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Autore: ChiiCat92    22/10/2021    2 recensioni
"Quando suonò la campanella Sasuke spostò lo sguardo sull’orologio sollevando appena un sopracciglio.
“Di già?”
Mai un’ora gli era sembrata volare via così in fretta.
I ragazzi temporeggiarono a mettere via le loro cose, abituati alla sua severità e alle occhiate rosso fuoco se per caso facevano cadere una penna a terra.
« Non avete sentito la campana? » li sgridò, l’intera classe sobbalzò raddrizzando la schiena. « Forza, mettete via tutto e andate. » come se fosse colpa loro." [...]
Questa storia partecipa al Writober indetto da FanWriter, lista pumpWORD, prompt #13 "Ukiyo" ("vivere il momento")
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha | Coppie: Naruto/Sasuke
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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19/10/2021


Quando suonò la campanella Sasuke spostò lo sguardo sull’orologio sollevando appena un sopracciglio. 

“Di già?” 

Mai un’ora gli era sembrata volare via così in fretta. 

I ragazzi temporeggiarono a mettere via le loro cose, abituati alla sua severità e alle occhiate rosso fuoco se per caso facevano cadere una penna a terra.

« Non avete sentito la campana? » li sgridò, l’intera classe sobbalzò raddrizzando la schiena. « Forza, mettete via tutto e andate. » come se fosse colpa loro. 

Come se il problema non fosse lui, che con la testa tra le nuvole non si era reso conto del tempo che passava. I suoi studenti erano stati anche fin troppo pazienti, perdendo preziosissimi minuti di libertà mentre lui si accorgeva dell’orario. 

Un coro di sottili “arrivederci” seguì l’uscita degli alunni dalla classe. 

La sesta ora del lunedì era la più traumatica, sia per loro che per lui. Ma quel giorno era passata sospettosamente in fretta. 

Anche a costo di arrivare in ritardo all’appuntamento, solo per negare a se stesso di stare provando qualcosa di diverso dal solito niente melmoso, sistemò con calma l’agenda nella borsa, infilò lentamente la giacca, spense il computer, tutto calcolando ogni movimento come se stesse giocando una partita a scacchi particolarmente impegnativa. 

Alle 14:05, però, era comunque pronto, e in orario.

Per ultima cosa spense le luci e uscì dalla classe.

Tutto intorno a lui c'era un eccitato frastuono di voci e gridolini di libertà. I ragazzini appena usciti da scuola morivano dalla voglia di tornare a casa a non fare i compiti, giocare ai videogiochi o perdere tempo con i loro amici, come tutti i ragazzini d’altronde.

Lui, invece, moriva dalla voglia di non tornare a casa. 

E per fortuna non era lì che stava andando.

Sentendosi come se stesse camminando a tre centimetri dal terreno. Ogni passo gli provocava un vuoto allo stomaco, alzare le gambe non era mai stato così facile.

C’era ancora una vocina fastidiosa che gli sussurrava malignità alle orecchie, qualcosa che riguardava il fatto che stava per distruggere la sua famiglia, che sua moglie l’avrebbe odiato per sempre, e che sua figlia non avrebbe mai capito. 

Ma con un impeto di egoismo e strafottenza che non provava da quando aveva almeno la metà degli anni che aveva detto, disse a se stesso che non gli importava. 

L’unica cosa che voleva sentire, e di cui voleva godere, era il battito storto del suo cuore, l’affluire del sangue fino alla punta delle dita, e quel desiderio disgustoso di tirare su le labbra in un sorriso.

Non gli capitava di sentirsi così da molto, troppo tempo.

Salutò con un cenno i colleghi che lo salutavano a loro volta, nero come un’ombra e altrettanto silenzioso, camminava a passo marziale verso la sua auto.

C’era un fondo di eccitazione giovanile, il brivido di fare la cosa sbagliata, quella sensazione maledetta che gli faceva formicolare lo stomaco e che provava solo con lui.

Salito in macchina gettò la borsa sul sedile posteriore (cercò in tutti i modi di scacciare l’immagine di Sarada seduta nel seggiolino) e mise in moto. 

Da anni ormai non aveva più problemi a vivere senza un braccio, anche se alcune volte il disagio di stare seduto al posto del passeggero gli rendeva grosso il respiro. 

Squillò il telefono e seppe subito che era un suo messaggio. Sarebbe stata la prima volta che arrivava in orario ad appuntamento, in orario o prima di lui. 

Guidò con calma, sfidando il traffico del rientro, godendosi semplicemente il tragitto. 

Era una bella giornata di settembre, il freddo autunnale non era ancora cominciato, gli strascichi di un’estate fin troppo calda accendevano il cielo di azzurro zaffiro, cose, persone, strade, palazzi, tutto sembrava luccicare sotto una patina di glassa.

Era l’effetto che faceva il tornare nella propria città natale dopo essere mancato tanto tempo, o l’aver ritrovato qualcosa di simile al desiderio di vivere. 

