suor Elena le disse, con fare pratico: “Io lo trovo rischioso, ma capisco: Madonna Salviati sta arrivando qui per parlarvi e ho pensato di lasciarvi come la scorsa volta il mio studiolo. Qui non vi disturberà nessuno.”

E così a Caterina non era rimasto che attendere l'arrivo della fiorentina. In realtà il sollievo provato venne in fretta sostituito dall'impazienza, dato che quella notte la milanese doveva andare ancora dal figlio al convento d'Annalena e aveva paura di perdere del tempo prezioso, con la Medici. In fondo, si diceva, aveva avuto lunghissime mattine e interminabili pomeriggi, perfino immobili notti inutili, in cui andarla a trovare... Perché si era decisa proprio quella sera, rischiando di sottrarle del tempo prezioso che avrebbe altrimenti trascorso con suo figlio?

Lucrezia non si era fatta aspettare troppo. Era entrata nello studiolo di Suor Elena mormorando un saluto alla Superiora e dedicando un breve sorriso alla Tigre. Aveva con sé un piccolo cesto e portava un velo scuro in testa, a coprire i capelli chiari.

“Vi lascio sole.” disse la monaca, lanciando uno sguardo sia alla Medici, sia alla Sforza, quasi a voler sottolineare come la sua accondiscendenza nei loro confronti fosse un bene prezioso e dedicato a pochi altri.

“Perché volevate vedermi?” chiese subito la milanese, con un tono tagliente che Lucrezia finse di non sentire.

“Ho saputo che non siete stata bene...” iniziò la moglie di Jacopo Salviati, sollevando appena il cesto, ma non riuscendo a continuare il suo discorso offrendo i doni, perché l'altra le stava già parlando sopra.

“Da chi lo avete saputo?” chiese infatti Caterina.

La Medici la osservò un istante. Aveva gli occhi cerchiati e si vedeva benissimo che stentava a riprendersi da una qualche malattia. Anche il suo modo di porsi, più aggressivo rispetto al loro primo incontro, tradiva il suo sentirsi debole e in difficoltà.

“Abbiamo un amico in comune.” le ricordò la fiorentina, sorridendo e facendo del suo meglio per mostrarsi ben disposta.

Aveva già capito la prima volta che la Leonessa di Romagna non era una donna facile con cui avere a che fare, ma la sua determinazione a farsela amica era tale da farle accettare anche il suo modo pungente di fare.

“Un amico a cui forse piace parlare troppo.” commentò Caterina, pensando che Fortunati, certi dettagli, avrebbe anche potuto non divulgarli tanto facilmente.

Si rendeva conto che tenere un rapporto disteso con la Medici e, di conseguenza, con Salviati, era nel suo interesse, eppure in quel momento le risultava molto difficile comportarsi in modo affabile.

Senza contare che, nella sua vita, non aveva quasi mai avuto amicizie femminili e, quelle che aveva reputato tali, si erano rivelate tra le peggiori delusioni della sua vita. Era dunque fatale, forse, che si trovasse involontariamente scettica, davanti alla mano tesa di Lucrezia.

“A ogni modo – prese in mano il discorso la Medici, volendo evitare di parlare di Fortunati – sono venuta qui per dirvi che Firenze eleggerà il Gonzaga Capitano Generale. È questione di giorni, ma il fatto è certo.”

Quella notizia, gradita, ma inattesa, colpì favorevolmente Caterina. La prospettiva di poter scrivere al Marchese di Mantova per anticipargli quell'incarico e prendersene i meriti, rallegrò non poco la milanese che, tuttavia, dopo quel primo istante di euforia, si rabbuiò in fretta.

Abituata come sempre a non considerare nessun favore un dono gratuito, strinse gli occhi e disse, a voce bassa: “Ora vi sono davvero debitrice. Cosa volete in cambio?”

“Come vi ho già detto una volta – rispose Lucrezia, schiarendosi la voce – nulla. Siamo parenti, grazie a Giovanni... A proposito... Oggi sono stata sulla sua tomba e ho pregato per lui anche a nome vostro.”

