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Autore: JSGilmore    23/10/2021    0 recensioni
Rachele ha sedici anni e due fratelli, Elia e Filippo, che non potrebbero essere più diversi tra loro. Elia è avventuroso, indipendente, un viaggiatore con l'ossessione per il mare, e dopo la morte del padre gli hanno affibbiato il ruolo scomodo di capofamiglia, forse è per questo che ha sempre quel fastidioso atteggiamento paternalistico. Filippo, d'altro canto, è legato visceralmente alla terra ferma, alla sua casa, alla famiglia. Entrambi hanno una passione in comune: Rachele, la sorella, che di sorella sembra aver ben poco. Tutto comincia quando Elia torna a casa dopo tre anni passati in mare a girare il mondo in barca a vela, le cose a casa sono cambiate, Rachele è cresciuta e Filippo è diventato più possessivo nei suoi confronti...Quasi quanto lui.
Qual è il mistero che si cela dietro la loro famiglia? Di quali segreti Rachele sembra essere all'oscuro?
Un'avventura, un segreto, un mistero, un amore impossibile. Sullo sfondo una meravigliosa Isola d’Elba.
"E ricordati di non avere paura del vento, perché muove il mare e lo preserva dal diventare melma".
Escape vi aspetta in questa versione "inedita" con contenuti extra non presenti su Wattpad.
(Crediti: storia Liberamente ispirata a Georgie e Outer Banks)
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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La banchina proseguiva per qualche metro, con le attrezzature per il carico e lo scarico delle merci. Nell’aria salmastra si propagava l’odore pungente del carburante delle barche. Ero coperta di sudore. Lui sarebbe dovuto arrivare per mezzogiorno: era in ritardo di ore.

Il mare era violento. Si gonfiava, cresceva, sbatteva contro le rocce e faceva tremare il mondo. Si scrollava di dosso ruggiti, petrolio e fango. La sua furia s'incuneava nel cielo e, mescolandosi con il vento, mi arrivò in faccia, potente come uno schiaffo.

Il ricordo di Elia mi riempiva la testa, ce l'avevo aggrappato dentro, era così ingombrante da spezzarmi i respiri. Se n'era andato via con troppa crudeltà, portando con sé ogni cosa.

Gli occhi azzurri di mio fratello Filippo sbocciarono all’alba di stopposi ciuffi biondi: aveva quell’aria colpevole di chi mi studiava di nascosto da un bel po’. Teneva le mani nelle tasche di una leggera giacca verde militare, le spingeva più a fondo possibile, quasi cercasse di infilarcisi per intero. Fece un sorriso schivo. «Sembri agitata.»

«No nient’affatto», mio fratello buttò piano la testa all’indietro e mostrò il collo bianco alla luce, scoperchiò i denti ed emise un sospiro divertito. Un tempo mi era concesso dirgli qualsiasi cosa, ora il nostro rapporto si era gradualmente ritirato e trasformato in uno di quei soliti legami convenzionali, cordiali e riservati. «Filo... Perché Elia torna proprio adesso?»

Proprio adesso che avevo imparato a stare senza di lui, ma Filippo non raccolse. Scrollò le spalle e si strofinò la bocca. «Magari, ha allargato i suoi orizzonti a sufficienza...»

«Come se non fosse già stato di vedute abbastanza larghe. Le ho visto tutte le cartoline che ha mandato a te», lo punii con una leggera gomitata, «Amsterdam DA SBALLO, Berlino UNA BOMBA, Barcellona UNA FIGATA.»

Si massaggiò per gioco la costola e si strofinò di nuovo la bocca, adesso con aria distratta. «Concordo, come scrittore da viaggio non è decisamente all’altezza di Krakauer.»

Il bruciore allo stomaco tornò, ma rispetto ai giorni precedenti era sopportabile e mi permetteva di rimanere in piedi. «Magari c’è qualche significato recondito dietro l’espressione: lo sapevi che l’Olanda è piena di ragazze olandesi?»

