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Autore: HellWill    29/10/2021    0 recensioni
Luce è una cacciatrice di vampiri. O almeno, lo era prima di essere tramutata in una di essi. Ma il suo odio per questa specie di non-morti trascende la sua stessa condizione, per cui ha un piano per sterminarli tutti, e farsi uccidere dai suoi ex-colleghi subito dopo, per estirpare dal mondo la piaga del vampirismo.
I vampiri, le era stato detto, non provano emozioni; e allora come mai Luce nutre un odio ed una rabbia così profondi, al punto di non volersi per niente integrare nella società vampiresca, se non con il fine di uccidere tutti i suoi simili?
E come mai sente le farfalle nello stomaco quando nel clan di Bologna fa ingresso una donna che, dice, ha circa duemila anni e viaggia fra i diversi mondi?
Davvero i vampiri non provano emozioni? Oppure è solo una bugia che si è raccontata fino a quel momento per giustificare i propri intenti distruttivi?
STORIA SCRITTA PER IL NaNoWriMo 2021.
Genere: Dark, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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I
Rifiuto
 
I tacchi di Luce rimbombavano sotto le volte dei portici di via Zamboni in quella gelida notte di fine autunno. La ragazza, tuttavia, non sembrava curarsi del freddo vento che spirava nella stradina silenziosa: era vestita in un succinto abito da sera, con le spalle scoperte e le calze nere translucide alla luce dei pub che oltrepassò senza dar adito agli apprezzamenti volgari che le rivolgevano uomini e donne. Una volta arrivata in piazza Verdi, ignorò anche gli spaccini centauri che le chiedevano se cercava qualcosa di particolare, e si diresse verso via delle Belle Arti, in cerca del suo solito compagno di avventure: un licantropo alto e dimesso, dall’aria di un barbone, gli tese la mano e sorrise.
«Ah, Luce dei miei occhi… Dove andiamo di bello stanotte?».
«Dove c’è meno movimento, per iniziare» ribatté lei, fredda, e insieme si addentrarono per i vicoletti meno conosciuti di Bologna, fino ad arrivare ad un bar modesto sotto un portico che puzzava d’urina.
«Dopo di lei, madame» la prese in giro il lupo mannaro, sorridendo. Luce entrò nel bar senza degnarlo di uno sguardo, e sondò con gli occhi lilla l’interno dell’umile ritrovo.
«Non sarà un po’ troppo illegale anche per te?» chiese con un sospiro Luke, e Luce dissipò i suoi dubbi con un gesto della mano.
«Non credo nella legge» gli rispose secca, come se crederci o no fosse come per un qualche inesistente dio. Si sedettero al bancone del bar, mentre altri avventori sorseggiavano cocktail scuri.
«Un bloody mary, poca vodka» ordinò Luce, deglutendo: nonostante la sicurezza ostentata, era la prima volta da giorni che usciva dal suo antro pieno di videogames per far parte della movida notturna di Bologna. Non si nutriva da allora, e in generale non si era mai nutrita molto da quando era iniziata la sua missione sotto copertura… questo nonostante Luke si fosse offerto più volte di farle da nutrimento.
«Ecco a lei, signorina» mormorò il barista, circospetto. All’odore del sangue mescolato con la vodka, Luce sentì una fame senza precedenti artigliarle le budella e farle fremere ogni vena, arteria e capillare che aveva in corpo come fossero trapassati da un fuoco.
Luke osservò l’amica preoccupato, e le strinse un polso serio.
«Da quant’è che non bevi?» chiese bisbigliando, accusatore. Luce gli lanciò un’occhiataccia: non era una conversazione da avere in un bar.
«Allora… come sei diventato un lupo mannaro? Sei nato così o…?» gli chiese invece la vampira, mentre Luke storceva il naso all’odore di vodka nel sangue. A Luce girava la testa mentre la sua sete si placava.
«Sono nato così. Uno dei pochi fortunati ad avere la linea di sangue maledetta sin dall’800, diciamo» ironizzò lui, e Luce sorrise.
«E come mai hai un nome inglese?».
«Mia madre se la tirava. Mio fratello si chiama Edmund» sorrise ferino. «E tu invece? Sei italiana, mi pare. Eppure hai un accento strano».
«Ho vissuto a New York per un po’» accennò lei. «Dai miei diciotto anni in poi. Sono tornata in Italia solo l’anno scorso, e solo per… beh, non importa».
«Eppure hai casa di proprietà in via dell’Indipendenza… mica poco. La tua famiglia deve stare proprio bene, di soldi».
«Diciamo che ce la caviamo» mormorò Luce: non le piaceva per niente parlare della propria famiglia. Non che non fossero in buoni rapporti, anzi; è che le spezzava il cuore pensare che se n’era andata che era ancora viva, con un cuore pulsante e il proprio sangue nelle vene, mentre ora… ora era semplicemente un cadavere che camminava.
Prima che se ne potesse accorgere, il Bloody Mary era finito. Fece un cenno al barista: «Un altro, please».