La Tigre non disse nulla a riguardo, limitandosi a tenere ancora le sue iridi verdi puntate sulla donna. La Medici, capendo che non era il caso di dire altro, si apprestò a congedarsi. In fondo, pensava, quello che aveva da dire, l'aveva detto. La Sforza era una donna intelligente: dandole tempo, ci avrebbe riflettuto e avrebbe capito che in lei aveva trovato una vera amica.

“Vi ho portato delle arance e dei limoni. Ho pensato che li avreste graditi...” Lucrezia si trattenne all'ultimo dall'aggiungere che avrebbe potuto giovarne anche la sua salute malandata, preferendo virare su un campo che ritenne sarebbe stato più apprezzato: “Immagino che entrambi questi agrumi potranno esservi utili anche per i vostri rimedia...”

Caterina non chiese come facesse la Medici a sapere dei suoi rimedi, perché era conscia del fatto che in molti sapessero della sua passione per l'alchimia, ingigantita e dipinta a tinte fosche dai suoi detrattori dopo la sua caduta. Ringraziò in modo un po' secco e accettò il cesto.

“In più – soggiunse Lucrezia – tra pochi giorni sarà Natale e ho pensato che vi avrebbe fatto piacere, ricevere qualcosa in dono...”

Quell'inciso, innocuo nelle intenzioni della Medici, smosse qualcosa di molto profondo e antico, nel cuore della Tigre. Era come se la fiorentina avesse parlato alla Caterina bambina, quella che si nascondeva da quasi trent'anni, quella che si era finta morta, pur di smettere di soffrire, quella che aveva bisogno di tenerezza, di attenzione...

Mentre soppesava il regalo, cercando di fare un calcolo approssimativo della spesa sostenuta dalla moglie di Jacopo Salviati, la milanese sentì un nodo stringerle la gola e gli occhi pungerle.

“Grazie.” ribadì, questa volta trattenendo a stento un pianto commosso: “Se vi fa piacere – volle dire, incurante della voce che tremava e della lacrima che le stava scendendo lungo la guancia – una di queste arance la farò assaggiare a mio figlio, stanotte... Lui non ne ha mai viste, credo...”

Colpita dalla reazione eccessiva della Leonessa, ma a sua volta scossa e intenerita, la Medici annuì subito e le sussurrò: “Ditegli che è da parte di sua cugina Lucrezia, che, pur non conoscendolo ancora, già lo ama come un figlio.”

Solo in quel momento Caterina si rese conto di essersi lasciata andare troppo, arrivando perfino a dare informazioni su Giovannino. Non le importava: sentiva che della donna che aveva davanti poteva fidarsi.

“Glielo dirò.” promise.

“Ora vi lascio ai vostri impegni.” disse la Medici, facendo un passo indietro e andando poi alla porta, rivolgendo alla Leonessa un ultimo sguardo e un saluto accorato: “Abbiate cura di voi. Alla fine avremo la nostra rivincita, statene sicura.”

La Leonessa fece un cenno d'assenso e poi, non appena fu sola nello studiolo, controllò l'entità del dono di Lucrezia. Non si era aspettata una simile opulenza. Immaginava che i Salviati non fossero poveri, anzi, da come ne parlava Fortunati, erano tra i più abbienti in città. Tuttavia rimase lo stesso colpita dal regalo ricevuto.

Come promesso, quella notte quando vide Giovannino gli diede un'arancia. Gli spiegò come sbucciarla e poi gli riferì che si trattava di un dono di una sua cugina, che lui non conosceva, ma che gli voleva molto bene.

Tornata a casa la mattina dopo, mostrò il cesto colmo di agrumi agli altri figli e poi disse, con tono complice a Bianca: “Direi che possiamo organizzarci e fare di questi limoni degli ottimi saponi.”

La Riario, felice per la notizia, annuì subito e poi, occhieggiando verso Galeazzo, che tempo prima le aveva chiesto proprio qualcosa di simile, sorrise: “Ce n'era proprio bisogno!”

Si decise che invece le arance sarebbero state tenute per festeggiare il Natale, con grande scorno di Sforzino, che moriva dalla voglia di mangiarle. Riuscirono a convincerlo solo facendo leva sulla santità del Natale e sull'importanza di fare penitenza fino a quel giorno.