«Fossi in te», mi lanciò un’occhiata divertita e il sole estivo gli addolcì l’espressione, «non mi scervellerei troppo nel cercarlo.»

C’era una cosa che avevo capito di Elia e dei suoi sogni: erano testardi, ostinati, inviolabili. Sapevano sempre dove volare e in quali porti attraccare. Erano liberi dai dettami della terraferma e dai giudizi degli altri.

Da quando nostro fratello Elia era partito, l’Isola d’Elba, la nostra isola, era come una barca in procinto di affondare e io ero diventata una specie di relitto. Erano passati tre anni.

Oltre le zaffate di petrolio e di melma, più in alto delle barche nel porto, il sibilo dei gabbiani lacerò il silenzio. Sepulveda diceva: vola solo chi osa farlo, e aveva ragione. Elia ne era la prova vivente.

Quella mattina mi ero svegliata con il tessuto del pigiama incollato alla pelle come nastro adesivo e con un dolore atroce ai denti che si era allargato verso la mascella. Avevo dormito sì e no tre ore in tutto. Era estate e le mie giornate erano vuote. Provavo disgusto verso me stessa e per l’inattività accumulata durante le vacanze, trascorse tra le sabbie mobili della mia cameretta in compagnia dell’ennesima lettura poco avvincente sul giardinaggio. Ogni tanto Filippo tentava di portarmi con sé al mare, ma arrostirmi tutto il giorno sotto il sole senza fare niente mi faceva venire mal di testa. Lui sostenva che fosse comunque meglio che starsene buttati a casa a giocare ai videogames di alieni.

Prima che raggiungessimo Portoferraio, la mamma aveva incaricato Filippo di portare alcune camicie stirate in camera di Elia e lui mi aveva fatto cenno col capo di seguirlo. La stanza di Elia profumava di lavanda, e l’enorme letto al centro della camera era stato appena rifatto. Le tende blu appese alle finestre filtravano la luce dando l’impressione di trovarsi immersi nelle acque dell’oceano. Il tetto era imputridito dalle piogge.

Quella stanza, con le pareti bianche e le cose di mio fratello negli scatoloni, aveva un aspetto di neutrale estraneità. Non c’era più niente che fosse suo, niente che manifestasse un punto di vista o una dichiarazione d’intenti. Quando avevo accarezzato i mobili in legno scuro avevo avuto come la sensazione che tutto bruciasse dall’attesa, come se anche gli oggetti avessero voluto gridare.

Nostra madre amava Elia, viveva solo per lui. Sopravviveva al giorno, alla luce di foschia e caldo, solo per poterlo rivedere. Non riuscivo a superare l'orrore che delle volte la sua situazione mi incuteva. Era dolce solo di sera, quand'era stanca, quand'era troppo sfinita per potersi ribellare.

Quella mattina mi ero guardata a lungo allo specchio e avevo concluso che truccarmi per quella circostanza sarebbe stato imbarazzante: niente mascara, avevo gli occhi già abbastanza languidi, niente cipria, le mie guance d’avorio erano ancora paffute e le mie labbra avevano una disposizione asimmetrica da non evidenziare con un rossetto. C’era qualcosa nel mio viso che esprimeva dissenso, e i miei capelli neri e crespi, in cui i denti del pettine rimanevano sempre incastrati, non facevano altro che peggiorare la situazione. Poi, Elia non sarebbe stato felice di vedermi con addosso qualcosa di così artefatto come il trucco. L’ultima volta che mi aveva vista ero poco più che una bambina, e adesso portavo una terza di seno. Avevo deciso di nascondere il mio corpo sotto un maglione informe, lasciato in eredità dal mio vecchio.

Portoferraio. Il sole calpestava i muri a secco delle case color pastello, azzurro cielo, verde acqua, giallo brillante, con i balconi fioriti, ubicate in vie acciottolate. Tagliava di netto l’asfalto delle strade in zone d’ombra e in zone roventi e rendeva il paese invivibile, deserto, abitato solo da un calore assillante, sembrava un cimitero colorato. Avevamo camminato tra quelle strade come in una messa.

