Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    31/10/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Natale, alla villa di Castello, era passato in modo anche troppo tranquillo. Frate Lauro aveva preso sotto la sua ala Sforzino, Bernardino e Galeazzo e si era messo a raccontare dei Natali che, da ragazzino, aveva passato a Milano. Ottaviano, come suo solito, si era distaccato dal resto della famiglia e aveva passato la giornata bighellonare per casa, finendo per chiudersi nella sua stanza in attesa della cena.

L'unica cosa che Caterina aveva notato davvero, era stato il pesante bracciale al polso della figlia, evidentemente un regalo di Troilo, e un giubbetto di tessuto grezzo che indossava l'uomo e che la Tigre ricordava benissimo essere stato tra i lavori di cucito della figlia. Quei regali se li erano scambiati lontani da occhi indiscreti, ma poi non si erano dati pena di nasconderli agli altri abitanti della villa.

Si vedeva, comunque, che tenessero a mantenere ancora un basso profilo. Se non si nascondevano quando si trovavano soli con la Sforza, appena arrivava un membro della servitù o chiunque altro, improvvisamente mettevano tra loro un po' più spazio e cercavano di non mostrarsi troppo in confidenza. Dopo pranzo, comunque, si ritirarono, uno dopo l'altra, con la scusa di riposare un po' e anche loro, fino all'ora di cena, non si videro più.

Caterina, che aveva passato buona parte della sua giornata a pensare a Giovannino e a chiedersi come stesse passando quel Natale, si era sentita più sola del solito e la sensazione di invidia già provata il giorno prima verso la figlia e il De Rossi, si era acuita via via così tanto da renderle indigesti anche i pasti.

Si sentiva quasi ridicola a reagire a quel modo, ma era impossibile incarreggiare la sua mente altrove. Più li guardava, più pensava a quanto fossero fortunati a piacersi così tanto e a poter trascorrere assieme del tempo senza che nessuno li disturbasse o li mettesse sotto processo per l'inusualità della loro unione. E quando non poteva guardarli, perché ritirati in camera, era anche peggio, perché la sua testa vagava tra immagini e congetture che avrebbe preferito evitare.

Man mano che era calata la sera, la Leonessa, che aveva già passato gran parte del suo tempo in silenzio, si era fatta del tutto taciturna e, dopo aver appena assaggiato la sua cena, si era scusata con tutti e si era ritirata per la notte.

Si addormentò a fatica, fece pochi sogni, abbastanza confusi, e si risvegliò del tutto quando ancora non era mattina. A strapparla infine al sonno, era stato un incubo molto vivido, per quanto caotico come tutti quelli che l'avevano preceduto. L'ultima immagine che si portò con sé, quando riaprì gli occhi di scatto, fu quella di suo padre in terra, in una pozza di sangue, pallido e senza ombra di dubbio morto. Sotto di lui, in contrasto, quasi con sfregio, il pavimento della chiesa, decorato, impassibile, aulico, macchiato in modo indelebile dal rosso della vita che se n'era andata per sempre.

Caterina deglutì parecchie volte, prima di essere certa di non dare di stomaco. Aveva mal di testa e avrebbe volentieri dormito ancora un po', se solo non avesse avuto paura di tornare nel suo consueto spiraglio di incubi.

Così lasciò il letto, si vestì, coprendosi il più che poteva, dato che il freddo era pungente, e poi andò alla finestra. Nevicava ancora, fortissimo. Nella sua vita aveva visto più di un inverno rigido, ma quella mattina le parve di non trovare confronti, nella sua memoria, con quella nevicata.

Sapeva di ingannarsi. Un esempio per tutte erano state le nevicate che aveva visto a Milano, da bambina, e poi quelle che aveva affrontato da adulta, a Ravaldino, sotto assedio...

Stringendosi nelle spalle, la Sforza si trovò a ripensare al gelo che aveva patito nelle celle di Castel Sant'Angelo, alla certezza di morirvi che aveva provato, e alla rabbia mista a terrore che l'aveva invasa, nel momento in cui Giovanni da Casale aveva dichiarato la resa, rendendola, di fatto, una preda del Valentino.