L’appuntamento era in un localino che faceva sporchi hamburger. Naruto avrebbe preferito del ramen, ma chiunque avesse un chiosco in città conosceva la sua faccia, e l’ultima cosa che Sasuke voleva era essere visto mentre pranzava con lui. 

Non che fosse qualcosa di sbagliato, era solo un pranzo, un pranzo tra amici. Un momento caldo e piacevole che gli riempiva il flusso sanguigno di spilli acuminati. 

Parcheggiò ad un paio di traverse dal locale. Avrebbe potuto cercare parcheggio più vicino ma aveva voglia di camminare. Sentiva le gambe anestetizzate e molli, forse perché era stato sei ore in classe, forse perché stava per incontrare Naruto.

Erano passate due settimane da quando era cominciata la scuola. Suo figlio era in classe con lui. Un tipo insopportabilmente diverso da suo padre, ma per questo più gestibile: forse nella sua testa sarebbe riuscito a ficcare qualche concetto.

Ed erano passate due settimane anche da quando lui e Naruto si erano rivisti, e si erano rubati a vicenda quel bacio in aula insegnanti. 

Scacciando il pensiero, e il piacere, di quel bacio, Sasuke era riuscito ad ignorare tutte le richieste di Naruto di vedersi, sentirsi, era persino diventato un ninja esperto in sparizioni: per lui, anche a scuola, era invisibile. 

Per qualche ragione però aveva deciso di cedere, forse perché stanco di sentirlo lamentarsi, forse perché frustrato dai centinaia di messaggi che facevano vibrare il suo telefono a tutte le ore del giorno. Sakura cominciava ad insospettirsi. Peccato che lo facesse per la cosa sbagliata.

Si guardò attorno, fissando l’insegna del locale. Ci era arrivato troppo in fretta, avrebbe dovuto parcheggiare più lontano.

Naruto arrivò con soli cinque minuti di ritardo, una novità per lui, salutandolo con un’insolita timidezza e tenendo lo sguardo basso.

Sasuke alzò gli occhi al cielo, permettendosi di sbuffare. Se Naruto era nei dintorni lui riusciva a provare ed esprimere molte più emozioni del normale.

« Usuratonkachi. » sbottò, facendo sobbalzare Naruto neanche fosse tornato a quando aveva sedici anni. « Che ti prende? Prima mi tartassi di chiamate per vederci di persona e adesso che ci siamo non mi guardi neanche in faccia? » 

Il più grande errore di Sasuke era credere di riuscire a reggere il blu profondo degli occhi di Naruto, senza esserne fagocitato come una piccola barchetta in balia di una tempesta. 

Umidi di pensieri e lacrime, gli occhi di Naruto raccontavano una storia che lui conosceva bene, ma che per anni aveva deciso di ignorare, ed erano accompagnati da un sorriso appena accennato, con gli angoli delle labbra rivolte verso l’alto, fragile all’apparenza ma resiliente. 

« Continuavi a darmi buca, pensavo che mi odiassi. » 

« Se ti fermi un attimo a pensare, cosa che non fai mai di solito, avresti capito che non ho mai detto di non odiarti. » 

Naruto diede in una risata a quella risposta, e con lo spirito sollevato, prese Sasuke a braccetto ed entrarono nel locale. 

Avrebbero ordinato hamburger e patatine, una birra, alette di pollo, si sarebbero parlati del passato, delle loro famiglie. Avrebbero evitato di toccarsi, con gli sguardi, con le parole, ma poi le loro mani si sarebbero incontrate sul tavolo, nell’atto di prendere un tovagliolo, di versarsi ancora da bere, o nel cestello caldo e unto delle patatine.

Avrebbero ritrovato la bellezza delle cose semplici, il calore di un sentimento rimasto sepolto dentro di loro per così tanto tempo a subire così tanta pressione da essere tornato in superficie come diamante.

Avrebbero rimpianto il tempo perso, parlato dell’incidente e di come le loro vite erano cambiate troppo presto troppo in fretta.

Avrebbero parlato di loro, di sé, di solitudine, di infelicità.

Avrebbero ignorato le chiamate perse delle mogli e mandato messaggi lapidari di scuse per il ritardo, nella speranza di allungare verso l’infinito quell’istante. 

E poi le loro mani sarebbero rimaste intrecciate, non sotto il tavolo, ma sopra, dove chiunque avrebbe potuto vederle.

Perché niente, in quel momento, avrebbe avuto più valore del ritrovare l’altra parte di sé. 

Forse sarebbero rimasti seduti a quel tavolo, forse si sarebbero alzati per andare altrove.

Nessuno avrebbe saputo dirlo, neanche loro. 


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The Corner 

Dato che avete apprezzato tanto quella mini-long che ho scritto su questa AU moderna, ho deciso di regalare un altro scorcio, un piccolo momento di vita vissuta, che non racconta niente ma che allo stesso tempo racconta tutto.
Riempitelo pure con tutto quello che volete, prima, durante o dopo, questo è solo una goccia.

Chii
   
 
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