Quella sera, quando si ritirò per la notte, Caterina si sentiva bene, malgrado tutto. Il suo corpo era ancora in affanno, ma il calore che le aveva dato Lucrezia con il suo dono, quello che le aveva lasciato Giovannino, con i suoi abbracci e le sue parole da bambino piccolo, e quello che le avevano riservato gli altri figli al suo ritorno – eccetto Ottaviano, ma da lui, ormai, non si aspettava più niente – le diede una serenità che da molto non sfiorava nemmeno da lontano.

Prima di coricarsi, decise di scrivere una lettera da far recapitare al Gonzaga, in modo che sapesse quello che lei era riuscita a fare per lui.

Con la mano meno di ferma di quanto avrebbe voluto, intinse l'inchiostro e cominciò a buttar giù una frase dopo l'altra, fino ad arrivare al cuore della questione. Fece presente al Marchese di Mantova che i fiorentini, ormai, lo avevano scelto come Capitano Generale e che gli stessi avevano di certo avvisato il re di Francia affinché se ne rallegrasse.

Concluse con un suo pensiero personale che, nella sua ottica, poteva andare ad aiutarla, ma lo fece facendo credere a Francesco Gonzaga che invece il guadagno fosse solo suo. Gli suggerì come fosse importante che quella licenza arrivasse non solo dalla Francia, ma anche dall'Impero.

Così, per sottolineare il più possibile l'importanza di quel dualismo – che per lei avrebbe potuto in parte riconciliare gli interessi dei suoi vecchi nemici, ossia re Luigi, e dei suoi vecchi alleati, ossia Massimiliano – non si trattenne dallo scrivere: 'perché chi me ne parla ce vede dreto summa gloria de V. Ill. S. et bono ordine de la magiore parte de Italia'.

Sistemate le ultime formalità della missiva, la firmò e la lasciò sulla scrivania. Si mise sotto le coperte, scaldandosi in fretta, e poi cercò di tranquillizzarsi. Si addormentò facilmente, cullata dal silenzio di una notte di neve e non si svegliò fino al mattino dopo, poco prima che venisse chiaro.

 

Ippolita Sforza era seduta sul suo scranno di legno davanti al camino. A imbottirle la seduta c'erano cuscini e coperte, per cui le sembrava una sistemazione molto più comoda di quanto non fosse.

Era l'Antivigilia di Natale, ma nel suo cuore, la ventenne non provava alcuna gioia all'idea dell'avvicinarsi della festività che da piccola attendeva con trepidazione. Stava aspettando che suo marito, Alessandro, la raggiungesse. Da qualche giorno, anzi, da quando il corteo ferrarese era passato da Bologna per andare verso Roma, Giovanni Bentivoglio si era fatto nervoso e scostante e pretendeva che quasi ogni sera, dopo cena, il figlio andasse con altri suoi uomini di fiducia, nel suo studiolo per discutere il da farsi.

Ippolita provava una certa insofferenza verso quella nuova consuetudine. Malgrado il passare del tempo, si sentiva ancora una mezza estranea, nel palazzo del suocero e da quando aveva partorito il secondo figlio, poche settimane prima, chiamandolo Giovanni in suo onore, per poi vederlo morire tra le sue braccia, preda di febbri di cui nessuno, tanto tra le balie, quanto tra i medici, era riuscito a capire nulla, sembrava che tutto fosse ulteriormente peggiorato.

Addirittura, il Bentivoglio pareva aver preso quella morte drammatica come una presagio nefasto per se stesso.

“Sforza – aveva decretato Giovanni, riferendosi al primogenito del figlio e della nuora, che cresceva a vista d'occhio, forte e robusto come una piccola quercia – è sopravvissuto, anche se ha avuto una nascita difficile. Mentre il nipote che portava il mio nome è morto. Dio non mi ama più.”

Per qualche giorno, addirittura, il signore di Bologna aveva quasi cercato di addossare la colpa a Ippolita, sostenendo che c'entrasse qualcosa, come se potesse essere davvero stata capace di uccidere un figlio solo per il nome che portava. Poi era rinsavito, ma l'ombra che aveva gettato faticava a dipanarsi.

