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Autore: Koa__    28/10/2021    6 recensioni
Alec Lightwood ha diciotto anni, è un ottimo studente della Columbia High School, ha tre fratelli che adora ed è gay, ma questo nessuno lo può sospettare e tantomeno ne sono al corrente i suoi genitori. Ama la lettura e, alle feste, preferisce film e serie tv. Ha una fobia non poi così irrazionale per i ragni, dato che secondo lui quello è solo buonsenso, ma ciononostante spaventarlo non è per niente facile e i suoi fratelli lo sanno meglio di chiunque. Quell’anno però, in occasione di Halloween, Iz e Jace gli organizzano un vero e proprio tiro mancino mettendolo davanti a ciò che più lo terrorizza: Magnus Bane.
Questa storia è stata scritta per l’iniziativa “Dolcetto o scherzetto” del gruppo Facebook: L’angolo di Madama Rosmerta.
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Izzy Lightwood, Magnus Bane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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La casa stregata di Brooklyn









 

A Brooklyn non c’erano case stregate e questo, Alec non aveva fatto altro che ripeterlo a un’Isabelle che invece pareva assolutamente convinta del contrario. Le aveva anche detto che non esistevano streghe né stregoni e che la magia era una di quelle cose in cui la gente credeva la vigilia di Natale o che ti divertivi a immaginare quando fantasticavi su Harry Potter. Quella che sua sorella insisteva nel definire una “Casa stregata” era in realtà un vecchio palazzo abbandonato, sperduto tra le vie del quartiere. A quell’edificio serviva solo una buona ditta di ristrutturazioni o che qualcuno con la testa sulle spalle si decidesse ad abbatterlo una volta per tutte. Di certo non che dei ragazzini si sfidassero l’un l’altro a entrarci, facendo finta di non esserne terrorizzati. Alec ne aveva sentito parlare spesso, a scuola giravano leggende una più inverosimile dell’altra, ma a suo modo di vedere erano tutte sciocchezze. Si diceva che uno stregone di quattrocento anni vi abitasse e che fosse popolata da spiriti, vampiri, fate e zombie. Beh, per lui erano proprio delle stupidaggini perché certe creature esistevano soltanto nelle favole, quindi a meno che un ragno gigante non fosse sbucato da dietro un angolo, il che sarebbe stato abbastanza terrorizzante, Alec avrebbe continuato a non aver paura. Il fatto che Isabelle ce lo stesse trascinando la notte del trentuno di ottobre, era irrilevante dato che Halloween era soltanto una questione di miti e antiche fiabe horror. Il solo motivo per cui l’aveva seguita era perché non voleva che entrasse là dentro da sola e con Jace ormai del tutto preso da quella rossa, lui era l’ultimo Lightwood disponibile. “A meno che tu non voglia che ci vada con Max” aveva detto poi lei, facendo scattare nell’immediato il feroce istinto di protezione di Alec, che lo aveva portato a schizzare giù per le scale senza pensarci due volte. Non ne aveva voglia, il che non faceva che sottolinearlo aggrottando di continuo le sopracciglia e mantenendo pressoché intatta quell'espressione corrucciata, che a dirla tutta lo contraddistingueva piuttosto spesso, ma non poteva lasciare che Iz mettesse anche Max in pericolo. Ormai, aveva pensato uscendo di casa dopo aver indossato la giacca di pelle, c’era ben poco che potesse fare.


«Quanto ancora dovremo camminare?» domandò Alec, occhieggiando il cielo scuro, intanto che si stringeva le braccia al petto al meglio che poteva. Faceva piuttosto freddo e quelle nubi non promettevano nulla di buono, ci sarebbe mancato solo che si mettesse a piovere, pensò con stizza. Le strade erano piene di bambini mascherati con cestini colmi di caramelle, le vetrine dei negozi così come i portoni delle case erano decorate con zucche intagliate e buffi fantasmini che penzolavano dal soffitto. Persino mamma si era data da fare quell'anno, intagliando una zucca di ben cinque chili che aveva piazzato sul portico di casa dandole un sorriso spettrale e mettendoci all'interno una candela. Aveva anche preparato dei biscotti a forma di dita mozzate e una torta di zucca, forse la parte migliore della sua giornata
«Non molto, eccola.» Lei, ovvero questa fantomatica casa stregata era in realtà un edificio di mattoni rossi, alto almeno cinque piani. * A giudicare dalle condizioni in cui versava il portone d’ingresso non doveva essere abitata da tempo; questo pareva infatti esser tenuto insieme a fatica e i cardini cigolavano ogni qualvolta il vento la faceva sbatacchiare. Alec guardò verso l’alto, quasi volesse sincerarsi che qualcosa non cadesse loro in testa, per nulla rassicurato dalla lunga schiera di finestre rotte e infissi pericolanti, tenuti insieme malamente da precari assi di legno. Sulla sinistra un enorme murale prendeva buona parte della parete, arrivando sino al primo piano. Ritraeva una scritta che recitava: “Sommo Stregone di Brooklyn”. Alec, pur ammirando lo stile e la scelta dei colori, si chiese cosa volesse dire davvero. Era forse una sorta di nickname?
«Sei proprio sicura di voler entrare?» domandò, disgustato dalla catasta di rifiuti che erano stati ammonticchiati lì accanto e nella quale era certo di aver visto almeno cinque o sei ratti.
«Paura, fratellone?» lo stuzzicò Izzy.
«Sì, di mettere il piede su un’asse di legno marcio e rompermi l’osso del collo. Se dovesse succederti qualcosa, mamma e papà se la prenderebbero con me. Per quale ragione credi che ti abbia seguita in questa follia?»
«Perché sei il miglior fratello del mondo» rispose Isabelle, abbracciandolo stretto. Era un po’ come da bambini quando lei gli si aggrappava al collo, dopo che Alec aveva accettato di farle un favore. Ora che ci pensava, la situazione non era poi tanto diversa, la differenza era che questa volta non si trattava di aiutarla con i compiti di matematica o di prenderle una scatola di biscotti dalla cima di una credenza, ma di entrare in una catapecchia affatto rassicurante. Già che doveva farlo, sperava solo che non ci fosse qualche drogato che dormiva in un angolo o che i pavimenti non fossero tappezzati di siringhe infette. E non era poi così improbabile come prospettiva.

«Mh, sarà come dici» mugugnò arricciando le labbra quando una goccia di pioggia gli cadde proprio sulla punta del naso, scivolando giù sino alle labbra «sbrighiamoci a fare questa cosa e poi andiamocene. Potrei fare ancora in tempo a finire il capitolo cinque.»
«Fratellone, te lo devo dire» tuonò Isabelle facendosi strada fin dentro la casa «il fatto che tu stia leggendo di nuovo Il signore degli anelli è francamente ridicolo.»
«A mio modo di vedere, leggere non lo è mai» la rimproverò Alec con un’occhiataccia, intanto che la seguiva dentro a quel posto orribile «e poi ci sono dei dettagli che la prima volta mi erano sfuggiti.»
«Sì, sì» annuì lei, alzando gli occhi al cielo, intanto che accendeva la torcia che si erano portati «vieni con me, voglio andare all’ultimo piano, dicono che è lì che vive il fantasma.»
«Come vuoi, ma vado avanti io» la precedette Alec su per le scale. Non si fidava a lasciarle aprire la strada, senza avere la certezza che non stesse mettendo i piedi su gradini mezzi sfondati. Pertanto le rubò la torcia e infine salì lentamente gli scalini.


 


