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Autore: Imperfectworld01    19/10/2021    1 recensioni
Corre l'anno 1983 quando la quindicenne Nina Colombo ritorna nella sua città natale, Milano, dopo aver vissuto per otto anni a Torino.
Sebbene non abbia avuto una infanzia che tutti considererebbero felice, ciò non le ha impedito di essere una ragazza solare, ricca di passioni, sogni e aspettative.
Nonostante la giovane età, sembra sapere molte cose ed essere un passo avanti alle sue coetanee, ma c'è qualcosa che non ha ancora avuto modo di conoscere: l'amore.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Scolastico, Storico
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Ventuno.

A partire da dopo pranzo, per il resto di quella giornata e gran parte di quella seguente, fui impegnata perlopiù nello studio "matto e disperatissimo", come si suol dire.

Volevo fare una bella figura davanti ai miei nuovi professori e farmi vedere preparata al meglio. Inoltre, quando mi mettevo in testa di fare qualcosa, mi ci impegnavo sul serio, qualsiasi essa fosse, fino a rischiare di impazzire.

Stavo rileggendo e parafrasando a voce il testo di greco per l'ennesima volta, quando Vittorio irruppe in cucina e si diresse a falcate verso il frigo. «Sto morendo di fame, tanto che mi mangerei pure te!» esclamò, e io alzai lo sguardo dal libro per fissarlo accigliata. «Certo che il frigo è sempre vuoto in questa casa!» sbraitò.

Magari perché si scofanava tutto due minuti dopo aver fatto la spesa.

«Ti dispiace? Starei finendo di studiare» gli feci notare, mostrandogli il mio libro e desiderando ardentemente, dentro di me, di lanciarglielo su quella sua testa vuota.

«Ancora?!» fece stralunato. «È da due giorni che ripeti queste boiate, ormai le ha imparate anche Giuseppe. Prenditi una pausa, Nina, finirai con l'avere una crisi di nervi» disse, prima di addentare una mela che aveva appena preso dal frigorifero.

«No, non posso, perché le ripeto ancora male» mi impuntai.

«Perché sei stanca. Fidati di me, non fa mai bene esagerare con lo studio.» Si avvicinò a me e mi appoggiò una mano sulla spalla per farmi una specie di massaggio. «Senti? Sei tutta tesa.»

«Ma dai, non sapevo di avere a che fare con un fisioterapista» commentai sarcastica ma lui non mi ascoltò nemmeno.

Chiuse la pagina del mio libro ignorando le mie proteste, dopodiché mi fece alzare in piedi e mi trascinò fuori dalla cucina di peso. Appoggiò entrambe le mani sulle mie spalle e si avvicinò con la bocca al mio orecchio: «Adesso ce ne andiamo a fare un giro, perché tu hai bisogno di svagarti e di respirare aria nuova» sussurrò.

«Vorrei, ma...» Mi tappò la bocca con l'indice e mi impedì di continuare a parlare: «Shhh! La scuola è iniziata da una settimana e non la voglio una sorella esaurita, perché il tuo fare così tanto mi fa sentire in colpa per il mio fare così poco, e a me piace molto essere un fannullone, perciò ora vai a lavarti dato che puzzi e poi usciamo» ordinò, e storsi il naso un paio di volte durante il suo discorso.

La prima quando mi chiamò "sorella"; la seconda quando mi disse che puzzavo.

Tuttavia non replicai, dal momento che sembrava non ci fosse niente che avrei potuto fare per fargli cambiare idea.

Dopodiché sentii un gran vociare provenire da fuori, presumibilmente era qualcuno posizionato sotto al nostro balcone.

«Allora? Ti muovi o no?» urlò qualcuno, e Vittorio mi prese per mano e mi portò fuori in balcone.

Mi affacciai e vidi in effetti un gruppo nutrito di persone. Più in particolare, erano gli amici di Vittorio: Giovanni, Erica, Monica, Riccardo, Fabio e Filippo.

Tutti al completo, che gioia.

«Non è colpa mia, è colpa di Nina che non vuole uscire di casa perché preferisce studiare» gridò Vittorio dal balcone e io lo fulminai con lo sguardo. Ero già pronta a tornare dentro, ma Vittorio saldò la presa sulla mia mano e me lo impedì. «Ditele qualcosa, su! Se non viene lei, non vengo neanch'io.»