Così, la figlia del defunto Carlo Sforza, colei che era stata signora di Casteggio, ma che ormai era solo la moglie di uno dei figli di Giovanni Bentivoglio, era stata accantonata e anche se viveva ancora a palazzo, aveva la tremenda sensazione di essere semplicemente di troppo.

“Finalmente sei qui...” disse piano Ippolita, quando vide arrivare Alessandro.

Il ventisettenne le sorrise, e, dopo essersi avvicinato e averle dato un bacio, si mise accanto al camino, un gomito appoggiato alla cornice di marmo e sbuffò: “Da quando mi ha fatto diventare Gonfaloniere di Giustizia, mio padre pensa di avere tra le mani una pedina senza volontà.”

La moglie non commentò, limitandosi a inclinare appena il capo. Sapeva bene quanto quell'incarico non piacesse ad Alessandro, ma era anche conscia che gli introiti – sia diretti sia indiretti – che ne derivavano sarebbero serviti loro per assicurarsi un futuro, magari lontano da quel palazzo.

“Ma dimmi di te.” fece a voce bassa il Bentivoglio: “Cos'hai fatto di bello, mentre mi aspettavi?”

“Ho letto un po' quello – rispose Ippolita, indicando con un cenno del capo un librone di poesie che aveva lasciato sul tavolinetto – e poi sono stata qui ferma a guardare il camino. Lo sai che il dottore mi ha detto di riposarmi...”

Quell'ultimo inciso, che ricordava a entrambi il recente e difficile parto e poi, a breve distanza, la morte del loro secondo figlio, ammutolì tanto la Sforza quanto Alessandro per un po'.

“Quando avremo una casa tutta nostra – disse il giovane, accigliandosi – la potrai riempire di poeti e musici, di letterati e pittori... Non avrai freni: voglio che tu abbia la corte di intellettuali che meriti.”

La Sforza scosse il capo, e poi sospirò: “Non promettiamoci troppe cose.”

“Te l'ho detto: trasferiamoci al Casino di Delizie.” propose una volta di più il Bentivoglio, riferendosi al palazzotto che possedeva a Zola Predosa: “Lì avremmo tutto quello che ci serve e...”

“No, no. Tuo padre non lo vorrebbe.” lo riscosse Ippolita: “Non dobbiamo scontrarci con lui. Non ora che ti ha fatto diventare Gonfaloniere e non prima di vedere cosa farà tuo fratello Ippolito a Roma.”

Alessandro parve sgonfiarsi e poi, scuotendo il capo con forza, si sentì in dovere di dire: “Mio padre non è eterno, e nemmeno il suo governo. Ti prometto che alla fine saremo liberi di fare quello che vogliamo.”

La donna, sorridendo un po' triste, lo guardò, trovandolo molto bello, alla luce del camino, e convenne: “Sì, noi due e nostro figlio. E quelli che verranno dopo.”

Non ne avevano ancora parlato e, la Sforza lo sapeva, suo marito era un uomo troppo buono e gentile per imporle la sua volontà in quel senso. Dopo la morte del piccolo Giovanni erano rimasti così esterrefatti che sembrava impossibile pensare di avere di nuovo un figlio, ma Ippolita aveva già cominciato a ragionarci sopra.

“Hai detto bene, prima.” gli fece notare, mentre lui si avvicinava e le prendeva una mano nelle sue, stringendo con forza: “Tuo padre non è eterno e non lo è nemmeno il suo governo: dobbiamo avere altri figli, lo sai anche tu. Guarda cos'è successo al nostro Giovanni... Se capitasse qualcosa a Sforza, come faremmo noi, senza altri figli?”

Alessandro deglutì e poi, chinandosi su di lei per baciarla, le disse: “Se tu ne hai la forza, io sono d'accordo con te.”

La giovane annuì subito e poi aggiunse: “Ne ho la forza e il desiderio. E non potevo sperare in un marito migliore.”