Quel posto era fatiscente, l’atrio era molto piccolo, sufficiente a contenere una ventina di cassette delle lettere appese al muro, che comunque Alec aveva la sensazione non venissero utilizzate da secoli. Se qualcuno era così pazzo da vivere lì dentro, di sicuro non riceveva posta, nessun portalettere che fosse sano di mente avrebbe oltrepassato quel portone. L’ingresso era scarsamente illuminato e la luce della lampadina che penzolava dal soffitto sfarfallava, accendendosi e spegnendosi ogni pochi secondi. I muri erano ricoperti di scritte che, con il murales che aveva letto all’esterno, non avevano niente a che vedere. Non si soffermò a leggerle, ma aveva notato più di un simbolo fallico e improbabili dichiarazioni d'amore; in effetti non voleva stare in quel posto un minuto di più quindi mise in tutta fretta un piede avanti all’altro. C’era un odore terrificante di piscio e spazzatura e uno squittio in sottofondo suggeriva che non erano i soli in quella stanza, questa volta però i fantasmi non c'entravano nulla. Salire le scale per avventurarsi al primo piano fu quasi un sollievo; per quanto là sopra fosse più nero della notte, almeno l’aria era respirabile. 
«Dov’è che hai detto che dobbiamo andare?» domandò una volta conclusa la prima rampa. Non si era azzardato a sfiorare il corrimano, anzitutto perché era probabile che avrebbe preso il colera se avesse toccato una qualsiasi cosa, ma non era neppure sicuro che non si spezzasse da un momento all’altro.
«Al piano attico» rispose Isabelle «ma se vedi dei vampiri puoi fuggire prima, se ti fanno tanta paura.»
«Smettila di ripeterlo» ribatté a tono, fermandosi di scatto e voltandosi in sua direzione. L’aveva illuminata con la pila e adesso notava molto bene la malizia delle sue intenzioni, non che avesse bisogno di guardarla in faccia per sapere a cosa stesse pensando. D’altra parte Izzy era così diversa da lui… Pur avendo soltanto sedici anni sembrava conoscere la vita e le persone, molto meglio di quanto Alec non fosse mai davvero riuscito a fare e di certo coi ragazzi aveva una certa esperienza. Quei suoi occhi furbi, il doppio senso non poi così velato di certe sue espressioni, la rendevano unica nel suo genere. Ed era imbarazzante avventurarsi con lei in certi discorsi, almeno sino a quando non si decideva a smettere di provocarlo. A quel punto diventava dolce e comprensiva, mostrando quella parte di sé che teneva nascosta sotto strati di sfacciataggine. Era un po’ come Jace, solo molto meno tracotante e piena di sé.
«Ah, già, dimenticavo» replicò Isabelle, stirando un ghigno malizioso «tu non è di queste cose che hai il terrore, vero?»
«Iz, ti sembra che stia andando nel panico in questo momento?» replicò, contrariato. «Hai idea di quanti ragni possano esserci in questo preciso istante attorno a noi? Molti più di quanti non mi piaccia immaginare, grazie tante. Il punto non è avere o meno paura, ma avere la capacità di non farsi condizionare da essa. Questo è il coraggio, quella cosa che chiunque entri qua dentro deve dimostrare di avere, ma che ora della fine non sembra altro che una mascherata. Il coraggio è sapere di avere paura, ma farlo lo stesso perché è giusto che sia così. E non ostentare sicurezza in se stessi, a quel punto diventa solo incoscienza. Quindi non stuzzicarmi ancora con questa faccenda, perché tanto non attacca.»
«Wow» fischiò Isabelle d’ammirazione «fratellone, ora capisco perché gli insegnanti ti adorano. Sei profondo e intelligente.»
«Ora che c’entra questo?»
«Oh, proprio niente» gli rispose facendo spallucce «era solo una considerazione e comunque non era a questo tipo di paura che io mi riferivo, ma non mi sembra il caso di parlarne mentre migliaia di ragni ci stanno osservando, dico bene?» Isabelle lo schiaffeggiò dolcemente sul viso, rubandogli la torcia di mano e superandolo, così da imboccare la seconda rampa di scale. Alec al suo contrario rimase un istante di troppo a fissare il vuoto che veniva man mano inghiottito dal buio; non aveva davvero idea di che cosa stesse insinuando, ma scoprì di non volerlo nemmeno sapere. Izzy si divertiva sin troppo con le provocazioni e Alec non cadeva mai nelle trappole che gli tendeva. Un po’ come quando entrambi notavano un ragazzo carino passare per strada e lei lo toccava dentro col gomito, facendo una serie di battute sconce che avrebbero fatto arrossire un avanzo di galera, e che ovviamente imbarazzavano Alec che arrossiva sino alla punta dei capelli. Sì, perché sua sorella e Jace erano i soli a sapere che fosse gay e per quanto spaventoso fosse stato uscire allo scoperto, adesso era felice di averlo finalmente confessato a qualcuno. Non solo non l'avevano allontanato, non soltanto non li disgustava, ma erano entrambi amici leali e sempre pronti a supportarlo.
«Muoviti se non vuoi che inizino a infilarsi sotto la tua maglietta» gridò lei dalla cima dei gradini. Alec si riscosse solamente in quell’istante, sedando un brivido al solo pensiero che potessero realmente fare una cosa del genere. Infine, dandosi dell’idiota, le corse immediatamente dietro.


 

Scoprì che i piani erano sei, uno più orribile dell'altro, per un totale di dodici rampe di scale. Arrivare sino in cima non era stato emozionante né avventuroso, ma piuttosto noioso e sì, anche disgustoso. Aveva intravisto più scarafaggi quella sera, di quanti non ne avesse incontrati in tutta la vita. Fu solo che contento quando arrivarono all'ultimo piano dov’era situato una sorta di appartamento, che un tempo doveva esser stato parecchio di lusso. Izzy lo aveva definito “Il loft del sommo stregone di Brooklyn”, ovvero quella parte del palazzo popolata da un fantasma che un tempo ne era stato il proprietario. O almeno così recitava la favola, Alec era quasi sicuro che qualcuno l’avesse letta in un libro o se la fosse inventata di sana pianta, spacciandola poi per realtà. Soprattutto perché l’età dello stregone cambiava di volta in volta, in certe occasioni aveva a malapena trecento anni, in altre invece ne aveva più di ottocento. Ad ogni modo, e sebbene la maggior parte di coloro che entravano là dentro si fermassero molto prima di dove erano riusciti ad arrivare, era principalmente quella la meta di qualsiasi stupido ragazzino entrasse nella casa stregata di Brooklyn. Alec ci arrivò senza fatica, era un atleta in fin dei conti, praticava il tiro con l’arco e quel mix di lotte orientali di cui lui e Jace andavano pazzi, ma a un certo momento dovette ammettere di aver quasi pensato di tornare indietro. Tanta strada sarebbe stata del tutto inutile, o almeno così credeva, già perché arrivato nel piccolo atrio che aveva seguito l’ultimo scalino, notò che una luce era accesa dietro alla sola porta là presente. Quella doveva essere per forza di cose la loro meta finale, dato che non c’erano altri piani né ulteriori appartamenti in vista.
«La luce è accesa» disse, abbassando la voce sino a ridurla a un sussurro.
«Wow!» esclamò Isabelle, eccitata «chissà, magari c’è davvero il fantasma di quello stregone là dentro. Andiamo a vedere.»
«Izzy» la fermò Alec, afferrandola per un braccio «ti sembra il caso di entrare? E se ci fosse qualche delinquente che ha deciso di vivere qui, perché tanto nessuno verrebbe a controllare? Se ci sono una decina di criminali, magari spacciatori di droga, che hanno qui il loro covo? A questo ci hai pensato?»
«Oddio, fratellone, come sei catastrofico!» sbottò lei, alzando gli occhi al cielo «non c’è nessun criminale in questa casa e se anche ci fosse, ci sei tu a difendermi non è vero?»
«Isabelle Lightwood» minacciò, con fare severo, portandosi entrambe le braccia al petto e usando quel tono che, ormai lo sapeva, non faceva presa neppure su Church. Una volta riusciva a farsi obbedire con molta più facilità di quanto non riuscisse a fare adesso, ora al contrario era lui a dover sottostare ai voleri di sua sorella.
«Alec, io ci andrò che tu lo voglia oppure no. Quindi deciditi: vieni con me o torni indietro» concluse, marciando in direzione della porta. Quella sconsiderata l’avrebbe fatto davvero, magari col rischio di venire picchiata o rapita da qualcuno, se non peggio. Non poteva davvero permetterlo, quindi decise che visto che non poteva in nessun modo convincerla, almeno l’avrebbe preceduta. Nel caso ci fossero stati davvero degli spacciatori, se fosse entrato per primo avrebbe dato il tempo a sua sorella di scappare e chiamare la polizia.
«Aspetta» le disse, raggiungendola con un paio di ampie falcate «entro prima io e ti dico se è sicuro, poi se davvero non c’è nessuno mi raggiungi subito dopo. Ti va bene così?»
«Oh, grazie, Alec» le saltò al collo Isabelle, baciandolo ripetutamente su una guancia. Lei sembrava felice e in fondo vederla sorridere era il motivo per cui l’aveva accompagnata, quindi ormai tanto valeva entrare in quel dannato loft.

 