Filippo annusò l’aria. «Ei, Rally, credi che abbia esagerato con il Jean Paul Gaultier?»

Trovavo divertente tutta quella rincorsa al profumo da uno che beveva ancora il latte attaccandosi al cartone. «Quante volte ti ho detto di non chiamarmi Rally?»

Filippo rise, soddisfatto. All’orizzonte si squarciarono le nubi: una barca stava per attraccare. Il vento gonfiava le vele, i gabbiani stridevano e si rincorrevano sopra il susseguirsi lamentoso del mare. Un ragazzo scolpito dai raggi solari stava ormeggiando una barca a vela: sulla fiancata scintillava una scritta. Rally Roger.

Avevo sei anni quando mio padre, dopo una lunga giornata di lavoro al porto, ci aveva raccontato di aver visto una barca a vela di legno, in disuso. Qualche giorno più tardi, con l’aiuto dei miei fratelli, l’aveva riportata a casa. La vernice era scrostata e c’erano diversi strati di colore che la facevano apparire molto più desueta, ma alla fine divenne la barca più bella del porto. Mio padre, che era un’instancabile tradizionalista, aveva proposto di soprannominarla Jolly Roger: ogni barca che si rispetti, diceva, deve avere un nome se vuole solcare le acque dei mari con dignità. Jolly Roger, però, non poteva essere il nome della nostra barca, perché troppo antquato, c’era bisogno di qualcosa di nuovo, di speciale. I miei fratelli mi avevano guardata come se avessi detto qualcosa di buffo e per impedire che potessero liquidarmi come si fa con i teneri capricci, mio padre mi aveva presa in braccio. «Allora, la chiameremo Rally Roger, in tuo onore!»

Da quel momento i miei fratelli non facevano altro che chiamarmi Rally e dietro i loro sorrisetti smorfiosi e imperdonabilmente innocenti si nascondeva una questione irrisolta molto grossa. La cocca di papà ce l’aveva sempre vinta.

La Rally Roger, però, non aveva avuto un lieto fine. Dopo la scomparsa di nostro padre, siamo stati costretti a venderla, per poter sopravvivere finché la mamma non avesse trovato un’occupazione. Era stato Elia a gestire l’affare, dal quale avevamo ricavato una consistente somma di denaro, ma l’addio a quella barca era stato doloroso.

Filippo aveva trovato un lavoro come cameriere dopo la scuola, Elia aveva iniziato come steward in una prestigiosissima nave da crociera per Dubai, che gli permise di comprare una nuova barca, più lussuosa, elegante e spaziosa, la stessa che avevo davanti agli occhi proprio adesso, le cui vele svettavano bianche nel cielo chiarissimo.

Dopo la scomparsa di nostro padre, faticavo a dormire. Ai miei fratelli avevo raccontato che fosse per via di quell’orrenda puzza di lucido per mobili nella mia stanza. Elia rimaneva sveglio, notti intere, accanto a me, e mi raccontava dei viaggi che avrebbe voluto fare, dei progetti che aveva per la nostra casetta di muschio e pietra, di quel ristorante a Capoliveri in cui mi voleva portare, per mangiare una bistecca con patate a prezzo imbattibile.

Elia mi aveva insegnato a coltivare le piante, a far crescere i fiori nella terra, a mungere le mucche e a rotolarmi selvaggiamente giù per le colline.

Una volta, ero sgattaiolata in camera sua, lui mi era tempestivamente corso incontro. Lo avevo stretto talmente forte da strappargli un lamento. Quell’abbraccio non si era sciolto fino al mattino seguente, in cui lui però nel letto non c’era più. A nessuna ragazza vorrò bene quanto ne voglio a te, mi aveva detto prima che mi addormentassi.