«Vittorio, che palle che sei! Mi stai facendo perdere tempo e...»

«Dai, Nina, butta i libri dalla finestra e vieni con noi!» mi incoraggiò Giovanni. «Oppure buttati tu giù dal balcone se preferisci» aggiunse ridacchiando.

Il problema non era che non lo volessi, era che non potevo permettermelo.

Però... ecco, forse avrei potuto riprendere dopo cena, e ripassare qualcosa anche la mattina seguente, sul tram. Sì, avrei fatto così. Mi ero segregata in casa troppo a lungo, e in fondo aveva ragione Vittorio: non potevo impazzire per la scuola, specie perché era appena iniziata.

«Va bene, datemi qualche minuto e poi scendo!» esclamai, prima che loro esplodessero in ovazioni e fischi, mentre Vittorio mi percosse ripetutamente in modo scherzoso, poi mi spettinò tutti i capelli e infine mi lasciò un bacio in fronte.

Gli mostrai il dito medio e andai in bagno a darmi una sistemata. I capelli, sebbene fossero un po' arruffati e spettinati, non erano ancora da lavare, quindi infilai una cuffia in testa ed entrai in doccia per lavarmi solo il corpo, così avrei anche fatto più in fretta.

Una volta dopo essermi data una pulita e una rinfrescata, andai rapida in camera a vestirmi. Faceva un po' più freddo rispetto agli altri giorni, perciò scelsi dei pantaloni lunghi e un maglione rosa confetto, lo stesso che avrei voluto mettere alla festa ma che Benedetta mi aveva impedito di indossare.

Mi spazzolai i capelli per togliermi i nodi e infine misi le scarpe ai piedi. Tornai in salotto da Vittorio e mi annunciai con un solenne: «Eccomi! Possiamo andare».

Annuì e poi, dopo aver salutato Giuseppe con qualche carezza e qualche bacio, si avviò verso la porta di casa, seguito da me.

«Potevi uscire con i tuoi amici anche senza di me» dissi, nel mentre che attendessimo che quell'ascensore lentissimo giungesse al piano terra.

«Lo so, ma mi faceva piacere che venissi anche tu, e anche a loro.»

Roteai gli occhi. «Ah sì? A chi faceva piacere?» domandai scettica.

Con Riccardo e Fabio avevo parlato sì e no due volte, con Erica idem, Giovanni era uno a cui andavano a genio più o meno tutti. Monica non ero ancora riuscita a inquadrarla e non capivo se mi avesse realmente presa in simpatia senza un apparente motivo o se, al contrario, fosse tutta una messinscena.

Infine c'era Filippo... ora che era finalmente riuscito ad avere un bacio da me, era quasi certo che non gli importasse più nulla di me, ero alla pari dell'altra dozzina di ragazze con cui aveva avuto a che fare.

Ma forse era meglio così, almeno non mi avrebbe più dedicato quelle morbose attenzioni. Magari saremmo diventati davvero amici.

In fondo, nonostante i nostri screzi e le nostre incomprensioni, sapevo che era una brava persona. Anzi, forse il maggiore ostacolo all'instaurarsi di un rapporto amicale fra di noi fino a quel momento era stato il mio pessimo carattere, piuttosto che il suo atteggiamento nei miei confronti.

Feci queste riflessioni nel mentre che io e Vittorio ci dirigevamo fuori dal portone di casa. Sollevai lo sguardo che fino a quel momento avevo tenuto rivolto verso il basso, e mi preparai a salutare i ragazzi e le ragazze.

«Nina! Meno male che ti abbiamo convinto!» esclamò Monica, prima di gettarmi le braccia al collo come suo solito e baciarmi entrambe le guance.

Fortunatamente ero piuttosto abile a nascondere le mie emozioni e a non lasciarle trasparire attraverso le mie espressioni facciali, perché di certo non avrei ricambiato la contentezza e l'allegria di Monica. Era probabile che se ne fosse ugualmente resa conto, considerando la mia scarsa indole a mostrarle affetto e la mia postura rigida e distaccata, tuttavia non sembrava le interessasse.

Mi separai da lei in fretta e passai a salutare gli altri, mentre nel frattempo l'ansia cresceva dentro di me, perché sapevo che prima o poi mi sarebbe toccato salutare Filippo.