Abbassando la maniglia, Alec notò immediatamente che la porta era chiusa a chiave, questa però non era stata tolta né si trovava dall’altra parte, al contrario ce l’aveva proprio davanti agli occhi. Era grossa e pesante, opaca nel materiale e ricordava vagamente l’ottone sbiadito, un tempo doveva esser stata magnifica. Sulle prime lo ritenne strano, così come era insolito che qualcuno si preoccupasse di girare una chiave in una toppa, di un edificio abbandonato. Forse stava davvero entrando in casa di qualcuno e magari il proprietario sarebbe tornato a minuti, forse l'aveva solo dimenticata, si disse. Al massimo si sarebbe scusato per l'intrusione e se ne sarebbe andato, sempre nella speranza che non si fosse trattato di qualche malvivente. Girandola, scoprì che questa era piuttosto dura come se la serratura fosse arrugginita, tanto che dovette far forza per farla scattare. Quando aprì la porta, iniziò scostandola leggermente. C’era una luce fioca che proveniva dall’interno, in seguito avrebbe scoperto che era per merito di un paio di candelabri posti ai due lati opposti della stanza e che proiettavano fasci di luce sul soffitto. Sulle prime però non ci badò, guardandosi attorno con occhi pieni di meraviglia. Era un soggiorno dall’arredamento un po’ antiquato, alla sua epoca doveva esser stato di lusso. C’era un divano di velluto rosso, con due poltrone della stessa fattura e un tavolino al centro del salone. Lì accanto era stato posizionato un mappamondo di legno e poi tutt’attorno al perimetro, c’erano mobili dalla parvenza antica che avevano venature e intarsi. E poi ancora poteva vedere librerie colme di tomi impolverati e un’infinità di vasi e oggetti tra i più strambi che avesse mai visto. C'erano delle strane ampolle sistemate su una mensola le une accanto alle altre, boccette con liquidi trasparenti e ciotole di metallo dentro alle quali non avrebbe per nessuna ragione messo il naso. Ad Alec ricordò vagamente l’immagine che si era figurato dello studio di Silente ad Hogwarts, la prima volta che aveva letto la saga di Harry Potter. Ora capiva per quale motivo la gente credeva che fosse la tana di uno stregone, in pratica mancava solo il vecchietto con la barba lunga e il cappellone da mago! Anche la carta da parati color giallo canarino era stramba, sebbene fosse ormai scrostata in più punti e qua e là si vedesse l’intonaco. Ovviamente i muri erano tappezzati di quadri e tutti di quel gusto seicentesco che aveva sempre trovato affascinante, chissà se appartenevano a qualche pittore che conosceva! Alec pensò che il padrone di quella casa tanto particolare dovesse aver avuto un gusto originale per l’arredamento, quasi esotico a dire il vero. Stava quasi per farlo notare a Isabelle quando alle sue spalle la porta si chiuse di scatto. 
«Izzy!» esclamò, allarmato, bussando ripetutamente in un tentativo di attirare l’attenzione di sua sorella. «Isabelle, apri. Stai bene?»
«Mi dispiace» la sentì gridare da fuori.
«Un colpo di vento deve averla chiusa, ma ora sembra bloccata» disse provando a spingere con tutta la forza che aveva «cerca di girare la chiave.»
«Non è stato il vento, Alec, sono stata io» ammise lei «e sto bene, non preoccuparti per me. Mi dispiace per tutto questo, ma sappi che lo faccio soltanto per te. Ti voglio bene, fratellone.» Poi la voce di Isabelle si quietò e il silenzio scese tra loro. A nulla valsero i tentativi di convincerla a smettere subito con quello scherzo di cattivo gusto, perché non era per nulla divertente. Neppure bussare servì a qualcosa, quindi Alec passò subito al piano successivo. Iniziò a rovistare nelle proprie tasche alla ricerca del cellulare, forse non era il caso di chiamare la polizia per la bravata di una ragazzina pestifera, ma se avesse telefonato a Jace, era sicuro che lo avrebbe tirato fuori da lì. Doveva solo…
«Cazzo!» imprecò, ricordandosi di non averlo più. Verso il terzo piano Isabelle glielo aveva domandato in prestito per inviare un messaggio a Simon, il suo quasi ragazzo (in effetti non era granché aggiornato a riguardo, ma non era di sicuro il momento di pensare a questo), sostenendo che il proprio avesse la batteria scarica, ma dopo di allora non gliel'aveva più restituito. E Alec era stato così occupato a pensare a quei dannati ragni che si infilavano a frotte sotto la sua maglietta, che non aveva neppure pensato di chiederglielo indietro. E ora che avrebbe dovuto fare? Se chiese in preda allo sconforto, scivolando a terra su quello che pareva un tappeto persiano piuttosto impolverato. Guardando i riflessi delle candele che danzavano come odalische sul soffitto, Alec Lightwood sospirò pesantemente; stupido Halloween!


 

«Vedo che hanno fatto anche a te lo stesso scherzetto, begli occhioni.» 


 

Ecco, se Alec considerava la paura dei ragni come un qualcosa di fondamentalmente sensato (perché erano pur sempre esseri con sei paia di occhi, otto zampe, completamente imprevedibili, che avevano delle chele al posto dei denti e in molti casi erano anche velenosi), quello per Magnus Bane era invece il più irrazionale dei terrori. Quello che ora gli stava davanti col suo sorriso sghembo e un corpo da urlo era il ragazzo più bello che avesse mai visto: tratti orientali, pelle caramellata, un pizzetto a decorargli il mento e una cresta di capelli ingellati e glitterati sopra la testa. Vestiva sempre in modo eccentrico con pantaloni dai colori improbabili e camicie eleganti altrettanto strane, aveva gli occhi truccati, anelli, orecchini e un esercito di collane che gli penzolavano dal collo e che si agitavano a ogni passo che faceva. La prima volta che lo aveva visto camminare per i corridoi della scuola, ormai due mesi prima, il fiato gli si era spezzato e il cuore aveva smesso di battere. Quello che gli era apparso di fronte era molto più di un bel ragazzo, era semplicemente un Dio sceso tra i comuni mortali soltanto perché questi avessero la fortuna sfacciata di averci a che fare. Era un angelo e un demone allo stesso tempo. A scuola avevano iniziato a circolare sin da subito le prime voci che lo riguardavano e così Alec aveva scoperto che non soltanto gli piacevano le ragazze, ma persino i maschi. Tutti ormai lo sapevano perché lui stesso non ne aveva mai fatto mistero: “Sono un bisessuale disinvolto” aveva dichiarato in un paio di occasioni mentre lui, ancora metaforicamente chiuso nell’armadio, pensava che fosse un atto incredibilmente coraggioso il dirlo come se stesse elencando le proprie generalità: “Piacere, Magnus Bane, bisessuale disinvolto, diciannove anni, eccetera…” non che glielo avesse sentito dire realmente, ma certo era piuttosto credibile come presentazione. Ad ogni modo quando lo aveva saputo, una scintilla di speranza si era accesa nel suo cuore, salvo poi sentirsi dannatamente patetico. Chiunque trovava Magnus Bane attraente e il suo fascino era talmente magnetico, che persino i ragazzi etero lo ammiravano, facendo di tutto pur di venire invitati a una delle due famigerate feste. Era sempre circondato da tanti amici e aveva uno stuolo di ammiratori dei quali certamente aveva perso il conto; in tutto questo che speranze poteva mai avere uno come lui? Anonimo, banale, non poi così attraente… Alec non era di certo un buon partito. Neanche dava più la colpa alla divisa della scuola, quel Magnus gli aveva fatto capire che quando sei bello, lo sei anche con quella ridicola giacca addosso. Ah, ma se fosse stato un po’ più come Jace o esuberante quanto Isabelle, senz’altro una speranza in più avrebbe potuto averla. Perché quel ragazzo tanto particolare, oltre che estroso era anche infinitamente bello e lui, se paragonato, era davvero poca cosa. Magnus aveva un fisico scolpito e tonico, braccia muscolose sulle quali sarebbe volentieri morto, addominali da urlo e un sedere così sodo che… Per l’angelo, ne era innamorato perso e come mai lo era stato per nessuno. A confronto la cotta che aveva avuto per Jace, sulla quale per altro ci si era tormentato per anni, era stata una cosetta da niente. Alec amava Magnus Bane fin dal primo giorno in cui lo aveva visto quando, accompagnato da un paio di ragazzi del quarto anno, aveva attraversato il corridoio della scuola a testa alta e passo felino. In quel preciso istante aveva davvero avuto paura di svenire: le gambe erano diventate improvvisamente molli e se non ci fosse stato suo fratello accanto a lui, sarebbe caduto a terra come una pera cotta. Sì, forse non lo amava come può amare chi conosce intimamente qualcuno da anni perché in effetti lui, con Magnus Bane non ci aveva nemmeno mai parlato, ma certo quel che provava ci andava molto vicino. 


 