Mentre le toglieva il bicchiere da davanti, Luce socchiuse gli occhi: il sangue fatato era una leccornia proibita, e il barista era di sicuro appartenente al popolo dei Fae… per quanto le ali non fossero visibili in quel momento, forse nascoste sotto i vestiti, l’odore era per lei ormai inconfondibile.
Ogni tipo di creatura aveva il suo aroma: i centauri, quasi ironicamente, sapevano un po’ di stalla: il loro sangue si poteva paragonare ad un formaggio fresco spalmato su un crostino di pane e condito con della frutta. Non una prelibatezza ricercata, ma più qualcosa che avresti incontrato in agriturismo.
Le sirene, ovviamente, avevano il sangue un po’ annacquato: non erano decisamente la creatura preferita di Luce. I mannari e gli antropi, ovvero coloro che potevano trasformarsi in animali, avevano ognuno il proprio odore – e sapore – a seconda dell’animale che la loro maledizione prevedeva. I preferiti di Luce erano i lupi e gli orsi: avevano un sapore indomito, selvaggio, e soprattutto colmo di potere oscuro.
Poi c’erano elfi, satiri, ninfe, driadi: i primi avevano un sangue simile a quello umano ma, al contrario di quest’ultimo, erano colmi di energia magica; i satiri ovviamente sapevano di capra e avevano troppa magia indomita nelle vene per essere davvero una preda decente. Le ninfe e le driadi, infine, non avevano sangue vero, quindi seppure Luce si fosse nutrita di una della loro specie… beh, non sarebbe finita bene e avrebbe avuto semplicemente più sete di prima.
Il secondo Bloody Mary arrivò davanti a lei celere, mentre faceva tutte le sue considerazioni sul sangue e considerava amaramente che quello servitole era semplice sangue umano: la base da cui partire per nutrirsi, certamente, ma proprio per questo era come andare in un pub e chiedere un bicchiere d’acqua fresca.
No, anzi, una bella teiera di the alle ventidue e trenta, mentre tutti i tuoi compagni prendono una bella birrozza scura. Ridicolo.
Si accorse di stare digrignando i denti solo perché Luke le aveva mollato un calcio da sotto il bancone. Si dedicò al Bloody Mary e guardò fredda l’amico.
«Hai sentito Stan?» chiese casualmente, e Luke si irrigidì.
«Lo sai che non possiamo parlare della rete. Non in pubblico almeno».
«Dio mio» mormorò Luce per non dire qualcosa di gran lunga peggiore come si usava a Bologna. «Ancora con questa storia? Sono un vampiro da due anni, e da un anno sono tornata in Italia sulle tracce di quel bastardo che mi ha trasformata. Ancora con questa rottura di coglioni sulla segretezza e gne gne gne?» sibilò alterata.
«L’alcol ti sta dando alla testa. Andiamo via».
Luce lo guardò furiosa: aveva un’espressione impassibile, ma gli occhi viola quasi mandavano scintille tanta la rabbia per quell’ultima affermazione dell’amico.
Prese la borsa e si alzò di scatto, facendo ticchettare i tacchi sul pavimento di assi di legno. Luke saldò il conto salatissimo – dato che si trattava di drink illegali – nonostante non avesse preso niente e porse lo scontrino a Luce.
«Dato che sei ricca di famiglia, ridammeli con calma» inarcò un sopracciglio. Poi si diresse verso i vicoletti che conducevano in centro città, mentre Luce lo seguiva, aprendo e chiudendo i pugni nel tentativo di calmarsi in astioso silenzio.
Ogni volta che trascurava il nutrirsi regolarmente, salvo poi bersi due bicchieroni di sangue e vodka, il suo umore peggiorava.
Fino a quel momento era sopravvissuta grazie alla rete di cacciatori di vampiri di cui faceva parte quando era ancora viva: le procuravano trasfusioni dai valori alterati, o con malattie ematiche, o di creature magiche che non potevano donare sangue; a volte le procuravano persino “vittime” vive e consenzienti a farla nutrire, per quanto ciò la disgustasse profondamente.
Tuttavia, in Italia non si era organizzati come in America e, soprattutto, i vampiri in Italia erano radicati da secoli – se non millenni –: ciò voleva dire che erano i cacciatori di questi ultimi a non essere visti di buon occhio, e non le creature non-morte stesse.
Per cui, per un vampiro che odiava profondamente sia esserlo che i propri simili, l’integrazione non era facile come in America.
Oh, a New York aveva sgominato un clan di non-morti in meno di un anno, e lo aveva sterminato dall’interno; poi il suo acerrimo nemico aveva deciso di migrare in Italia, dove avrebbe goduto della protezione di clan e congreghe decisamente più importanti e potenti… e lei ne aveva quasi perso le tracce prima di tornare a Bologna, dove a quanto pare risiedeva quel bastardo.