Non avrei saputo in che modo salutarlo. Dopo ciò che era successo venerdì sera, sarebbe stato ipocrita da parte mia rifiutarmi di dargli un bacio sulla guancia come facevo con tutti gli altri, ma temevo che facendolo avrei dato troppo nell'occhio: non sapevo cosa sapessero le ragazze e i ragazzi di ciò che era successo e, anche qualora Filippo non fosse corso a spifferare tutto ai quattro venti, comunque un'idea se l'erano già fatta dato che ci avevano quasi colti in flagrante.

Feci durare il saluto con Giovanni più a lungo, perdendo tempo a chiedergli come stesse e complimentandomi per il nuovo taglio di capelli, proprio per ritardare il momento in cui avrei preso una decisione in merito. Ma alla fine mi diede le spalle e si allontanò, e io mi trovai davanti il biondino senza preavviso.

Trasalii e distolsi subito lo sguardo da lui. Poi lo risollevai non appena avvertii che muoveva qualche passo nella mia direzione. Protese il viso in avanti come a volermi lasciare un bacio sulla guancia, ma all'ultimo si arrestò, nel momento in cui incrociò il mio sguardo. A quel punto feci per avvicinarmi io a lui, ma proprio quando eravamo vicini a tal punto da far sfiorare le nostre braccia, si scostò bruscamente e andò a dare una pacca sulla spalla a Vittorio.

Rimasi a fissarlo confusa e irritata per qualche istante, e qualcosa dentro di me mi suggeriva che sapeva che lo stavo fissando, sebbene facesse del suo meglio per evitarmi e proseguire la conversazione con il suo migliore amico.

Mi lasciai sfuggire un sospiro piuttosto profondo e scocciato, ma poi mi dissi che non c'era alcun motivo per offendersi e mettere il muso, perciò forzai un sorriso e andai a inserirmi in un discorso delle ragazze, nel mentre che cominciavamo a incamminarci presumibilmente al parco Sempione.

«Ah, io uno bello così non lo troverò mai! Ha proprio tutte le caratteristiche che piacciono a me: alto, capelli folti e lunghi, occhi chiari, tratti delicati...» Monica parlava con voce e occhi sognanti, e mi incuriosì il soggetto del suo discorso, tanto che mi intromisi per chiedere di chi parlasse.

Quella descrizione mi fece pensare in immediato a una persona: Vittorio. Eppure mi sembrava strano parlasse di lui, considerando che era già tanto se si ricordava il suo nome.

«Ma come chi? Umberto Tozzi! Peccato abbia più del doppio dei nostri anni...» rispose Erica, lasciandosi andare a un sospiro amareggiato.

«Pensa che stavo pensando che quando sarò grande chiamerò mia figlia Gloria, proprio in onore della sua canzone» continuò Monica.

«Ma dai! Sai che ci avevo pensato anche io?» fece Erica, prima di batterle il cinque, come probabilmente Vittorio aveva insegnato loro.

Nel sentire quelle dichiarazioni, scoppiai a ridere spontaneamente, seguita poi dalle due ragazze. Peccato che forse, più che ridere con loro, stavo ridendo di loro. Era una delle cose più ridicole che avessi mai sentito, eppure qualcosa mi diceva che quello era stato il pensiero di molte delle seguaci del famoso cantante.

Dopodiché, su iniziativa di Monica, iniziammo a cantare a squarciagola la canzone in questione, nel mentre che i ragazzi si coprivano le orecchie con le mani: «Delle anatre che si strozzano col cibo sarebbero più intonate di voi tre!» esclamò Giovanni, e io risi.

A quel punto interrompemmo il nostro piccolo concerto.

«E invece qual è il tuo prototipo di ragazzo?» mi domandò Erica a un certo punto, nel momento in cui mettemmo piede dentro al parco.

Mi sentii a disagio per via quella domanda, perché non avevo una risposta da dare. Non mi era mai piaciuto nessuno, nessuna piccola cotta neanche da bambina, che io ne avessi memoria. In più, il tono con cui me lo chiese, faceva sottintendere che si aspettasse una risposta in particolare. E sapevo anche quale.

Tuttavia, non mi sarei mai fatta mettere in bocca parole da altre persone. «Nessuno, non ho nessun tipo in particolare» risposi con orgoglio, riconfermando la mia solita posizione di disinteresse verso certe cose.