Naturalmente quel Dio impersonificato non lo aveva neanche notato, e come avrebbe potuto? Ogni qual volta lo vedeva dal fondo del corridoio, il giovane Lightwood finiva sempre col nascondersi in bagno e non ne usciva sino a quando la campanella dell’ora non suonava. Aveva fatto più ritardi in quei primi mesi di scuola, che in tutta quanta la sua carriera studentesca. Il fatto era che proprio non ce la faceva a stare nella stessa stanza con lui, sentiva che gli sudavano le mani e la testa diventava rumorosa come un nido di vespe; non era neppure certo di potersi fidare del tutto della propria capacità di articolare due parole di fila, non quando quel figo incredibile gli stava così vicino. E quel che era peggio era che frequentavano persino un corso insieme, letteratura francese era diventato da un interessante corso su alcuni dei suoi autori preferiti, a un vero e proprio incubo. Soprattutto perché il suddetto strafigo gli sedeva sempre accanto e gli sorrideva e quando lo faceva Alec si sentiva morire dentro perché l’oggetto dei suoi sogni era così bello, sensuale, aggraziato nei movimenti e anche così maturo... Non sapeva da cosa dipendesse, forse dal fatto che era più grande, ma gli dava quel sentore di uomo vissuto ed esperto che quando bacia qualcuno sa esattamente cosa deve fare e come farlo. Frequentavano entrambi il quarto anno perché Magnus ne aveva perso uno per colpa di una certa Camille. Non ne sapeva molto a riguardo, le poche informazioni in suo possesso le aveva ricevute da Clary che lo conosceva sin da quando era una bambina, dato che sua madre Jocelyn era molto amica della signora Bane. Ebbene, grazie a lei aveva saputo che aveva lasciato la scuola attorno a gennaio, non diplomandosi e iscrivendosi per l’anno successivo in un istituto diverso. Alec non sapeva cosa gli avesse fatto quella Camille di tanto grave, sapeva solo che la odiava perché Clary aveva anche detto che i due erano stati insieme e che quella tizia non l’aveva trattato bene, e a lui tanto era sufficiente per detestarla. Non che sperasse anche solo lontanamente che potesse succedere qualcosa, eh! Tanto per cominciare, Magnus era il ragazzo più popolare della scuola e lo era diventato in meno di una settimana, il che lo rendeva unico nel suo genere. In due mesi aveva dimostrato di essere anche uno studente eccezionale, tanto che gli insegnanti lo lodavano di continuo per le sue qualità. Frequentava il corso di teatro, attività nel quale si diceva essere incredibile, ma Clary gli aveva anche detto che studiava danza sin da quando era bambino. Tutti lo amavano e ammiravano, non aveva un difetto e poi era sempre preparato, prendeva ottimi voti e aveva stuoli di amici. Quelli che frequentava più spesso erano un ragazzo messicano, che pareva odiare il mondo intero e che si chiamava Raphael, il migliore amico o fidanzato di quest’ultimo (cosa fossero era un particolare che non aveva ben capito) di nome Ragnor, un inglese e un po’ solitario dalla folta chioma di capelli verdi e Catarina, che era dolce e gentile, ma con un cipiglio deciso che tanto gli ricordava Isabelle. Sì, Alec sapeva tutto quello che c’era da sapere su Magnus Bane: era in rotta con suo padre che, per ripulirsi la coscienza, aveva aperto un fondo fiduciario in suo nome rendendolo straricco. Sua madre gestiva un negozio di fiori a Brooklyn e una volta, anni prima, aveva tentato il suicidio. Sapeva che era nato a Giacarta, città nella quale i Bane avevano vissuto sino a quando il loro unico figlio non aveva avuto dieci anni, poi si erano trasferiti negli Stati Uniti. Alec era assolutamente certo di tutte queste cose perché un giorno aveva torchiato Clary a fondo, corrompendola con un nuovo album da disegno e dei pastelli che gli erano costati la paga di due mesi. Di tanto in tanto anche i suoi fratelli lo tenevano aggiornato su questo o quel particolare, come su quanto incredibile fosse il suo armadio, i trucchi che possedeva o che casa magnifica avesse proprio lì a Brooklyn. Già, perché Jace e Isabelle erano diventati amici di Magnus praticamente da subito, andavano spesso alle sue feste e di tanto in tanto pranzavano insieme in mensa. Ricordava ancora con orrore la prima volta in cui li aveva invitati al suo tavolo, c’era anche lui quel giorno e ovviamente era stato un disastro. Quando lo aveva visto camminare verso di lui, sorridergli e quindi alzare una mano così da salutarlo, si era così agitato che aveva fatto cadere il vassoio a terra e si era sporcato le scarpe di sugo al pomodoro, attirando l’attenzione di tutta quanta la scuola. Non aveva voluto aspettare che Magnus ridesse della sua goffaggine, era corso via alla più non posso non guardandosi indietro e nascondendosi in un’aula vuota sino alla fine dell’ora di pranzo. Quello era stato il giorno peggiore della sua vita e le settimane che erano seguite erano state persino peggio dato che tutti non avevano smesso di prenderlo in giro, additandolo come: "Lightwood dita di burro" o “Lightwood l’idiota”. Alec se ne fregava abbastanza delle persone, la parte peggiore era l’aver fatto una figura orribile davanti al ragazzo che amava in segreto. Chissà che idea si era fatto di lui! Se già prima aveva avuto poche speranze, ora non ne aveva più nemmeno una. Da allora non aveva avuto neanche il coraggio di guardarlo negli occhi e persino a lezione di francese rimaneva chino sul libro, rosso come un pomodoro, senza alzare la testa neppure per guardare la lavagna. Non era semplicemente spaventato dalla prospettiva d’incontrarlo di nuovo e di fare ancora la figura dell’idiota o, peggio, di fargli capire di essere innamorato perso di lui, aveva il terrore che tutto questo potesse succedere. E ora, per colpa di sua sorella, si ritrovava faccia a faccia con quella che in fin dei conti era la sua paura più grande. 




 

Era la notte di Halloween e Alec Lightwood non se ne stava steso sul proprio letto a leggere Il signore degli anelli o a guardare per la duecentesima volta Nightmare Before Christmas, ma era invece seduto a terra nell’appartamento di un famigerato fantasma, in quella che da tutti veniva considerata come la “Casa stregata di Brooklyn". E con il ragazzo più bello del mondo a meno di un metro da lui, era come se il suo peggiore incubo si fosse avverato.
«Io…» Voleva essere un qualcosa di deciso, anche se a dire il vero non aveva ben in mente cosa dirgli, ma tutto ciò che uscì dalla bocca fu un pigolio molto simile a quello di un pulcino. Perfetto, pensò, stava nella stessa stanza col ragazzo che gli piaceva e già stava facendo la figura dell’idiota.
«M-Magnus» balbettò e aveva le guance rosse, su fino alle orecchie e poi giù a rendere viola persino il collo. Le mani gli tremavano, la voce era un fiato appena percettibile e gli occhi erano spalancati dal terrore. Iniziò a rimpiangere di non trovarsi davanti un mostro peloso a otto zampe, perché quello in fin dei conti sarebbe stato più facile da affrontare. E invece era scattato in piedi come se qualcuno gli avesse pungolato il didietro con un ago e ora stava premuto contro la porta, sperando che questa lo inglobasse per intero. Si sarebbe accontentato anche di una voragine sul pavimento, ma niente del genere successe e, ancor peggio, il suddetto bellissimo uomo si avvicinò ancheggiando appena. Aveva le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, un modo di fare sicuro, si leccava le labbra e sorrideva. Non doveva guardarlo, non lo doveva proprio fare perché era bellissimo. E poi era mascherato, il che lo rendeva ancora più affascinante. A suggerirglielo non erano tanto gli abiti, quanto la benda che gli copriva un occhio e che lo faceva sembrare un corsaro. Portava una giacca blu cobalto decorata con motivi d’argento che gli scendeva sino ai fianchi, accarezzandoli voluttuosamente e che esaltava le sue forme in maniera perfetta, così come quei pantaloni bianchi attillati al pari di una calzamaglia, che mostravano tutto ciò che Alec Lightwood non avrebbe mai pensato di poter un giorno vedere Aveva una camicia color crema che doveva essere certamente di seta e che aveva dei bottoncini decorati da minuscoli brillantini. Era elegante ed eccentrico, affascinante ed esotico, assolutamente e indiscutibilmente attraente.
«In tutta la mia splendida persona» sorrise questi e, per l'angelo, era così bello quando le sue labbra si tendevano, che gli sembrava di scoppiare. «Io sono stato imprigionato qua dentro dalla mia amica Catarina. Credevo fosse uno scherzetto che mi ha fatto perché mi sono rifiutato di condividere con lei una mezza scatola di cioccolatini, ma ora mi rendo conto che mi ha fatto soltanto un favore. Cioè, sino a un attimo fa le stavo mandando non sai quante maledizioni, soprattutto perché mi ha requisito il cellulare, ma poi sei arrivato tu e ora credo che Cat sarà la mia migliore amica per la vita.»
«Qu-quindi non sei tu il fa-fantasma?» "Bravo, Alec, bella cazzata che hai detto". Certo che non lo era, lo vedeva tutti i giorni da due mesi e sicuramente era in carne e ossa. E poi, come aveva ribadito a Isabelle, gli spiriti erano soltanto sciocchezze.
«Mi piacerebbe essere uno stregone pluricentenario in effetti, mi truccherei e vestirei con uno schiocco di dita e la mia vita sarebbe infinitamente più divertente. No, non sono un fantasma. Al momento sono un pirata. Il pirata dell’amore, se così possiamo dire» concluse, ammiccando con una vena di ironia e malizia neppure troppo velate che fecero attorcigliare lo stomaco di Alec. «Però puoi sempre toccare con mano e accertarti di persona che sia effettivamente di carne e ossa. Fossi in te mi concentrerei sulla carne, occhi blu.» Davanti alla prospettiva di toccare per davvero un altro ragazzo, cosa che per inciso non aveva mai fatto, Alec si sentì avvampare. Magnus stava flirtando con lui? Possibile? O forse era chiuso lì dentro da troppo tempo e le ragnatele gli erano entrate nel cervello? Sì, doveva essere così. Le guance gli divennero viola e istintivamente indietreggiò, scivolando lungo la parete e impattando con un mobile, il cui spigolo si conficcò in un fianco. Gemette e si piegò su se stesso, maledicendosi per aver fatto la figura del cretino per l’ennesima volta.
«N-no, io» balbettò «io non ti voglio toccare.»
«Che peccato, fiorellino, perché sarei disponibile a farmi fare qualunque cosa da un bel ragazzo come te.»
«No, tu» mormorò, terribilmente in imbarazzo intanto che una rabbia indomita gli cresceva nella pancia. Odiava essere preso in giro e il fatto stesso di trovarsi davanti Magnus Bane che gli diceva certe cose, era quasi deludente. Tutti parlavano così bene di lui, che aveva sperato che non si divertisse a ridere degli altri. Per quanto quel giorno in mensa fosse stato troppo codardo per restare e affrontarlo, aveva finito comunque col credere a Izzy, la quale gli aveva ripetuto fino alla nausea che Magnus non lo aveva preso in giro. Lei e Jace dicevano anche che era un ragazzo intelligente, gentile e dannatamente simpatico; possibile che proprio lui avesse tirato fuori il suo lato più cattivo? 