Pirovano era stato per lei un uomo importante, un uomo che aveva amato più di quanto si sarebbe meritato. Aveva preferito Manfredi a lui, ma morto il faentino, era stata felice di poter ripiegare sul milanese. Il fatto che la sconfitta finale fosse arrivata anche per colpa sua era un dolore ancora così cocente da andare a cancellare tutto quello che aveva provato nei suoi confronti. Anche le lunghe notti d'amore, la consolazione di avere qualcuno che condividesse con lei le origini lombarde, perfino la soddisfazione che aveva provato nel strapparlo al Moro e tenerlo con sé... Tutto svaniva, nel ripensare a quei pochi attimi...

Con un gesto istintivo, si portò una mano alla coscia su cui campeggiava la grande cicatrice che aveva in un certo senso segnato la sua fine. Prima che se ne rendesse conto, si trovò piegata su se stessa, in lacrime.

 

“Ti dico che, invece, dovresti venire anche tu, domani, alla processione.” ribadì Semiramide, evitando lo sguardo di suo marito, ma non accennando minimamente a mollare l'osso.

L'uomo, che in quel momento sentiva di avere mille e mille cose più importanti da fare, che passeggiare al seguito della tavola di Nostra Donna di Santa Maria Impruneta, ebbe uno scatto di impazienza e, sollevando rabbioso entrambe le mani, sbottò: “Chi se ne importa se non mi vedranno alla processione! Ci sarà tanta di quella gente che mi basterà dire di esserci stato anche io e nessuno potrà dire il contrario!”

L'Appiani lanciò un'occhiata alle carte che il Medici aveva sulla scrivania. Erano alla rinfusa, e molte erano anche stropicciate. Sapeva che si trattava di documenti e progetti riguardo l'impianto accusatorio che avrebbe mosso contro la cognata. Il malumore di Lorenzo era in parte legato a quello: le cose gli stavano sfuggendo di mano e il processo che sperava di far celebrare già a inizio anno stava slittando sempre di più, anzi, stava diventando sempre più complicato trovare un reale motivo per convincere un giudice a prendere in considerazione l'ipotesi di rischiare di inimicarsi Caterina Sforza per motivi tanto futili.

Era qualcosa di impalpabile, ma Semiramide se n'era accorta: la posizione della Tigre di Forlì, negli utlimi mesi, o, meglio, nelle ultime settimane, era un po' cambiata. Non era più solo la vecchia prigioniera del Borja... Suscitava ancora interesse, ma, soprattutto, iniziava a suscitare di nuovo paura. Molti avevano intravisto una sua ingerenza nella nomina di Francesco Gonzaga come Capitano Generale dell'esercito fiorentino e tanti altri la ritenevano ancora molto influente. Nessuno avrebbe saputo dire in che modo una donna come lei, sola, vedova, isolata in una villa di campagna e praticamente senza soldi potesse davvero avere un peso nella grande politica, eppure le sensazioni della gente bastavano a darle il potere che, in realtà, non avrebbe avuto.

Lorenzo, chiuso com'era nel suo particolare, non se ne stava accorgendo, tanto meno si stava accorgendo della crescente carenza di fiducia nel re di Francia da parte dei fiorentini. Era qualcosa che andava di pari passo con il riprendere autorevolezza della Leonessa di Romagna, e, proprio per questo, avrebbe dovuto essere per il Medici un motivo di grande cruccio.

“Ti dico ti venire anche tu.” si ostinò l'Appiani che, malgrado tutto, non ce la faceva a vedere il marito in quello stato, e, in più, non sopportava l'idea che, con la sua miopia, rischiasse di trascinare a fondo anche lei e i loro figli: “Potresti sentire con le tue orecchie delle cose a cui non crederesti, se te le dicessi io.”

“Per esempio?” domandò lui, sollevando gli occhi rotondi verso la moglie, improvvisamente interessato.

“Te ne accorgerai.” ribatté lei irritata, sperando a quel modo di smuoverlo.

In effetti Lorenzo saltò in piedi e, aggirata la scrivania, la prese per un braccio e chiese di nuovo, più aggressivo: “Per esempio?!”