Bologna era una città sconosciuta, e piena di segreti; e proprio per questo era meravigliosa. Luce vi si trovava a proprio agio, nonostante non fosse abituata al nord Italia ed alla sua nebbia quasi costante in inverno.
Prima che se ne fosse resa conto, Luke e lei erano arrivati sotto il portone di casa sua, sulla via principale del centro città. Il licantropo aspettò che tirasse fuori le chiavi di casa, e lei lo guidò all’ultimo piano facendo gli scalini a due a due, nonostante avesse dei tacchi altissimi.
Il sesto piano non affacciava su un panorama particolare, ma su una corte interna piena di verde e di biciclette poggiate dove capitava. Cicche di sigarette costellavano le aiuole, nonostante venissero pulite una volta ogni due giorni. Effettivamente, anche Luce fumava da quando era morta… ma l’inquinamento le stava sui coglioni almeno quanto i vampiri, per cui non si sarebbe mai sognata di buttare le sigarette nella corte.
Una volta che Luke si fu richiuso la porta dietro, Luce si tolse le scarpe quasi calciandole fuori dalla finestra aperta, e il licantropo aggrottò la fronte.
«Non hai paura dei ladri? Cioè, so che del freddo non ti importa, ma è una questione di sicurezza, tenere le finestre chiuse quando si esce».
«Fumo in casa» mormorò Luce, sedendosi sul divano e accavallando le gambe scure. «E non voglio che la puzza tinga le pareti di giallo».
«Immagino sia un buon motivo» borbottò il ragazzo. «Sei a posto? Intendo… col sangue. Altrimenti lo sai che sono disponibile».
Luce fece una smorfia e si accese una sigaretta. Ne prese un paio di tiri, prima di mentire:
«Sono a posto così».
No, non era vero. Aveva sete. Meno di prima, certo, ma non bastavano due bicchieri da cocktail pieni di sangue e vodka a farle sparire il male che le cerchiava la testa e che le acuiva i sensi in cerca di una preda.
«Da quanto ci conosciamo? Due mesi? Non mi hai mai parlato di te» mormorò Luke, serio, sedendosi accanto a lei sul divano grigio.
«Senti, Luke. Senza offesa: sono una cazzo di non-morta. Il fatto che ogni tanto te lo faccia ficcare per sentirmi vagamente più viva non riguarda eventuali sentimenti» dichiarò secca, e Luke si ritrasse un po’, forse ferito. Luce si pentì immediatamente della sparata, e si portò una mano agli occhi, sfregandoli con le dita dalle unghie lunghe e curate.
«Mi dispiace» mormorò allora, con un breve sospiro. «Non so cosa mi prenda».
«Sei intrattabile quando hai fame» borbottò Luke. «Non credo tu sia “a posto” come mi hai detto. Da quant’è che non ti nutrivi prima di stasera?» chiese di nuovo, e Luce deglutì a fatica.
«…due settimane».
Luke emise un verso strozzato.
«Sei pazza? Vuoi che il veleno ti corroda le vene? Credimi, non saresti uno bello spettacolo in quel caso».
Luce digrignò i denti, scoprendo i canini appuntiti.
«No! Non voglio che… è complicato, okay? Mi repelle la sola idea di nutrirmi di sangue innocente. E al tempo stesso… tutti hanno un odore così invitante. È così… complicato resistere quando sono fuori casa. E al tempo stesso è così deliziosamente facile lasciarsi andare alla fame e concentrarsi giorno e notte su videogiochi, libri e streaming. Sai quand’è stata l’ultima volta che ho dormito? Quando mi sono trasformata. Quando sono morta. I vampiri non dormono di giorno, è una leggenda» spiegò Luce, a disagio. La testa le pulsava, e Luke era troppo vicino, per cui si scostò e si sedette su un bracciolo del divano, fissandolo.
«Davvero non dormite mai?».
«A che pro? Sono morta» mormorò Luce amara. «E se te lo stessi chiedendo: no, i miei genitori e mia sorella non lo sanno. Non so come dirglielo. Cioè, so che era un rischio che avrei potuto correre, e che anche loro lo sapevano, ma… un conto è iniziare a fumare e sapere che “potrebbe” venirti un cancro ai polmoni un giorno, un altro è affrontare quello stesso cancro cinque anni dopo che hai iniziato a fumare» si portò le mani alla testa, poi prese l’ultimo tiro di una sigaretta stanca e completamente consumata. «Ho cacciato vampiri per cinque anni, sono sempre stata coraggiosa e indomita e senza scrupoli: erano semplicemente una piaga, una peste bubbonica, che andava eliminata. E ora sono una di loro. Ora sono parte del problema anche io».
«Non capisco perché ce l’hai tanto coi vampiri. Che ti hanno fatto?».
Luce tacque, poi scosse il capo.