«Non prendermi in giro!» sbottò, con molta più veemenza di quanta non sarebbe stata necessaria. Vide Magnus sobbalzare, ma più che altro perché quella rabbia non poi tanto nascosta lo aveva colto di sorpresa. «So benissimo di non essere bello, quindi non è il caso che tu mi sfotta.» Lo vide boccheggiare, come se le parole che gli aveva rivolto lo avessero sconvolto. Era uno strano modo di reagire davanti a una simile accusa, di solito la gente rideva di lui con ancora più cattiveria e poi lo lasciavano da solo con i propri tormenti. Lui, invece che dargli le spalle o fingere che non esistesse, era rimasto fermo a guardare la luce dei candelabri che rifletteva sulla sua carnagione scura. Alec nonostante tutto non riuscì a fare a meno di pensare che fosse bellissimo. Ed era dannatamente ingiusto, non poteva avere la faccia come quella di un rospo? In quel caso sarebbe stato molto più facile non guardarlo come se dal fondo dei suoi occhi dipendessero i destini del mondo. Oppure no, non lo sapeva, però era probabile che gli sarebbe piaciuto anche se fosse stato ricoperto di pustole.
«Non ti sto prendendo in giro» gli rispose e notò che il tono col quale parlava era cambiato, pareva aver abbandonato la malizia e il sarcasmo, lasciando spazio a qualcosa di diverso.
«Tu n-no… i-io…»
«Trovo davvero che tu sia bellissimo, Alexander» lo interruppe lui con delicatezza «sei il mio ideale in effetti: alto, moro, dall’aria tenebrosa e con due occhioni blu tanto dolci. Sei un muffin ai mirtilli oppure un pasticcino, in effetti non è facile decidere. Anzi no, ho trovato! Sei un cioccolatino alla menta. Amaro e dolce al tempo stesso.»
«Tu sai chi sono?» gli chiese, inaspettatamente. Questa non se l’era davvero aspettata e sì, gli piaceva. Di solito odiava il proprio nome, gli ricordava i rimproveri dei suoi genitori e tutte le occhiatacce cariche di delusione che gli riservavano perché ogni volta erano condite da frasi come: “Potevi fare di meglio, Alexander”o ancora: “Jace ha ottenuto di nuovo un punteggio più alto del tuo, Alexander”. In quella notte di Halloween scoprì tuttavia che se, detto in quel modo, il suo nome sembrava persino bello. Era attirato dalla maniera in cui Magnus pronunciava una a una quelle lettere, accarezzandole con fare dolce e dando loro il giusto rispetto come se si fosse trovato avanti un qualcuno di antico e imperioso.
«Cioè, ti ricordi di me? Facciamo letteratura francese» aggiunse poi, ma solo perché in cuor suo temeva che avesse indovinato per puro caso.
«Ma certo che so chi sei» replicò Magnus e di nuovo le sue espressioni erano divorate dallo stupore «è dal primo giorno che ti ho visto che cerco di parlare con te, ma sei un tipo difficile da agguantare. Appena ti vedo scappi da qualche parte, è perché hai tanto da fare o davvero non ti piaccio? Tua sorella Isabelle sostiene che non sei di molte parole, io però non sono della stessa idea.» Non lo era? Ma in che senso? Si chiese, come se di tutto quel discorso avesse compreso soltanto l’ultimo passaggio. Iz aveva ragione: non era mai stato un gran chiacchierone, neppure con i suoi fratelli e tantomeno con mamma e papà. Non che non avesse nulla da dire, al contrario di concetti da esprimere ne aveva a fiumi e dentro la sua testa talvolta si formavano interi monologhi e osservazioni che poi puntualmente teneva per sé. Era sempre la timidezza a fregarlo, combinata alla paura di non essere affatto una persona interessante.
«A-ah, no?» chiese e aveva abbassato lo sguardo perché a reggere il suo, davvero non ce la faceva.
«Affatto» negò Magnus con determinazione, avvicinandosi di un passo «forse potrà sembrarti ridicolo e io stesso non ho mai creduto a queste cose, di certo non lo faccio da dopo che… ma lasciamo perdere. Forse mi prenderai per pazzo, ma c’è stato un momento in cui i nostri sguardi si sono incontrati e io ho visto qualcosa che ha sradicato tutte le mie convinzioni. È ridicolo sperare di poter capire così tante cose di qualcuno dopo averlo appena incontrato. Se ci rifletti sembra la trama sciocca di un film di quart’ordine o una di quelle frasette retoriche sull’amore che leggi su Tumblr, ma ti giuro che è vero.»
«C-cosa hai visto?» balbettò di nuovo, per lui sembrava ormai impossibile riuscire ad articolare due parole di fila senza incepparsi, ma Magnus sembrava non farci caso oppure era troppo gentile per farglielo notare.

«L’argento vivo» disse con veemenza, si era fatto ancora più vicino e Alec sentiva sempre più caldo, come se un fuoco lo bruciasse dentro. Neanche lo aveva sfiorato e la distanza che c’era tra loro era piuttosto considerevole, ma ugualmente il cuore gli stava battendo all’impazzata. «Tu sei argento, Alexander. Il più bello e splendente che ci sia e mi hai stregato. I tuoi occhi, il rossore delle tue guance, i tuoi modi gentili, la tua goffaggine… Tu non lo sai quello che mi hai fatto! Non lo sai.»
«Io?» pigolò soltanto allora, sollevando di poco gli occhi, intanto che un timido sorriso si faceva strada tra le sue espressioni. «Ma io sono Alec Lightwood: il musone solitario e scontroso» continuò intanto che sul viso di Magnus si dipingeva la confusione. «Ho fatto cadere il vassoio in mensa un paio di settimane fa e tutti hanno riso di me perché sono… perché vado… Ecco, perché io non sono capace di… Insomma, tu sei così… così…» Quel suo balbettio morì così com’era cominciato, tra i rossori di guance sempre più in fiamme e quelle mani che non ne volevano sapere di non tremare. Aveva provato a infilarle nelle tasche della giacca, ma con scarsi risultati. Stava iniziando a sudare e aveva caldo, moltissimo in effetti. E quella sensazione non fece che aumentare quando Magnus gli si avvicinò e gli tese le dita, invitandolo ad afferrarle.
«Vieni con me» disse, enigmatico «credo che tu ora ti debba sedere.» Alec non voleva davvero farlo. Per quel che ne sapeva, tra i cuscini di quel divano poteva essersi infilato di tutto. Eppure, dato che là dove stava si sentiva svenire e che quella porta non ne voleva proprio sapere di aprirsi, afferrò la sua mano e si lasciò condurre. Toccare le sue mani fu una sensazione indescrivibile, seppur in un modo innocente e fatto di semplici dita che si sfioravano, sentì un calore annodargli lo stomaco. Quella, pensò, era la prima volta che toccava qualcuno che non fosse un familiare. E gli piaceva, oh gli piaceva da morire in effetti.




Scoprì che il divano, sebbene impolverato, era morbido e che i cuscini erano anche molto comodi. Tuttavia non ci aveva fatto troppo caso, perché quando la mano di Magnus lo aveva lasciato e quindi si era seduto al suo fianco, un intenso profumo speziato gli aveva invaso le narici e si era sentito ancora più stordito di quanto non lo fosse stato sino a quel momento.
«Se siamo qui credo sia colpa mia» mormorò un imprecisato numero di minuti più tardi, interrompendo il silenzio. Si era tolto la benda che sino ad allora aveva portato sull'occhio sinistro e se l'era infilata in tasca. Dopo averlo sentito parlare, Alec aveva alzato di scatto la testa. In effetti non si era ancora chiesto per quale motivo Isabelle lo avesse rinchiuso lì dentro. Aveva pensato a uno scherzo di Halloween e il fatto che avesse messo una zucca intagliata sopra al tavolino ne era la prova, ma poi aveva notato la presenza di Magnus (molto più che notato a dire il vero) e aveva del tutto smesso di pensare.
«Cioè» lo sentì riprendere dopo un istante di tentennamento «inizio a pensare che tua sorella e la mia amica Catarina si siano parlate e abbiano deciso di tenderci un'imboscata.»