Quel contatto, seppur sgradevole per l'intenzione che l'aveva provocato, diede una strana scossa all'Appiani. Erano mesi, ormai, che il marito non la toccava, nemmeno per sbaglio. Avrebbe tanto voluto poter cancellare tutto quello che era successo negli ultimi anni e riavere il Lorenzo che aveva amato, l'uomo tranquillo e solido, il padre dolce, il marito innamorato...

Ma sapeva che era un'utopia. Ritrasse con violenza il braccio e ripeté di nuovo al Medici che l'avrebbe scoperto solo presentandosi alla processione.

Avrebbe voluto dirgli tutto, dirgli di come a Firenze molti volessero far tornare dei fuoriusciti, di come alla Signoria, lo sapeva per certo, si parlasse di rimettere su certi scranni uomini che erano stati allontanati per volere di re Luigi... Voleva fargli capire che era il caso di riappacificarsi con la cognata, di prendere un minimo di distanze con i francesi e tornare sui propri passi, evitando a Firenze un'alleanza che stava diventando scomodissima, visti gli ultimi movimenti dell'Imperatore, che, dopo anni di indifferenza, principiava a mostrarsi insofferente verso il monarca d'Oltralpe... E invece non disse nulla.

Guardandolo con severità, riuscì appena a sussurrare: “Se vuoi, ti ho fatto rinfrescare l'abito di raso rosso e giallo. Ti starà largo, ma è il migliore che ti rimane, con i colori della tua famiglia...”

Non era un dettaglio, si disse il Medici, che la moglie avesse detto 'tua' famiglia e non 'nostra' famiglia. Fingendo di non accorgersene, fece un mezzo suono gutturale e incrociando le braccia sul petto le disse che ci avrebbe pensato.

“Non ho mai voluto il tuo male.” mise in chiaro lei, scuotendo il capo: “Ma adesso...”

Lorenzo avrebbe voluto che andasse fino in fondo, che gli dicesse che ormai lo odiava. In fondo, che altro aveva da perdere? Invece sua moglie si girò, plateale, e lo lasciò solo nello studiolo.

Rimessosi alla scrivania, non riuscendo a concentrarsi su nessuna delle carte che aveva davanti, il Medici fece un sospiro profondo e premendosi le tempie per scacciare il tremendo mal di capo che l'aveva appena preso, cercò con tutto se stesso di provare a essere conciliante. Con passo funereo, lasciò lo studio e andò nelle sue stanze. Trovò l'abito di cui sua moglie gli aveva fatto cenno e lo provò.

Gli stava tanto largo da non sembrare nemmeno un abito suo.

Deglutendo e schiacciando gli occhi, sempre per mandare via la morsa che gli stringeva la testa, pensò fosse il caso di farlo sistemare. Andò a cercare una serva che sapeva essere brava con l'ago e le ordinò di stringere laddove possibile, anche in modo non definitvo e grossolano.

“Tanto – ribadì, più a se stesso che alla domestica – ci sarà tanta di quella gente, domani, che io sarò l'ultimo dei loro pensieri...”

 

Caterina aveva sfuggito la compagnia di tutti. Come ogni anno, anche quel Santo Stefano si stava tramutando per lei in un mezzo supplizio. Non solo continuava a rivivere il giorno in cui aveva visto suo padre, il Duca Galeazzo Maria Sforza, cadere sotto le pugnalate dei traditori, ma si impantanava anche nel senso di colpa per non avere con sé Giovannino.

Sapeva che stava facendo la cosa migliore per lui, ma la sensazione di averlo in parte abbandonato non la lasciava. Era arrivata a ripromettersi di passare in convento dei periodi più lunghi, magari facendosi anche assegnare una celletta, aiutando le monache con le pozioni per la febbre o per quello che sarebbe servito loro, in modo da non destare sospetti all'esterno...

E più pensava al figlio, tanto amato, che stava passando così tanto tempo lontano da lei, più si rimproverava per come aveva, anni prima, volontariamente allontanato Bernardino, affidandolo per troppo tempo a una famiglia popolana, trattandolo come un figlio di minore importanza, quando, invece, era nato dall'amore più grande e violento che avesse mai provato in vita sua.