Respirai l’acqua, quel suo odore inconfondibile di alghe e di sale; mi sentivo un po’ come una sopravvissuta. Il rumore dei camion e dei clacson si fece sempre più lontano. Il mondo sembrava vibrare disperato. Non era un miraggio. Lui era lì, a qualche metro da noi, un cristone di più di due metri, con la pelle d'ambra, che camminava lungo la banchina, con i ciuffi castani che gli ricadevano sugli occhi; con la sua solita postura fiera, felina, imponente, il corpo talmente sciolto da sembrare elastico. Indossava una camicia color senape, con uno scollo a V, incastrata nei jeans scoloriti, il bacino stretto e le cosce possenti, ma le caviglie ironicamente sottili. Il rintocco dei suoi mocassini mi entrò nelle orecchie. Poi si fermò. Le sue mani tozze penzolavano nell’aria; al polso aveva legato un braccialetto di corda, simile ad uno di quelli che avevamo comprato insieme prima che partisse, da un venditore ambulante sulla spiaggia. O forse era proprio lo stesso.

«Ciao, Rally» disse con tono profondo e leggermente graffiato. La sua voce era cambiata, ma la sua inflessione vagamente pungente quando pronunciava quel nomignolo non era affatto scomparsa. Rimpicciolii. Al collo portava una moneta che brillò. Non alzai la testa, e sperai che gli arrivasse più come un gesto di ostinazione, piuttosto che di sottomissione.

In mezzo a quel viso scolpito nella pietra c’era ben poco di familiare: il mento pronunciato e gli occhi scuri e infossati gli conferivano un’aria piuttosto dura. Un taglio scarlatto brillava in prossimità dello zigomo.

«Ciao, Elia.» Rise. In mezzo a quella risata svogliata, appena derisoria, assolutamente sarcastica, c’era qualcosa di prepotente. Forse era il modo con cui atteggiava la scucchia.

«Come stai gabbianella?» Rimasi incantata dalle sue labbra asimmetriche anche quando smise di ridere.

«Meglio di te sicuro. Ma che hai fatto? Sembri appena uscito da un letamaio.» Mi guardò accigliato, quelle sopracciglia folte sollevate gli davano un’aria svagata e disinteressata. In un attimo, mi fu tutto chiaro. La sua fronte sporgente, il naso gentile, i lobi delle orecchie tondi, la fossetta sul mento, una malinconia remota negli occhi, il profumo di agrumi che emanava la sua pelle. Era tornato davvero. Lui e la sua bellezza becera con la quale aveva conquistato il mondo.

Filippo lo odorò. «Sei ubriaco, per caso? Sento puzza di vodka.» In cambio si beccò un pugnetto sulla spalla e poi, come due rozzi lottatori, si strinsero forte in un abbraccio. Elia gli arruffò i capelli biondi, fece un verso gutturale a metà fra una risata e un grugnito, e Filippo cercò di divincolarsi, senza successo.

«È così che si tratta un fratello appena tornato?», ci rimproverò Elia, ma se la prese solo con Filippo, strusciando le nocche sulla sua cute.

«Per quel che ne so, di accoglienza ne riceverai anche troppa», mio fratello se lo staccò di dosso e si schiacciò i capelli, per rimetterli a posto, «La mamma ha invitato gli zii e i cugini per cena.»

Elia si massaggiò la fronte con le dita e rilassò la mascella, in un’espressione di vergognoso stupore. «Cioè, vuoi dirmi che stasera non potrò farmi finalmente una dormita come si deve?»

«Credo che dovremmo rimandare i pisolini alla prossima volta. Mamma ha anche preparato la torta al cocco, si offenderebbe parecchio, se non la mangiassi.» Gli occhi scuri di Elia si posarono sui miei e stirò le labbra in un sorriso caloroso. «Farò uno sforzo, allora. Stare lontano dalla mia famiglia è stato difficile, dopotutto.»




Note.
Grazie per aver dato una possibilità a questa storia, io spero che questo primo capitolo vi abbia incuriositi almeno un po'. Se vi va fatemi sapere cosa ne pensate lasciandomi qui sotto una piccola recensione. Ci vediamo presto con il prossimo capitolo.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.
   
 
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