«Sarebbe molto nello stile di Iz, soprattutto quella zucca là» commentò d’istinto e senza quasi rendersi conto di non aver né balbettato né di essersi inceppato «scommetto che l’ha intagliata lei, soltanto Isabelle può far ammiccare una zucca, l’ha fatto apposta per provocare me.»
«Non prendertela con lei, fiorellino» replicò Magnus, pacifico «credo che volesse il tuo bene e poi come ho detto penso sia colpa mia se siamo chiusi qui. Non penso che lei te lo abbia detto, ma qualche settimana fa stavo proprio parlando con Isabelle e non sono riuscito a fare a meno di dirle ciò che pensavo davvero di te.»
«E cioè che sono un timido e balbettante idiota?»
«No, Alexander» rise Magnus dolcemente «sai, sino all’anno scorso avevo una ragazza. La amavo tantissimo, ma la nostra non è stata una stupenda storia d’amore, al contrario. Camille si è sempre divertita a giocare con le vite degli altri, mi manipolava e usava il senso di colpa per ottenere ciò che voleva. Mi ha convinto che non meritassi l’amore e che lei era la sola persona con la quale potessi stare e quel che è peggio è che io le credevo. Quando ho scoperto che mi tradiva il mio mondo è andato in pezzi, lasciarla è stata una delle poche cose buone che ho fatto. Ma nei mesi successivi sono diventato apatico e indifferente, mia madre dovette ritirarmi da scuola perché non facevo che bere e andare alle feste, rientrando soltanto a metà mattina ubriaco fradicio. Usavo i soldi di mio padre non per qualcosa di buono come costruirmi un futuro, ma per divertirmi e basta facendo sesso con gente rimorchiata nei bar. Luke, il patrigno di Clary, una notte mi tirò fuori da una situazione orribile e quando mia madre scoprì quello che avevo fatto si è spaventata a morte, mi ha ritirato da scuola e portato in una clinica per ragazzi sbandati. Non vado fiero di quello che ho fatto in quel periodo, ma l’alcol e il sesso erano le sole cose che riuscissero a farmi sentire vivo. Ne sono uscito grazie a mia madre, il rispetto che nutro verso i sacrifici che ha fatto per me mi ha spinto a proseguire gli studi. Mi sono iscritto alla Columbia così che potessi stare vicino ai miei più cari amici e le ho promesso che sarei andato al college dopo il diploma, ma la mia decisione di costruirmi un futuro, il mio smettere di bere e di scopare con chiunque non aveva cambiato quello che sentivo dentro. Nessuno aveva più importanza, tutti mi passavano accanto o addirittura ci provavano, ma io non li guardavo davvero. E poi ti ho visto, e mi è successo qualcosa.» Magnus si interruppe allora,  fermando il proprio racconto per un istante di modo da poter respirare. Aveva notato che non smetteva di torturarsi le dita le une con le altre, come se fosse agitato. Teoricamente lo era anche lui, in pratica il nervosismo aveva lasciato spazio al blackout più nero che il suo cervello avesse mai sperimentato. Non riusciva a credere a quello che gli stava raccontando, era a conoscenza di alcune cose, ma soffrire così tanto da diventare apatico nei confronti dell’amore e dei sentimenti era terribile. Gli dispiaceva per quanto aveva passato e avrebbe voluto dirglielo, ma Magnus non sembrava intenzionato a zittirsi.
«Tu mi piaci, Alexander» confessò poi «mi piaci davvero, davvero tanto e il solo vederti mi fa provare sensazioni nuove che neanche per Camille avevo sentito. Da quando ti conosco è come se il velo col quale osservavo il mondo fosse finalmente caduto. Ho provato a parlare con te per chiederti un appuntamento, ma sembra sempre che tu voglia sfuggirmi e poi quando mi guardi hai quel gelo negli occhi... Ero quasi convinto che mi odiassi e ci stavo rinunciando, ma poi ho conosciuto i tuoi fratelli. Quando mi sono lasciato sfuggire quell’ammissione con Isabelle, lei mi ha detto di avere pazienza e che mi avrebbe aiutato. Non ho organizzato io tutto questo, ma credo che ci abbiano teso un’imboscata e mi dispiace se ora sei costretto a stare qui col sottoscritto. Io spero che tu creda almeno a questo, Alexander. Non pretendo di essere ricambiato, ma ti giuro che non c’entro niente.» 



 

Nel sentirlo parlare di lui in quel modo dopo aver ascoltato la storia di quei due mesi dal suo punto di vista, il cervello di Alec si era fermato allo stesso modo del suo cuore. Aveva anche provato a fare una sorta di rewind di tutte le volte in cui si erano incontrati in aula o nei corridoi, ma le immagini si erano accavallate ed erano diventate troppe tutte insieme. Era impossibile ricordare ciò che non aveva voluto vedere. Sino a quel momento si era detto convinto che non gli si fosse mai annacquata così tanto la mente come il giorno in cui aveva visto Magnus Bane per la prima volta, ma rendersi conto di piacergli era persino peggio. Era stupefacente. Era bello e terrorizzante al tempo stesso. E se pensava che aveva rischiato di rovinare tutto col suo carattere scostante e le infinite paure, gli veniva voglia di sbattere la testa contro il muro. 
«Io non ti odio» confessò e in quel momento gli sembrò la cosa più difficile che avesse mai fatto «è solo che sono…»
«Timido? Credo di averlo intuito, sì» rise, ma non lo stava facendo di lui. Era più un sorriso dolce e comprensivo, carico di un affetto sconfinato che gli entrò sin dentro al cuore e lo fece sussultare. Era ridicolo e del tutto assurdo in effetti, ma era come se in realtà il suo caratteraccio gli piacesse. 
«Scusa per la confessione di poco fa, Alexander, spero non ti abbia messo in imbarazzo. Prima mi era sembrato che tu ricambiassi, anche se la mia convinzione è durata più o meno un secondo e poi mi sono reso conto che tu comunque non ne sapevi niente e allora ho creduto di dovertelo dire. Mi sembrava giusto così.» 
«È che io non ci so fare con queste cose» ammise e aveva ancora la testa bassa a fissare il tappeto persiano su cui appoggiava i piedi. C’era un velo di polvere su quel parquet in legno scuro così ricco di venature dalle trame affascinanti, che Alec se ne scoprì incredibilmente attratto o forse era solo il coraggio che veniva meno. Avrebbe dovuto fronteggiarlo, ma con la sua presenza accanto e il profumo speziato che gli stuzzicava le narici gli sembrava di impazzire. Si torturava le dita delle mani e muoveva freneticamente il piede, battendolo a terra come se stesse tenendo il tempo di una canzone. Non era calmo per niente, pensò prima di prendere fiato e parlare: «Sono un imbranato totale e un idiota. Quel giorno in mensa mi sono così agitato che sono andato nel panico. Non oso immaginare cosa tu abbia pensato di me.»
«Non credo tu sia un idiota» lo interruppe «e per quel che mi riguarda quel tuo essere goffo e pasticcione ti rende soltanto più dolce di quanto non lo siano già i tuoi occhi e il tuo sorriso.»
«Sicuro che tutto l’acool che ti sei bevuto non ti abbia fottuto il cervello?» domandò, sfoderando tutto il sarcasmo che aveva. La verità era che adesso che stavano seduti l’uno accanto all’altro e che Magnus gli aveva confessato quelle cose, si sentiva molto più tranquillo. Era come se parlare con lui fosse naturale, senz’altro era piacevole. Ancora era rosso come un pomodoro, ma almeno i balbettii stavano via via scemando.
«Lo sapevo che eri una meraviglia, pasticcino» rise, gettando la testa all’indietro. Alec pensò a quanto non gli sembrasse più tanto irraggiungibile come aveva creduto sino ad allora.
«Ho sempre pensato che fossi fuori dalla mia portata» ammise dopo qualche attimo di quieto silenzio. «Anche se Iz e Jace non facevano che ripetermi che mi creavo troppi problemi, mentre ora siamo qui a parlare di un qualcosa che ritenevo impossibile sino a poche ore fa. Ma davvero ti piaccio?»
«Certo e mi chiedevo se un giorno potresti considerare l’idea di uscire con me.» 

 


Se lo voleva? Glielo stava chiedendo davvero? A lui? Al goffo, timido e imbranato Alec Lightwood? Era probabile che lo avrebbe seguito in capo al mondo, se solo glielo avesse chiesto, ma forse non era il caso di spingersi tanto in là con le dichiarazioni, altrimenti quella voglia disperata che aveva di baciarlo sarebbe risultata soltanto patetica. Che avrebbe dovuto rispondere? Avrebbe voluto tanto dire di sì, ma poi sarebbero usciti insieme e Alec sentiva che sarebbe stato il solito maldestro e a quel punto sarebbe piaciuto ancora a un tipo festaiolo ed esperto come lui? Non avrebbe rovinato tutto con un appuntamento imbarazzante? Razionalmente sapeva che la cosa giusta da fare era rifiutare con gentilezza, ma la verità era che non lo voleva davvero. Si trovava davanti al ragazzo del quale si era innamorato e al quale stava da settimane pensando e quando finalmente ciò che aveva sognato succedeva, il suo stupido cervello lo spingeva a sabotare tutto? Doveva dar retta all'istinto, si convinse, facendo un qualcosa in cui non era mai stato bravo. Alec aveva vissuto tutta la vita seguendo le regole della scuola o quelle di sua madre: studiava, leggeva, faceva attività fisica e badava ai suoi fratelli, tutto qua. La prospettiva di stare con qualcuno era un concetto teorico, ci pensava ogni tanto, ma con la sua timidezza niente si era mai concretizzato. L'essersi convinto di amare Jace, poi, aveva solo peggiorato le cose e Alec era stato certo per degli anni di essere sbagliato. Ora però piaceva a un altro ragazzo e non a uno qualunque, ma a un bellissimo, straordinario essere umano. Poteva buttare via tutto soltanto perché temeva di fare una brutta figura? No, si rispose dopo minuti di silenzio. Non poteva e se lo avesse fatto se ne sarebbe pentito per tutta quanta la vita. 