Tutto quanto, la confusione, la rabbia, il dolore, la solitudine, andavano a concretizzarsi sempre verso un'unica soluzione. Come aveva fatto tante altre volte in passato, si era trovata a dirsi che se solo avesse potuto distrarsi con un uomo, avrebbe in parte accantonato i suoi tormenti. Continuando a ragionarci, l'idea non le sembrava nemmeno più così difficile da realizzare.

Aveva ancora addosso i segni delle violenze del Valentino, anche se non erano visibili, e, conoscendosi, sapeva che ci avrebbe messo un po' a lasciarsi andare di nuovo, ma era una cosa che vedeva, ormai, come indifferibile.

Sapeva, dalle ultime notizie filtrate da Fortunati, che Baccino era ancora a Roma, in salvo, ma che per il momento era meglio che non si muovesse da lì. Se solo avesse potuto averlo con lei, lo sapeva, sarebbe stato tutto più semplice.

Aveva trascorso a quel modo l'intera giornata. Era sceso il buio e lei ancora non aveva mangiato nulla, se non un piatto di pasta con le verdure, su insistenza di Bianca, che si stava preoccupando molto per lei, pur sapendo che quella, come ogni anni, era una giornata particolare.

Sceso il buio, mentre ancora nevicava senza sosta, la Tigre si era chiusa in stanza e aveva quasi evitato di rispondere, quando, dopo un po', qualcuno aveva bussato alla porta.

“Lo so che non mi aspettavi, ma volevo passare di qui, prima di andare a Firenze per la processione di domani...” la voce di Fortunati, che arrivava ovattata da dietro la porta, ebbe il potere di rinfondere un po' di vita nella milanese.

Alzandosi in fretta dal letto, andò ad aprirgli subito, sorpresa di trovarlo lì, dato che non si erano accordati per quella visita.

L'uomo, ancora vestito da viaggio, arrossato per il freddo e con il copricapo coperto di neve che iniziava a sciogliersi, le sorrise, d'istinto, e la seguì in stanza.

Caterina lo guardava, mentre lui parlava, ma non seguiva il suo discorso. Stava osservando il suo profilo, deciso, ma elegante, il suo fisico asciutto e molto piacente, calcolando che si tratttava di un uomo di chiesa e non di spada. Ci aveva pensato tanto, e ne era ancora convinta: era un bell'uomo, a lei ci teneva, con lei sarebbe stato gentile, l'avrebbe capita fino in fondo...

Francesco stava ancora parlando, ma vedeva la donna molto distratta. Anche lui faceva fatica a tenere il filo del suo discorso, perché la Sforza indossava solo una vestaglia da camera molto sottile e, benché l'avesse vista anche più nuda di così, gli pareva che quel velato che nascondeva solo in parte le sue forme fosse una tentazione quasi impossibile da sconfiggere.

Stava ancora sforzandosi di distogliere lo sguardo dalla curva disegnata dal suo seno, quando Caterina mosse in fretta due passi verso di lui e, prima che Fortunati potesse capire le sue intenzioni, lo baciò.

L'uomo avvertì con un senso di stordimento il contatto con le labbra della Leonessa. Non si mosse, incapace di fare alcunché. La milanese, invece, indugiò qualche istante, forse per convincerlo ad assecondarla, o forse perché non voleva staccarsi da lui e basta.

Quando alla fine desistette, aprì gli occhi e incrociò quelli spalancati del piovano. Capì la sua confusione, si rese conto di aver fatto una cosa che non aveva senso, non in quel momento, almeno, non per lui...

“Perdonami.” sussurrò, indietreggiando ancora un po': “Perdonami, perdonami...”

L'uomo si sfiorò le labbra con la punta delle dita, trovandole ancora umide. Gli tremavano le gambe e il cuore correva come un cavallo impazzito.

Caterina non riusciva a credere di aver commesso un simile errore. Francesco era un religioso, ma non un religioso come quelli che vivevano a Roma, o come era stato uno dei suoi amanti... Era un religioso che credeva nei suoi voti, nella sua ferma castità, nella sua devozione al di là dei vizi umani.

“Io... Io non posso.” disse lui, dopo qualche minuto, andando a confermare quello che la donna stava pensando.

“Perdonami.” ripeté ancora lei, sentendo un nodo salirle alla gola.