«Non importa. Non… non sono pronta a parlarne» mormorò, e si accese la seconda sigaretta, spegnendo la prima nel posacenere sul tavolino fra divano e tv. «Comunque ci sono un sacco di leggende sui vampiri, la maggior parte delle quali sono vere solo in parte. Sapevi che non possiamo fisicamente entrare in casa d’altri se prima non ci viene esplicitamente dato il permesso? Quella è forse l’unica leggenda vera».
«Non la conoscevo. Come mai funziona così? È parecchio strana come roba» ridacchiò Luke. Luce si strinse nelle spalle.
«A quanto pare, i celti strinsero un patto con i Fae millenni or sono: le porte d’ingresso delle case sono protette, da allora, da una magia antichissima che respinge qualsiasi male magico o spirituale. Siccome il veleno dei vampiri, quello che ci scorre nelle vene, è qualcosa di appartenente alla magia nera… noi non possiamo entrare dalla porta di un appartamento, di una casa o altro senza permesso di chi abita nello stesso. Sono regole anche un po’ lasse in realtà, non serve qualcosa di formale perché ci sia un invito, basta anche un semplice “dai, accomodati” per sbloccare la situazione».
«È tutto molto interessante» ammise Luke. «Rinnovo la mia offerta: vuoi cenare?» chiese, e si tolse il maglione a collo alto per rivelare una tshirt con una stampa di una serie tv che gli lasciava scoperti il collo e l’inizio delle clavicole. Ammiccò con fare allusivo e Luce distolse lo sguardo mentre il cuore le bruciava di fame.
«Poi. Un’altra leggenda dice che non possiamo attraversare i corsi d’acqua. È vera, ma manca un aspetto fondamentale: non possiamo proprio toccarla l’acqua. Se lo facciamo, ci ustioniamo. Più prolungato è il contatto, più profonda è l’ustione».
«E come fate quando piove?».
«Dio mio, mai sentito parlare di scarpe e ombrelli?» ribatté Luce, acida.
«E il mare? Non potete andarci?».
«Ti invito a riflettere attentamente sulle tue stesse parole. Ti pare che acqua+sole diretto siano cose adatte ai vampiri?».
Luke abbassò lo sguardo come un cucciolo bastonato.
«Scusa».
Luce si morse l’interno della guancia, poi scosse la testa.
«Comunque. Negli specchi d’alluminio, quelli più diffusi al giorno d’oggi, ci si può vedere come ci vedono tutti: immortali, belli, letali. Negli specchi d’argento riveliamo la nostra natura più profonda: cadaveri che camminano perché maledetti e corrosi dall’interno».
«Che vuoi dire?» Luke appariva genuinamente confuso. Luce scrollò le spalle.
«Non te lo faccio vedere solo perché scapperesti… e non mi va. Al momento sei il mio unico amico, e il mio unico contatto con la rete dei cacciatori americani».
«Davvero sono tuo amico?» Luke inarcò un sopracciglio. «Credevo di essere solo uno a cui lo fai ficcare ogni tanto» ironizzò. Luce tacque imbarazzata: se avesse avuto abbastanza sangue nelle vene, forse sarebbe persino arrossita. Prese un tiro dalla sigaretta e poi la spense nel posacenere con un lungo sospiro.
«Sì, ti considero mio amico» mormorò. «Mi dispiace di essere scattata, e hai ragione: quando ho fame sono intrattabile».
«Non posso neanche dirti di mangiare uno snickers come nei meme» scherzò lui, e Luce sorrise pallidamente.
«Effettivamente no. Sai che non possiamo neanche bere il sangue Fae senza permesso? Fa parte dei loro poteri. Eppure è il sangue più ambito, perché molto potente magicamente parlando, e l’effetto del nutrimento dura più a lungo che con il sangue delle altre creature, anche di quelle magiche».
«Curioso. Non vi nutrite solo di sangue umano o mannaro, quindi».
«No, affatto. Mi sono capitate buste di sangue di qualsiasi creatura, quando ero ancora a New York» mormorò la ragazza. «Tranne Fae, ovviamente».
Luke deglutì, poi distolse lo sguardo.
«Ma… per caso non ti piace il mio sangue?» chiese, e sembrava un po’ afflitto dall’ipotesi. Luce rise amara.
«Hai un odore delizioso. La mia scelta di non nutrirmi con te è dettata dalla mia etica, diciamo come… come se volessi essere vegetariana, ma non ci riuscissi per via della mia natura. Come se tu volessi smettere di nutrirti perlopiù di carne per questioni di morale, pur essendo un licantropo».
«Non riesco nemmeno ad immaginare come dev’essere non mangiare carne nelle mie condizioni. Probabilmente mi debiliterei e soffrirei un casin— oh» Luke aggrottò la fronte, come se ci fosse arrivato solo in quel momento.
«Solo che nel tuo caso sarebbe una scelta etica riguardo inquinamento e allevamento intensivo e problemi generalmente più grandi di te. Nella mia scelta, la mia etica mi impone di non fare del male alle persone, che è un qualcosa che a tutti gli altri viene naturale… ma non ai vampiri. Per i vampiri, le persone sono cibo. Nulla di più, nulla di meno. Possiamo esserti amici, ma non smetteremo mai di sentire nel tuo odore la traccia di sangue che ci agita il fuoco della fame».