 

Magnus ancora gli sedeva accanto senza parlare e guardava altrove, eppure di tanto in tanto lo spiava. Nei suoi occhi non poté fare a meno di notare un'ombra, quella dell’incertezza. Che temesse il rifiuto tanto quanto lui? Probabilmente non era un Dio come aveva supposto e magari ciò che aveva intuito era stato unicamente l’abbaglio del suo aspetto esteriore, perché la storia tragica che gli aveva raccontato e la sensibilità che trasudava da ogni suo gesto, lo rendevano forse l’essere umano più umano che avesse mai conosciuto. Era solo un ragazzo che gli stava donando il proprio cuore e Alec non avrebbe permesso che questo venisse spezzato di nuovo. 
«Qu-quella vo-volta, nel corridoio della scuola...» Aveva balbettato come suo solito, ma almeno un primo passo in avanti lo aveva fatto. Perlomeno aveva deciso di zittire le proprie infinite paure, il timore di non essere abbastanza o quello ancora più raggelante di essere respinto, e si era deciso a farsi avanti.
«Ti ho notato subito» confessò poi tutto quanto d’un fiato, lo stomaco si stava tanto stringendo che gli faceva quasi male e provava una stranissima sensazione di leggerezza in tutto il corpo. Era come se non riuscisse a controllare quello che stava dicendo, il che lo spaventava molto più di quanto non avrebbe potuto fare un ragno gigante.
«Credo che tu sia bellissimo» sputò fuori, gridando in maniera imbarazzante, con le guance rosse come ciliegie mature «come avrei potuto non far caso a uno come te? Ho anche provato a… ecco, ma tu eri così favoloso che non riuscivo neanche a guardarti in faccia e ogni volta andavo nel panico. Avrei voluto parlare con te o anche solo salutarti a lezione, ma quando ci pensavo il mio cervello si spegneva e sentivo di non avere più il controllo del mio corpo. E… E non ci credo che te lo sto dicendo davvero, ma è per questo che scappavo. Quel giorno in mensa tu mi hai salutato e io sono andato in confusione, perché ho iniziato a pensare che eri troppo bello per me e che non avrei avuto comunque nessuna speranza, che sono un disastro e che tu non avresti mai potuto… cioè che io non avrei mai…»
«Ehi, ehi» lo fermò Magnus, sfiorando una delle sue mani che strinse tra le proprie senza alcun tipo di indugio. Alec sollevò il viso di scatto, respirava pesantemente e sentiva il cuore galoppare dentro al petto. La sensazione di essere toccati non era paralizzante come aveva temuto, al contrario era stupenda e gli infondeva un senso di calma che sino ad allora non aveva mai sperimentato prima.
«Non so chi o cosa ti abbia convinto di non essere abbastanza, oltre che tutte quelle cose brutte che hai elencato, ma per me sei tanto dolce.» Alec aveva serrato le palpebre e le sue pulsazioni erano aumentate quando una delle mani inanellate di Magnus era risalita sino al suo viso, ora gli stava accarezzando lo zigomo con la punta del pollice e intanto che lo faceva aveva la sensazione di poter scoppiare da un momento all’altro. Istintivamente aveva chiuso gli occhi e in quello sfiorare in punta di dita si era lasciato andare, appoggiandosi contro la sua mano ben aperta. La sua pelle era calda e quando lo sfiorava lo faceva come se stesse toccando un vaso di porcellana.
«Non smettere» gli uscì dalla bocca senza che davvero si fosse soffermato a pensarci. Lo voleva e basta. Ma forse quel suo sospirare sembrava un po' patetico e disperato. Quando parlò di nuovo, la voce era spezzata e bassa quanto un mormorio: «Nessuno mi ha… io non ho…»
«Non sei mai stato con un ragazzo?» sussurrò, languido, al suo orecchio. Alec non aveva la certezza di come facesse a sapere che era gay, ma sospettava che dietro a tutto ci fosse Isabelle e la sua lingua lunga.
«No» mormorò in un sussurro appena percettibile. Un po' se ne vergognava, perché era inesperto e anche piuttosto ingenuo, ma stranamente non si sentiva a disagio.
«E se ti baciassi su una guancia, ti piacerebbe?» sussurrò ancora e Alec aveva notato che si era fatto più vicino. Riconobbe solo allora le note speziate del suo profumo: era legno di sandalo e gli conferiva un fascino esotico che gli solleticava i sensi. Il calore che il suo corpo emanava era molto piacevole e non soltanto perché là dentro faceva freddo e i vetri della porta finestra erano rotti, ma perché averlo così vicino lo inebriava.
«Sì» annuì, dominato da una fretta indiavolata. E Magnus lo fece senza neppure farlo aspettare, posò le labbra sulla sua guancia e vi indugiò un istante. Pochi secondi per imparare che queste erano morbide e che il fiato sapeva di cioccolata e cannella. Il bacio era stato troppo breve perché avesse avuto il tempo di interiorizzarlo, ma era successo e ora il suo cuore pareva volergli schizzare via dal petto. Era quella la felicità? E quel senso di ingordigia, di avidità era naturale oppure era di nuovo lui a essere strano? Perché era certo che ne volesse ancora.
«Anche qui, ti prego» lo implorò del tutto inaspettatamente, posando un dito agli angoli della propria bocca. Sentì Magnus sorridere e inspirare piano, come se cercasse di dominare se stesso. Scoprì che non era uno che si faceva pregare, perché ogni volta che gli chiedeva di fare una cosa lui obbediva in silenzio. Prima posò le labbra su uno zigomo, poi sotto al lobo dell’orecchio, sulla fronte, sul dorso della mano… i suoi baci erano delicati e dolci e facevano fremere Alec di mille brividi che si scioglievano lungo la spina dorsale. I suoi occhi dal taglio felino erano diventati più sottili e trasudavano un’impazienza che Magnus pareva star tentando disperatamente di trattenere a sé. Dopo avergli regalato un ennesimo bacio sulla punta del naso, si era allontanato con un sospiro pesante. Alec si rese conto che stava facendo l’impossibile pur di non dare a vedere quanto fosse nervoso, lo mascherava con un sorriso che però non sembrava altro che forzato. Nel vederlo a quel modo si morse l'interno della guancia, indeciso sul da farsi. Ne voleva ancora? Egoisticamente si rispose che Magnus non avrebbe mai dovuto smettere, eppure una parte di lui urlava per avere qualcosa di più. Alec lo sapeva come si baciava, ma non era del tutto sicuro di poterlo fare al meglio. Ripensò a quando quella mattina a colazione, Isabelle aveva iniziato a spiegare come darne uno perfetto, supportata poi da Jace che le aveva dato manforte limonando una mela trovata sul tavolo. Era stato strano e imbarazzante, oltre che ridicolo. Perciò non ci aveva dato troppo peso, divorando i propri cereali e quindi lasciandoli da soli a discutere su quanta lingua andasse infilata nella bocca del proprio partner. Soltanto ora capiva dove quei due volessero andare a parare e se solo avesse ascoltato quello che avevano da dire, probabilmente il suo primo bacio sarebbe stato migliore. E invece si avvicinò a Magnus con lentezza, zigomi arrossati, bocca lievemente aperta e sguardo determinato come solo quello di un Lightwood sapeva essere.
«Resta fermo» aveva detto intanto che lo vedeva spalancare gli occhi e congelarsi là dove stava, di nuovo colto alla sprovvista. Aveva agito d'istinto, posando le labbra su quelle morbide di quel ragazzo stupendo. Si era poi mosso in maniera impacciata e scoordinata, spaventato dalla prospettiva che Mangus ancora non lo stesse ricambiando. Probabilmente lo stava facendo male o stava sbagliando qualcosa, oppure… 
«Oddio» lo sentì imprecare, prima che aprisse la bocca e lo ricambiasse con una determinazione e una passione che quasi lo sconvolsero. Non fu perfetto ed era certo di non possedere una tecnica straordinaria, ma era molto più che piacevole, era bellissimo. E gli ci era voluto davvero molto poco per lasciarsi andare contro lo schienale del divano e mettersi comodo. Quando poi lo sentì infilargli la lingua in bocca, il suo mondo esplose.
«Fiorellino, per il futuro» aveva annaspato tra un bacio e l’altro «a me piace con molta più lingua di così.»