Erica e Monica si scambiarono un'occhiata complice, prima che la seconda proferisse parola: «Sicura sicura? Non so, pensavo che magari ti piacessero i ragazzi biondi, occhi azzurri, con la pelle chiara e dorata, labbra carnose e da sogno...»

Un brivido mi percorse la schiena e il cuore mi batteva più che mai. Volevo mostrarmi come se quelle frecciatine non mi toccassero minimamente, ma non era così, dentro di me stavo morendo dall'imbarazzo.

E, come succedeva spesso in situazioni incresciose come questa, l'unico modo per tirarmene fuori era quello di ricorrere alla cattiveria, pur sapendo che sarei risultata scortese: «Sicura di non star parlando di te invece che di me?» dissi. Se l'avessi detto con tono tranquillo e l'avessi buttata sul ridere, non avrei fatto la figura dell'antipatica; invece io avevo usato apposta un tono pungente e sarcastico, per farle intendere che doveva lasciarmi in pace.

E, contrariamente a quello che poteva sembrare, Monica era tutt'altro che stupida, infatti emise un sorriso forzato e poi si allontanò insieme a Erica.

Sospirai. L'avevo fatto di nuovo. Avevo reagito male davanti a quella che era una semplice provocazione, probabilmente più uno scherzo innocente che una derisione. Accidenti alla mia tremenda boccaccia.

Poco dopo fui avvicinata da Giovanni, che mi cinse un braccio attorno alle spalle. Mi irrigidii per via di quel contatto, ma comunque lasciai perdere. «La signorina qui presente mi deve una rivincita a carte» bisbigliò.

Mi voltai verso di lui con un sorriso. «D'accordo, esaminerò la Sua richiesta e Le farò sapere se accetto la sfida o meno» risposi, dandomi un'aria autoritaria.

Aggrottò la fronte e mi fissò di sottecchi.

«Il fatto è che non c'è gusto a giocare con te, è una pura noia!» esclamai ridendo e lui sgranò gli occhi come se avessi detto una cosa fuori dal mondo. «Non guardarmi così. Tu giochi l'asso di briscola alla prima mano e poi dici: "Ah, merda, sono proprio imbesüì, non me n'ero nemmeno accorto!"» spiegai imitando il suo modo di parlare, e lui non trovò niente da obiettare, perché in fondo sapeva che avevo ragione.

In quel momento mi accorsi che ci eravamo fermati. Avevamo individuato l'area in cui assestarci. Era praticamente l'unica in tutto il parco, in effetti, dove c'era un grande spazio, così che non dovessimo stare tutti appiccicati. Infatti, nonostante fosse tardo pomeriggio e non ci fosse così tanto caldo, il parco era pieno di gente.

C'erano famiglie con bambini che scorrazzavano da ogni parte, gruppi di ragazzi come noi che si godevano il dolce far nulla, gente che giocava a palla, persone che leggevano o studiavano sedute sotto l'ombra degli alberi, coppie che passeggiavano mentre si gustavano un gelato oppure una bibita fresca.

Giovanni mi tolse il braccio dalle spalle e poi si tolse lo zaino di dosso e lo aprì, pronto a tirare fuori un telo. Così fecero anche Vittorio e Riccardo, mentre Erica tirò fuori un pacco di patatine, Fabio delle lattine di birra e Filippo, proprio come qualche settimana prima, un paio di bottiglie di vino e Monica qualche calice.

«Non dirmi che è ancora quella schifezza dell'altra volta» fece Vittorio, guardando con disgusto le bottiglie tirate fuori dall'amico.

«Fa citu, o questo o il Tavernello in cartone dell'Esselunga» rispose Filippo, mettendolo a tacere.

Avrei voluto avere un dizionario per poter comprendere tutte quelle espressioni in dialetto. Talvolta mi sentivo fuori luogo, quando i miei coetanei oppure anche Vittorio e suo padre instauravano un discorso completamente in Milanese, e io ero in grado di coglierne sì e no due parole.

Alcune cose poi si capivano dal contesto, come in questo caso, oppure erano parole molto simili all'Italiano; nonostante le capissi, però, mi sentivo ugualmente a disagio, come se in qualche modo venissi esclusa da quel mondo, da quella città, alla quale appartenevo soltanto per metà.

Comunque mi stesi su uno dei teli, in mezzo a Giovanni e Erica, e cercai di scacciare quei pensieri e godermi il resto del pomeriggio che rimaneva.

 

   
 
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