«Hai provato semplicemente a… nutrirti finché il tuo cuore non si riprende in bradicardia? Che io sappia, quei vampiri che lo fanno non hanno questo problema con la fame, non sentono tutti gli odori di questo mondo come qualcosa di vivo di cui nutrirsi» osservò Luke, critico. Luce scrollò le spalle.
«Sai quanto ci vuole per sfamarci?».
«Effettivamente no».
«Se siamo completamente a secco, dovremmo uccidere un essere umano al giorno per una settimana, per recuperare il sangue necessario a farci battere il cuore. E per mantenere il battito, dovremmo ucciderne uno ogni due giorni. Per l’eternità. Ti pare un qualcosa di etico da fare?».
«E se ti nutrissi di creature diverse? Noi licantropi siamo un pozzo senza fondo di sangue, ad esempio».
«Probabilmente ti manderei in ospedale, se mi nutrissi ora con te» mormorò Luce, affilando lo sguardo. La sua mente accarezzò l’idea di andarci a letto e nutrirsene, una sorta di contentino per entrambi; si vide quasi, si percepì contro il suo corpo caldo, bevendo il suo sangue finché anche il proprio non fosse stato tiepido, fino a far svenire il povero licantropo. Poi la corsa in ospedale, le trasfusioni, Luke che le faceva il pollice all’insù con un sorriso ebete— No. Non poteva farlo.
Si rese conto di avere le labbra socchiuse e gli occhi fissi nel vuoto, e quando si riscosse Luke la fissava divertito.
«Per un momento mi sei sembrata davvero morta» confessò.
«In che senso?» Luce si sentì quasi offesa.
«Beh… non respiravi neanche. Non ti muovevi. Eri immobile come… beh, come un cadavere, tesoro».
Luce si passò una mano sul viso, e sorrise funerea.
«Stavo pensando di accettare. Ma non potrei mai».
«Dai, c’è persino la sanità pubblica qui in Italia. Mica è come in America che paghi un’ambulanza con un rene. “Già che sei qui ti asportiamo un rene e una retina che così ci paghi il conto, che ne dici caro?”» fece una vocina simile ad una dottoressa a caso, e Luce scoppiò a ridere.
«Ne hai bisogno. Vieni qui» le fece cenno di avvicinarsi, ma Luce non pensava fosse una buona idea. Eppure era a secco anche di contatto fisico, e si disse che lo voleva solo abbracciare, non uccidere. Eppure non appena si avvicinò e Luke l’attirò fra le proprie braccia, l’odore prepotente del sangue fresco di lui le invase le narici e le fece ribollire la fame nel cuore, al punto che si ritrovò a leccare il suo collo quasi con violenza, mordicchiandolo come un gatto che gioca con la propria preda. Luke non disse nulla: il suo consenso era stato palesato mesi, settimane, giorni prima; e non c’era bisogno di ripetere nulla, anche perché si percepiva nell’aria il semplice fatto che se qualcuno avesse interrotto quella specie di rituale, Luce non si sarebbe più nutrita, di nuovo, per due settimane o anche di più.
Quando Luce gli addentò una spalla, la pelle si ruppe con la stessa consistenza che avrebbe avuto la buccia di un frutto fresco e maturo: il sangue le inondò la gola a fiotti, poiché la ferita era profonda e piuttosto estesa.
Non avendo mai bevuto da qualcuno prima di allora, in effetti, Luce era piuttosto inesperta; e se non sapeva come procurare il minor danno possibile alla “vittima”, meno ancora sapeva quando o come fermarsi.
Bevve, e bevve ancora. Bevve fino a scoppiare, fino a che il cuore non bruciò più neanche un po’, e infine bevve fino a che non sentì qualcosa di assordante nelle orecchie: un battito, poi un altro, e una lieve bradicardia si affacciò alla sua non-vita. Dio, come aveva fatto a convivere con quel battito per così tanto tempo? In quel momento le dava solo fastidio.
Luce scoppiò a piangere.
No, non le dava fastidio: le era mancato così tanto… Un cuore che batteva, che la rendeva viva, e che ora irrorava i suoi tessuti divorati dalla fame…
Si rese conto che Luke respirava a fatica, e che la ferita era secca, nonostante stesse guarendo velocemente come a tutti i licantropi. Luce spalancò gli occhi e arretrò convulsamente sul divano, spaventata.
«…Luke?» mormorò ad occhi spalancati nel buio. Lui batté le palpebre, poi la fissò con occhi vacui.
«…sì?» sussurrò con voce roca. Luce deglutì a fatica: in bocca aveva le papille gustative che danzavano nel sentire ancora il sapore del suo sangue.
«S-Stai bene?» balbettò: il licantropo era pallido come un morto, e lui sorrise, prima di aggrottare la fronte.