 

Baciarsi fu travolgente e il loro cercarsi, dapprima lento e timoroso, divenne col passare dei minuti appassionato e a tratti brutale. Magnus era chiaramente esperto e sapeva fare certi trucchetti, che lo mandavano in visibilio. Così come le sue mani: ogni tanto gli accarezzava il viso o la nuca, altre volte scendeva sino in vita o gli sfiorava la schiena in lenti movimenti circolari. Ai primi tocchi di labbra ne erano seguiti altri più giù lungo le vene del collo, Magnus gliele aveva leccate con la lingua e quindi si era perso per minuti a mordicchiargli delicatamente il lobo dell’orecchio. E Alec aveva scoperto che quando le sue labbra morbide gli succhiavano la pelle non poteva proprio fare a meno di gemere ad alta voce. 
«Te lo devo proprio dire, confettino, hai il fuoco dentro» se ne uscì a un certo punto, ricadendo tra i cuscini del divano. Avevano entrambi il fiato corto, il che era di per sé una novità visto che neppure negli allenamenti più duri con Jace annaspava tanto. Da quanto tempo erano rinchiusi lì dentro? Si chiese, normalizzando il respiro. Non aveva idea di che ore fossero e senza orologi né cellulari non potevano averne neanche una vaga idea. Ricordava che erano da poco passate le sei quando lui e Iz avevano superato la soglia dell'edificio, ora il cielo era buio e aveva persino iniziato a piovere. Probabilmente erano lì da un paio d’ore. 
«Tutto bene, Alexander?» Si riscosse quando sentì la sua voce, rendendosi conto che non voleva davvero lasciarlo, ma quanto avrebbero resistito in un posto del genere?
«Sì, è solo che mi sta venendo fame e qui dentro fa anche freddo. In più quelle candele non dureranno ancora per molto e a quel punto saremo al buio.» Era certo di poter resistere senza mangiare e magari stringendosi l’un l’altro avrebbero ovviato al freddo, anche se neppure per tutto l’oro del mondo avrebbe avuto il coraggio di chiedergli di fare una cosa simile, ma dopo ore passate a baciarsi la parte razionale del suo cervello stava prendendo il sopravvento. Ora ciò che più lo preoccupava era la luce. La candela che era stata posizionata dentro la zucca intagliata si era già consumata, a quelle dei candelabri invece mancava ancora del tempo, ma dubitava che sarebbero durate sino al mattino.
«Per quanto credi ci terranno bloccati qui?»
«Non conosco bene tua sorella, fiorellino, ma Catarina sarebbe capacissima di buttare via la chiave.» Era una prospettiva terribile francamente, sino ad ora era stato piuttosto occupato con la lingua e anche adesso Magnus gli sfiorava una guancia con le labbra ed era distraente.
«Forse posso sfondare la porta con un calcio» rifletté, guardandosi attorno. Non c’era poi molto che potessero fare, dato che si trovavano al piano attico e non c’erano attrezzi che potesse usare per sfondare la porta, se non la propria forza bruta. Magari c’era una scala antincendio, rifletté; ma avrebbero fatto bene a fidarsi? Considerato lo stato in cui versavano gli interni, dubitava che quella non fosse vecchia e arrugginita. E poi pioveva a dirotto e non credeva davvero che il “Pirata dell’amore” avesse un ombrello nascosto sotto la giacca.
«Per quanto adorerei vederti in un'esplosione di muscoli e testosterone, mio dolce pasticcino alla crema, suggerirei di starcene un po' qui e aspettare. Che ne dici? Ho giusto un mente un paio di cose che possiamo fare.» Sì, giusto, rifletté lasciandosi andare di nuovo. A pensarci non era una cattiva idea, pensò stirando un timido sorriso. Era certo anche di essere arrossito sulle guance e quando Magnus ne aveva, di nuovo, baciata una, il colorito si era accentuato.
«Mh, quindi» disse, rompendo il silenzio. Sapeva che non dovevano necessariamente chiacchierare e sino a quel momento avevano fatto ben altro, ma se avevano tanta sintonia dal punto di vista fisico, forse poteva scoprire se ne avevano anche dal punto di vista mentale. Alec teneva a questo molto più che al resto in effetti, non era certo un tipo da una scopata e via. Anche se tecnicamente quella non l’aveva nemmeno mai fatta, non era certo di voler essere usato per il sesso.
«Questa è la casa del sommo stregone di Brooklyn, giusto?»
«A quanto pare» replicò lui, guardandosi attorno. Gli stava ancora premuto addosso e di tanto in tanto giocava con la sua giacca di pelle oppure gli sfiorava il collo con la punta del naso, inalando sfacciatamente il suo profumo. Ogni volta che lo faceva, Alec si sentiva fremere d’eccitazione. Non era sicuro di cosa sarebbe potuto succedere se fossero rimasti lì.
«Dimmi, fiorellino, credi davvero che questo spirito sia qui tra noi a guardarci?»
«Andiamo, Magnus, sono soltanto storie…»
«Tutte le storie sono vere» lo prese in giro lui, ammiccando.
«Forse qualcuna lo sarà anche, ma non questa. Fantasmi, stregoni, vampiri… è come la faccenda di Santa Claus. Ci puoi fantasticare per una notte, ma poi alla luce del giorno capisci che erano soltanto sciocchezze.»
«E noi cosa saremo, Alexander?» sussurrò lui sulle sue labbra «solo una storia che al mattino svanisce?»
«Non lo so» ammise candidamente, perché era vero e non poteva pensare di sapere cosa sarebbero diventati in futuro «ma qualunque cosa sia, so per certo che non voglio essere un fantasma.» Poi, il timido e innocente Alec Lightwood che a diciotto anni non aveva mai avuto un ragazzo, lo baciò con tutto l’ardore del quale era capace. Lo baciò e basta, col cuore a mille e il sangue che pompava nelle vene e il fremito lungo la schiena. E con la testa leggera, i pensieri evanescenti, lo stomaco in subbuglio…
«Ti farò una corte spietata, confettino, è una promessa» gli aveva detto Magnus tra un bacio e l'altro. E allora Alec si era reso conto di desiderarlo realmente: voleva essere di più che una storia di fantasmi da raccontare, ma un qualcosa che si potesse toccare e dentro la quale perdersi. Forse c’era dell’incoscienza in quel lanciarsi a capofitto tra le mani del destino, ma per la prima volta in tutta la sua vita sentiva che era quanto di più giusto potesse fare. Il coscienzioso e ligio al dovere Alec Lightwood, che aveva usato la ragione per buona parte della propria esistenza, si stava lasciando dominare dall’istinto e dai sentimenti. Gli stessi che lo portavano a fidarsi di quel magnifico ragazzo dai tratti felini, eccentrico, bellissimo e pazzamente innamorato di lui. Alec non pensò a cosa fosse giusto, ma solo a ciò che voleva davvero ed era proprio Magnus Bane.


 

Oh, poi uscirono dalla casa stregata di Brooklyn, che stregata non lo era per niente. Era solo fatiscente e polverosa. Appena una mezzora più tardi, una non poi così pentita Isabelle aveva girato la chiave ed era saltata subito al collo di Alec, dichiarandosi pentita. Mentiva, ma questo né lui né Magnus gliel’avevano fatto notare. Scoprì che là fuori appostati c'erano davvero tutti: Izzy, Jace, Clary, Simon e l'amica di Magnus, Catarina. Si era anche arrabbiato, ma la realtà era che doveva molto a tutti loro, anche a quella tale Catarina alla quale strinse la mano, presentandosi come il nuovo ragazzo di Magnus. Sì, lo erano e lo sarebbero stati anche in futuro. Forse nascosti in un primo momento, ma poi facendo uscire tutto alla luce del sole mesi più tardi, baciandosi davanti a tutti a una festa di Natale organizzata dai suoi genitori. Lo avrebbero fatto e sì, ci sarebbe stato anche un matrimonio, due figli, litigi, incomprensioni e poi ancora baci e il fare l’amore su una spiaggia di Bali. Tornare anni dopo per un anniversario con una bottiglia di champagne e una scatola di cioccolatini alla cannella, nell’un tempo elegante loft di un famigerato, eccentrico sommo stregone di Brooklyn. Ottocento anni mai davvero portati e una passione per i colori sgargianti. Non era realmente esistito, quello stregone. Se non forse, chi poteva dirlo, in un altro universo dove fate e vampiri c’erano davvero e dove Alexander era uno dei figli dell’angelo. Ma in fin dei conti, quella della casa stregata era solo una storia e Alec non voleva pensarci. In quel momento non lo sapeva davvero quello che sarebbe successo tra loro. Sapeva solo che era giusto baciarlo e lasciarsi andare all’amore.




 

Fine






 

*L’edificio è molto più simile, anzi si può dire che è identico, alla casa di Magnus che vediamo nella serie.

 


Note: Storicamente sono una pippa con le OneShot, la maggior parte di quelle che ho scritto non avevano una vera trama, ma nell’ultimo anno mi sono sforzata di scriverne alcune che avessero un inizio, un’evoluzione e una fine. Non sono mai pienamente soddisfatta quando ne scrivo una, la Malec poi penso vada trattata coi suoi tempi, in più capitoli. Credo che Alec abbia bisogno di settimane per adattarsi all’idea di essere amato da un uomo come Magnus, qui ho sacrificato tantissime delle idee che ho avuto durante la stesura, ma ho voluto ugualmente non dilungarmi. Diciamo che è un primo esperimento nella sezione libri, nella quale per altro mi ero ripromessa di non scrivere fino a quando non avessi letto tutto "The Mortal Instrument" e invece il mio percorso si sta rivelando senza un vero e proprio senso. Mi manca “Città del fuoco celeste”, ma ho già letto tutte le cronache e "Il libro bianco perduto", senza per altro aver letto ancora "La mano scarlatta". Chi legge i miei commenti insensati su Facebook a riguardo, sa quanto abbia faticato a entrare in sintonia con i Magnus e Alec dei libri, ma a un certo punto ho sentito il bisogno di scrivere di loro. Credo che tornerò qui tra qualche mese, appena finirò la Long Malec nell’altra sezione, perché ho milioni di idee.
Intanto devo ringraziare Pampa che ha letto la prima parte della storia, perché avevo dubbi sull’IC e tutte le persone che sono arrivate a leggere sino in fondo. Spero che questa storia vi sia piaciuta.
Koa



 
   
 
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