Compiaciuto da quell'esternazione, anche se ancora molto intristito, il Bentivoglio le propose di andare a dormire, e così la moglie si alzò subito. Erano entrambi stanchi e oppressi dalle preoccupazioni e dal lutto, che aveva portato entrambi a vestirsi di scuro anche quel giorno. Però, stretti l'uno all'altra, mentre camminavano lenti in direzione dei loro appartamenti, entrambi si sentivano un po' più forti, perché il sostegno che si davano l'un l'altro era sufficiente per non andare a fondo.

 

Nel momento stesso in cui si svegliò, Caterina seppe che stava nevicando. Era qualcosa che si avvertiva nell'aria e la luce opalescente che entrava dalla finestra – a cui la donna spesso non metteva gli scuri, per non sentirsi oppressa dal buio – era inconfondibile.

Il sole doveva essere appena sorto e il silenzio che la circondava era qualcosa di quasi inquietante, per quanto era perfetto.

La Sforza fece un paio di respiri profondi, sondando le sensazioni del suo corpo. Paradossalmente, rispetto ai giorni di pioggia, quelli di neve erano meglio, per il suo fisico. Era come se l'umidità fosse minore e, malgrado il freddo, le sue ossa risentissero meno del brutto tempo.

Si sentiva ancora molto provata dai recenti accessi febbrili, tuttavia poteva dire di sentirsi decisamente meglio.

Con un colpetto di tosse, la Tigre si mise a sedere, provando uno strano piacere mentre le coperte le scivolavano via di dosso, togliendola dal tepore che aveva creato. Il fresco che la pervase la ridestò del tutto, dandole una nuova energia.

Fece mente locale e si rese conto che era già venerdì, la Vigilia di Natale. Aveva promesso ai suoi figli che avrebbero mangiato degnamente, la notte di Natale, ma di fatto non aveva ancora dato né consegne né soldi alle cucine affinché provvedessero a comprare quanto necessario. Sfruttando il fatto di essersi svegliata presto, sarebbe andata subito dalla cuoca a dare disposizioni.

Aveva ridotto un po' il personale della villa, senza incappare, almeno per il momento, nelle rimostranze di Lorenzo. Aveva promesso ai servi rimasti che avrebbe pagato di persona i loro salari, ma aveva anche fatto loro presente che al minimo sgarro, non si sarebbe fatta problemi a cacciare chi di dovere.

Non aveva voglia di vestirsi di tutto punto per scendere nelle cucine così, dopo essersi data una sommaria sistemata e aver rimesso a posto il vaso da notte, si infilò una vestaglia e un paio di pianelle che sua figlia Bianca era riuscita a ricavare da vecchie suole trovate in un baule della villa e del tessuto avanzato da un altro lavoro di sartoria. Non si poteva dire che fossero perfette per i piedi della Sforza, ma la donna, tutto sommato, le trovava comode, per stare in casa.

Uscita dalla stanza, facendo qualche conto a mente, per decidere quanta carne far comprare, Caterina avanzò soprappensiero per un po', finché un lontano nitrito attirò la sua attenzione.

Le sue stalle cominciavano a ospitare vari animali, ma, purtroppo, per il momento non possedeva cavalli. I suoi vecchi conoscenti e amici che l'avevano omaggiata con qualche bestia erano stati molto più pragmatici, donandole galline, di recente una vacca da latte, qualche coniglio da fare prossimamente arrosto e alcuni cani da caccia, che sperava di poter usare presto. Perciò un nitrito non poteva che arrivare dalla via che si perdeva verso i boschi...

Corrucciata, la donna andò alla finestra più vicina e in effetti, malgrado la luce ancora incerta del mattino, poté vedere in lontananza la neve in terra sollevarsi furiosa, battuta dagli zoccoli di non meno di tre cavalli.

Con il cuore che si mise subito a battere in fretta, non aspettandosi visite particolari, la Leonessa si strinse meglio nella vestaglia e decise all'istante di andare di sotto, per vedere chi stesse arrivando.

Era inutile sperare che se ne accorgesse uno dei domestici. Con i tagli al personale che aveva fatto, quei pochi o stavano ancora dormendo, o stavano lavorando in cucina o nei locali di servizio, al piano interrato. Quello era un inconveniente che fino a pochi giorni prima non avrebbe avuto. Si trovò a rimpiangere i tempi in cui, anni addietro, viveva in una rocca piena di vedette e sentinelle...