«…non c-credo» mormorò. Dopodiché si sporse dal divano, fissò il pavimento e vomitò. Poi rovesciò gli occhi all’indietro e perse i sensi.
«CRISTO» esclamò Luce, frugando nella borsa e prendendo il telefono per chiamare il 118. «Sì, salve, chiamo… chiamo da Bologna, centro città».
«Salve, qual è la sua emergenza?» rispose la voce di una donna.
«Ho… ho bevuto da un mio amico, tutto consensuale, ma… non mi nutrivo da un po’ e ho esagerato. Potete venire a prenderlo in ambulanza? È svenuto. Non so cosa fare!» Luce si piegò in due e poi si accovacciò sotto la finestra, con il respiro corto e un imminente attacco di panico.
«Si calmi signorina. Dove si trova?».
Luce dette numero civico e via, e la signorina confermò che stava per arrivare un’ambulanza. Passarono minuti, ma le sembrarono ore; e infine quando bussarono al citofono sobbalzò, deglutì e andò ad aprire. I paramedici caricarono Luke in barella, e mentre Luce lo fissava inespressiva, con il senso di colpa che le rodeva l’animo, la ragazza sentì una mano sulla spalla.
«Signorina, ci può seguire in ospedale?».
Cazzo. C’era la polizia. Merda.
Luce annuì e si rimise i tacchi con agilità, afferrò borsa e telefono e si morse le labbra cercando di apparire il più innocente possibile.
Il viaggio in volante fu tranquillo, ma la sirena dell’ambulanza che faceva loro strada era assordante almeno quanto il silenzio nell’abitacolo.
Una volta in ospedale, Luke scomparve alla sua vista e la polizia trattenne Luce all’ingresso, un po’ in disparte.
«Nella telefonata ha detto che si trattava di un rapporto consensuale».
«Infatti» mormorò Luce, colma di vergogna.
«Può spiegare come mai si è spinta tanto in là? È una banshee?».
«Io… io non sono abituata a bere dalla gente. Sono un vampiro. Mi nutro di trasfusioni, di solito» mentì, e il poliziotto elfo la guardò in tralice. La collega, una Fae, la scrutò attentamente.
«Da quanto non ti nutrivi?» la accusò quasi, e Luce sussultò: non era mai incappata in un poliziotto Fae, ma immaginava che la loro capacità di distinguere la verità dalla menzogna potesse risultare parecchio utile in quel campo.
«D-Due settimane» mormorò Luce afflitta. «Non volevo, lo giuro, ma lui ha insistito, e io… io ho ceduto» Luce sentì pizzicarle gli occhi, e distolse lo sguardo dalla poliziotta, odiandosi: quindi nutrirsi molto implicava il ritorno delle emozioni? Dio, se odiava essere un cazzo di vampiro.
La Fae la guardò quasi con compassione: ora che aveva percepito la verità, era molto più tranquilla.
«Ci può dare un documento, signorina?» intervenne l’elfo. Luce frugò nella borsa e gli porse carta d’identità, passaporto e tesserino sanitario. Su nessuno di essi era riportata la sua condizione, e i due poliziotti si scambiarono un’occhiata.
«Dovremmo apporre un timbro sulla sua carta d’identità e sul passaporto, signorina» la avvisò l’elfo, a disagio. «Dopodiché dovrà presentarsi al Centro di Salute del suo quartiere per aggiornare anche la tessera sanitaria. In questo modo saranno garantite sia a lei che ai cittadini sicurezza e chiarezza. Inoltre, le danno diritto a due sacche di sangue altrimenti non smaltibile, ogni giorno. Ci pensi, è una buona notizia, no?» le fece notare l’elfo, e Luce distolse lo sguardo, nauseata. Tirò fuori dalla borsa le sigarette e se ne accese una, nervosa, mentre la Fae timbrava il passaporto e l’elfo l’altro documento.
«Da quanto tempo sei un vampiro?» chiese la donna, e Luce sospirò.
«Due anni».
«Vedo che sei stata negli USA. È successo lì?».
Luce annuì suo malgrado.
«Ero… ero una cacciatrice di vampiri. Beh, lo sono ancora».
«Legalmente autorizzata, spero».
«Certo che sì» borbottò Luce, un po’ indignata.
La Fae le restituì il passaporto e fece un cenno verso l’entrata dell’ospedale.
«Che rapporto c’è fra lei e il ragazzo che ha quasi fatto secco?».
A Luce si rivoltò lo stomaco. L’aveva quasi ucciso. Cristo.
«Siamo… amici. Beh, un po’ più che amici. Abbiamo… Siamo stati a letto insieme qualche volta».
I poliziotti si scambiarono una lunga occhiata, ma era la verità.
«Quindi vi state frequentando?».
«È… è complicato» balbettò Luce, poi si portò la sigaretta alle labbra. «Siamo solo amici, ma qualche volta… cioè lo conosco da due mesi, non stiamo insieme».
«Capisco. L’ha ipnotizzato?».