Non aveva alcuna intenzione di mettersi a piangere, ma la frustrazione che stava provando era tanto cocente da renderle difficile resistere alle lacrime. Se solo al posto di Fortunati ci fosse stato Baccino, la Tigre sapeva che quel bacio non sarebbe andato a vuoto, sapeva che avrebbe trovato la risposta che cercava... Invece Francesco era lì, immobile, come una lastra di marmo, incredulo per quello slancio che non aveva minimamente previsto.

“Io...” balbettò l'uomo, abbassando lo sguardo: “Io... Perdonami, io non posso...”

La Sforza, faticando a parlare senza che la voce le si incrinasse, ribatté: “È solo che io... Io ne ho bisogno.”

A quel punto il piovano si accigliò, tornando a guardarla. Aveva l'espressione di qualcuno intento a capire qualcosa di molto complicato.

“Ho bisogno di... Io voglio un uomo.” chiarì una volta per tutte la Leonessa: “Ma... Ne ho anche paura. Ho pensato che tu...”

“Io ho preso dei voti, ho fatto dei giuramenti...” spiegò il piovano, a voce bassa, le mani che si stringevano l'una nell'altra.

“Lo so...” soffiò la donna, sempre più pentita di aver agito d'impulso.

“Io... Io ci devo pensare...” prese tempo lui, scuotendo appena la testa.

Caterina, reagendo alla delusione che provava con rabbia, usando un meccanismo che spesso aveva fatto suo, ribatté, con sprezzo: “Non ti piaccio abbastanza...” prima che Fortunati potesse obiettare in qualche modo, la milanese riprese: “Lo so, sono... Non sono più come prima – disse, indicandosi con entranbe le mani – sto prendendo peso, ma non ho più muscoli, ho una cicatrice che mi copre una coscia quasi per intero, sono vecchia, ho avuto otto figli, ho i capelli bianchi, sono...”

Francesco sentì il bisogno prepotente di frenarla. Non condivideva nulla di quello che aveva detto, non, almeno, nel significato più profondo. Era vero che la Sforza aveva in parte cambiato forma, ma era inevitabile, dopo quello che aveva passato. Non era più una ragazza, ma non era affatto una vecchia, anzi, Francesco, pur avendo appena tre anni più di lei, la vedeva molto più giovane. E per quello che riguardava i figli, a lui non interessava il suo passato, non in quel senso...

“Tu sei una donna bellissima.” decretò, di colpo, zittendola: “Tu sei l'unica... Sei l'unica donna con cui io potrei... Io...”

Non riuscendo più ad andare avanti nel suo discorso, chiedendosi come avessero potuto ingarbugliarsi in una situazione del genere, Fortunati fece un sorriso imbarazzato, si scusò ancora un paio di volte e poi, sussurrando qualcosa che aveva a che fare con il suo bisogno di riposarsi prima di ripartire per Firenze, andò alla porta e uscì.

La Tigre avrebbe voluto seguirlo, chiarire tutto, finché l'accaduto era ancora recente. Aveva già mosso un passo avanti, ma si fermò. Era stanca, era abbattuta, non aveva alcuna voglia di fare quanto si era riproposta.

Si andò a sedere sul letto, abbacchiata. Aveva provato un lieve brivido, nello sfiorare le labbra di Fortunati con le sue, ma anche lei era rimasta interdetta da quel momento. Si era aspettata che lui reagisse in qualche modo, magari anche allontanandola con la forza. Non era affatto abituata a lasciare indifferente un uomo. Forse il piovano non era rimasto del tutto freddo alla sua iniziativa, nel suo profondo, ma quello che aveva dato a vedere era chiaro...

Con un sospiro roco, Caterina si lasciò ricadere all'indietro, fissando il soffitto e attese che il tempo passasse e arrivasse la mattina.

Quando, poco prima dell'alba, lasciò la sua stanza, ancora insonne e assillata da un senso di pesantezza alla testa che non le dava pace, incrociò per puro caso Francesco che stava per ripartire.

“Non saresti nemmeno venuto a salutarmi?” chiese lei, mortificata.

L'uomo sollevò un attimo le spalle e poi ammise: “Non sapevo se ti avrebbe fatto piacere vedermi.”