Lanciata com'era, la Tigre si accorse solo in un secondo momento, quando era già a metà scala, che anche qualcun altro stava raggiungendo a passo svelto il portone d'ingresso.

Vide per un secondo i capelli biondi di sua figlia, smossi dal vento freddo che entrò dal portone aperto. A quel punto rallentò il passo. Il fatto che fosse proprio Bianca a correre a quel modo al portone, le lasciava intendere che l'ospite in arrivo non fosse del tutto inatteso. Certo, però, avrebbe preferito che la Riario gliene avesse parlato prima...

Restando indietro rispetto alla figlia, la donna la osservò attentamente mentre, vestita da camera, si protendeva per scorgere l'identità del nuovo arrivato. Più i cavalli si avvicinavano, più si intuiva che fossero tre: uno davanti, ad aprire la strada, e due, abbastanza carichi di bagagli, al seguito. Su ciascuno stava un uomo, ma era solo quello in testa al piccolo gruppo che interessava tanto Caterina quanto Bianca.

La Sforza rimase immobile, mentre guardava la figlia riconoscere Troilo de Rossi e lanciarsi in corsa verso di lui, incurante del freddo e della neve. L'emiliano, appena fu abbastanza vicino, scese dal cavallo ancora in corsa e colmò con qualche rapida falcata la distanza che lo divideva ancora dalla ragazza.

Mentre i due uomini di scorta restavano in disparte, dopo aver recuperato la cavalcatura del loro signore, anche la Tigre cercò di rendersi invisibile, rimanendo quasi dietro lo stipite del portone, il respiro che si condensava in nuvole di vapore e gli occhi verdi che squadravano nel dettaglio l'abbraccio che Bianca e Troilo si stavano scambiando.

Era troppo lontana per dirlo, ma fu certa che si stessero anche baciando. Era sorpresa, in realtà, nel vedere la figlia farsi tanto audace, rischiando di essere vista da chiunque, ma poi capì che l'unica persona a cui, forse, avrebbe voluto nascondere quella storia era lei, e dato che ormai lei sapeva tutto, che senso avrebbe avuto essere discreti?

Da quella distanza, i capelli biondi e sciolti di Bianca e la figura massiccia e alta di Troilo ricordarono molto alla Sforza i suoi genitori: Lucrezia Landriani e Galeazzo Maria Sforza. Erano ricordi sfocati, ma era certa di averli visti abbracciarsi a quel modo tante volte, quando era piccola.

'Si amano' pensò, senza alcun indugio, come se la similitudine che la sua mente aveva fatto ne fosse la prova tangibile.

Fu tentata di fare qualche passo avanti, magari di chiamare la figlia, o di chiedere a voce alta chi fosse arrivato, non tanto per dividerli – sapeva che, comunque, sarebbero stati ancora più vicini, nei prossimi giorni – ma per evitare loro di essere visti da altri e di dover poi fare i conti coi pettegolezzi. Lei c'era passata, con Giacomo, all'inizio del loro amore, e non voleva che Bianca provasse le stesse cose, nemmeno se in forma ridimensionata.

Alla fine, però, non se la sentì di interromperli. Lasciò che si godessero quel momento di pace, stretti l'uno all'altra, a scambiarsi baci e parole veloci. Se qualcuno, per caso, li avesse visti e avesse poi osato fare qualche commento in merito, ci avrebbe pensato lei a farli tacere. In fondo la chiamavano la Leonessa di Romagna non a caso: quando voleva, sapeva ruggire e sapeva farlo bene.

Solo quando Bianca si voltò un attimo e, evidentemente, la notò, vicino al portone, dicendo poi subito qualcosa all'orecchio di Troilo, la Sforza sollevò una mano in segno di saluto. Anche in quel frangente, però, non volle sembrare invadente: avrebbe lasciato che fossero sua figlia e il suo innamorato a raggiungerla all'ingresso della villa, senza andare loro incontro. In quel modo avrebbe dato loro il tempo di dirsi quello che si dovevano dire prima di arrivare al suo cospetto.

   
 
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