«Cos- no!».
«Perché si è offerto come vittima?» chiese la Fae, inarcando un sopracciglio. Luce deglutì a fatica, ed esalò il fumo.
«Non… non lo so. Era preoccupato per me. Non mi nutro spesso, e quando lo faccio non è minimamente abbastanza. E lui… lui era lì. Carino. Disponibile. Consensuale» mormorò la ragazza, sospirando. No, non doveva scadere nel melodrammatico con tutti i dettagli che l’avevano spinta fra le sue braccia; non doveva… riportare tutti i minimi dettagli di come aveva persino accarezzato l’idea di ammazzarlo, per un breve e fugace istante prima di costringersi a staccarsi dalla sua spalla. La Fae la guardò di sottecchi, ma se era stata allarmata da quei pensieri non lo diede a vedere.
«Capisco. Andiamo a vedere se si è svegliato, ti va?» chiese gentilmente la Fae, ma Luce voleva solo scappare. Suo malgrado annuì.
Entrarono in ospedale e si diressero a passo svelto verso i cubicoli del pronto soccorso. In uno di essi c’era Luke, e giaceva sulla barella con una sacca di sangue collegata all’ago nel braccio; era sveglio, e quando la vide in compagnia di due poliziotti tentò di mettersi a sedere, preoccupato – ma l’infermiere lì vicino lo spinse di nuovo giù con un’occhiata in tralice.
«Luce, cosa…?».
«Ti ho quasi ammazzato, cretino!» ringhiò lei, sentendo di nuovo gli occhi pizzicare, colmi di lacrime.
«Agenti, lei… lei rischia qualcosa? Ho dato più volte il mio consenso, è lei che è solo… un po’ inesperta» spiegò preoccupato, e la Fae sorrise appena.
«Ci fa piacere che tu sia meglio. Non lo rifate più, va bene? O meglio ancora… se posso darvi un consiglio che esula la mia professione… sceglietevi una parola chiave da dire quando volete interrompere tutto e passare ad altro» ammiccò, o forse batté le palpebre: Luce non ne fu sicura, perché troppo impegnata a stropicciarsi gli occhi per non piangere.
«Grazie, agente» mormorò Luke, inarcando un sopracciglio. «Dovete… arrestarla o qualcosa del genere?».
«Per quanto ci riguarda non c’è stato alcun crimine, ma si poteva sfiorare l’omicidio… quindi state attenti, se ci sarà una prossima volta».
Luke annuì.
«Sarà fatto».
«Buona serata, ragazzi» l’elfo restituì i documenti a Luce e fece un cenno di saluto, mentre la Fae lo seguiva quasi saltellando. Luce guardò l’infermiere cambiare la sacca di sangue esaurita con una nuova.
«Posso… posso restare qui?».
«Vuole delle gocce, signorina?» chiese l’infermiere, preoccupato. «Se vuole chiamo lo psichiatra» suggerì, ma Luce sorrise pallidamente.
«No, vorrei solo… anzi, forse è meglio che vada» mormorò, ma Luke le prese la mano.
«Non sparire, okay?».
Luce rifuggì i suoi occhi castani, e annuì.
«Okay. Ci vediamo in giro».
«Tanto so dove abiti» ridacchiò il licantropo, e le lasciò la mano tiepida a malincuore.
Luce non rispose. Lo guardò a lungo, desiderando dirgli che era finita, che non avrebbero più dovuto vedersi, che era troppo pericoloso per lui continuare a far finta di nulla. Ma non desiderava dirlo davvero; era più che altro la sua coscienza che si ribaltava e faceva i salti mortali nel tentativo di punirla e giustificarsi al tempo stesso. Invece, disse:
«Mi mancherai», e vinse il suo egoismo. Luke sorrise, forse lusingato da quelle parole, e si strinse nelle spalle.
«Vedrai, mi terranno qui solo qualche ora. Ti dispiace se vengo da te stanotte, quando esco dal Sant’Orsola?».
Luce arretrò di un passo ed esitò, poi distolse lo sguardo e annuì mesta.
«Sì… vieni pure» mormorò.
Cos’era una punizione peggiore? Lasciare che lui la raggiungesse a casa, memore degli avvenimenti della serata, o privarsi della compagnia di chiunque per altre due settimane? Luce non ne era assolutamente certa, ma notò quasi improvvisamente che non sentiva più così tanto l’odore del licantropo, o del sangue della trasfusione, o degli infermieri; certo, percepiva degli aromi nell’aria, ma… era come essere sazi a tavola mentre ci si pone davanti un’altra pietanza: l’idea di mangiare ancora era allettante, ma fisicamente non ne si aveva bisogno.
Forse stare da sola altre due settimane non era poi un’idea così buona.
«Non ci pensare neanche» bofonchiò Luke. «Non sparire. Ti prego» mormorò, interpretando male il suo silenzio.
Luce scosse la testa, e sospirò.
«Chiamami quando esci» disse secca. «E quando sei sotto casa, bussa».
«Va bene» borbottò Luke, e Luce gli strinse piano la mano prima di dirigersi fuori.
Una volta a casa, si tolse di nuovo le scarpe, vuotò il posacenere nell’immondizia e si accese una sigaretta. Accese una consolle e mise su uno dei suoi videogiochi per perdere tempo; ricordava ancora che ci giocava con Roland, un cacciatore di vampiri che aveva preso sotto la propria ala in America, in quanto giovanissimo – sì, più di lei – e inesperto.
Ma quella di Roland era un’altra storia. Il ragazzo aveva pianto quando lei se n’era andata, tornando in Italia. Se non fosse finito morto ammazzato prima del tempo, sarebbe stata tutta fortuna. O peggio, avrebbe potuto essere trasformato anche lui in un non-morto. Si sapeva, alla fine, che i bastardi ci godevano a trasformare i cacciatori di vampiri in tali.
Alla fine giocò così a lungo che neanche si rese conto del tempo che passava; si disse che era fortunata, per il momento: i videogiochi con cui era cresciuta avevano ancora un supporto su cui girare, e quelli nuovi erano anche belli, in certi casi. Il problema sarebbe arrivato in una cinquantina d’anni o un secolo: i supporti sarebbero ancora esistiti? O l’obsolescenza continua l’avrebbe fatta impazzire prima?
Quando Luke fece squillare il cellulare, Luce aveva già spento tutto ed era sul divano, rilassata, con gli occhi socchiusi come stesse per addormentarsi. Ma siccome non poteva dormire, quello stato in particolare era la cosa che più ci si avvicinasse.
«Ehy» mormorò al telefono, e Luke accennò una risata.
«Pensavo che non mi avresti risposto. Sai, come… come fai sempre» disse, e Luce chiuse gli occhi.
«Sono molto stanca. Vieni qui o vai a casa tua?».
«Avevo detto che sarei venuto lì. Hai già cambiato idea?».
«…no, non ho cambiato idea. È solo… ho paura di farti ancora del male. Ho paura di ammazzarti» mormorò Luce, passandosi una mano sul viso. Luke sospirò.
«Sto arrivando. Aspettami alzata».
Luce ridacchiò.
«Certo, come se poi–» e lui le attaccò il telefono in faccia, senza lasciarle finire la frase. Luce gettò il telefono sul tavolino, e quando dopo circa un’ora qualcuno bussò, aprì il portone e la porta senza neanche rispondere.
Luke si richiuse dietro la porta e le sorrise.
«Tutto bene?».
Luce si strinse nelle spalle.
«Non dovresti aprire la porta senza neanche chiedere chi sia. È pericoloso».
«I ladri?».
«Pensavo più ai cacciatori di vampiri, ma anche i ladri vanno bene» abbozzò un sorriso divertito.
Luce si strinse di nuovo nelle spalle:
«Sai quanto me ne importa. Tanto sono già morta».
«A proposito… Non abbiamo più ripreso il discorso. Stan mi ha telefonato mentre ero al pronto soccorso».
Luce si rizzò a sedere.
«Cosa ha detto?».
«Che devi nutrirti regolarmente» Luke la guardò fisso negli occhi e Luce si abbandonò di nuovo sul divano.
«Okay. Altro?».
«Devi sviluppare i tuoi poteri da vampiro. Solo così ti ammetteranno ad un clan di vampiri, solo così potrai svolgere il tuo lavoro».
Luce arricciò il labbro superiore in una smorfia minacciosa.
«Per sviluppare i miei poteri da vampiro dovrei bere tutti i giorni come ho bevuto oggi. Ma si sente quando parla? È impossibile. Lo Stato mi dà due sacche di sangue al giorno, dopo oggi. Non bastano minimamente per ciò che ha in mente Stan».
«Luce, forse non ci siamo spiegati: devi abbandonare l’idea di essere una candida paladina dei diritti umani del cazzo, e iniziare a nutrirti decentemente per un bene superiore. Chi cazzo se ne frega se qualche diavolo di barbone crepa per farti mangiare?».
«A ME! A ME FREGA!» ringhiò Luce, e Luke sobbalzò. «Non voglio uccidere nessuno. Fine della discussione».
«Allora berrai da me, che la cosa ti piaccia o meno, e imparerai a controllarti in questo modo».
«E se… E se mi chiedessero di uccidere qualcuno come prova che sono un vampiro senza scrupoli? Per entrare nel clan, dico».
«Ci penseremo poi» la rassicurò Luke, e Luce sospirò. Si alzò dal divano e si diresse alla finestra, dove si accese una sigaretta.
«A cosa pensi?» mormorò Luke, avvicinandosi a lei circospetto.
«A niente» rispose lei, ma non era vero: pensava alla sua famiglia, al malaugurato giorno in cui era stata tramutata in vampiro, e a tante altre giornate che le erano sembrate normali finché il suo cuore non aveva smesso di battere.
   
 
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