“Non voglio rovinare tutto per un bacio.” riassunse lei, ancora senza riuscire a incrociare lo sguardo dell'uomo.

In quel frangente Fortunati fece una cosa che Caterina non si era aspettata. Con un guizzo improvviso le prese una mano e la strinse tra le sue. Era un gesto accorato, intriso di un'urgenza che la Sforza gli aveva visto mostrare solo di rado.

Con il tono di un penitente che si rivolge a un confessore, il piovano disse: “Ho passato tutta la notte a pensare a quello che mi hai detto.”

La milanese rimase in attesa, perché aveva capito, dal modo in cui l'altro aveva chiuso gli occhi e aveva stretto di più la sua mano, che il discorso non era finito.

Infatti, dopo qualche secondo di esitazione, Francesco finalmente cercò il suo sguardo e, specchiandosi nei suoi occhi verdi, la pregò: “Dammi tempo.”

Molto più sollevata del previsto, anzi, quasi euforica, la Leonessa comprese che dietro quella richiesta cominciava a intravedersi un assenso. Facendo del suo meglio per non dare a vedere quanto le sue speranze si fossero riaccese, posò la mano libera su quelle del piovano, che non la volevano lasciare e poi lo ringraziò.

“Per me non è una questione semplice.” fece presente lui, lasciando finalmente la presa.

“Io non ho fretta.” lo rassicurò lei, scoprendosi in effetti più paziente del solito.

L'uomo fece un cenno con il capo e poi, appena prima di voltarsi e scendere le scale, si accigliò un istante e domandò: “Ma è vero che Troilo De Rossi è qui alla villa?”

Arrivando tardi e partendo presto, non aveva avuto modo di vederlo, ma una delle serve, una certa Creobola, glielo aveva riferito quel mattino, andandolo a svegliare come da lui richiesto la sera prima.

“In fondo – aveva sospirato, con un'allegria quasi fuori luogo – è bello che ci siano più ospiti, qui alla villa...”

Lui aveva chiesto spiegazioni e così, dopo aver finto per un po' una certa ritrosia, la domestica aveva vuotato il sacco molto in fretta.

“Messer De Rossi – aveva riferito, con aria cospiratrice – è qui da venerdì... Ma lo si vede abbastanza poco, perché passa quasi tutto il tempo in camera...”

Soprappensiero e ancora un po' addormentato, Fortunati aveva chiesto: “E come mai?”

“Be' – aveva riso allora Creobola – credo che il tempo voli, quando ci si diverte... Probabilmente non si rende conto di trascorrerne così tanto là dentro...”

Caterina, nel sentirsi chiedere dal piovano se Troilo fosse lì, si chiese se qualcuno glielo avesse riferito o se lui, per qualche motivo, l'avesse intravisto. Era abbastanza certa che l'emiliano si fosse chiuso in camera con Bianca la sera prima e che non ne fosse ancora uscito, ma...

“Sì, è qui.” ammise la Tigre.

“E perché non mi hai detto subito che i francesi hanno...” iniziò a dire lui, ma la donna lo interruppe.

“Non è qui in veste ufficiale.” tagliò corto lei.

“E allora perché è qui?” indagò Francesco, non riuscendo a vedere cosa mai potesse fare lì il De Rossi, se non vigilare come emissario di re Luigi.

“Posso sempre fidarmi di te?” chiese Caterina, abbassando sensibilmente il tono della voce, nel caso arrivasse qualche servo e la sentisse.

Fortunati, ovviamente, annuì e, anzi, sottolineò: “Mi farei ammazzare, piuttosto che tradire la tua fiducia.”

“Il De Rossi è qui per mia figlia.” riferì, in fretta, la Leonessa.

Il piovano capì con un attimo di ritardo. Dapprima la guardò perplesso, poi contrariato e, infine, quasi rassegnato. Non era certo di aver compreso a fondo le implicazioni di quello che Caterina gli aveva appena detto, ma aveva capito anche troppo bene che la Tigre aveva già metabolizzato la cosa e che, tutto sommato, le stava bene. Chi era lui per dire il contrario?

“Non giudicarla.” lo pregò la Sforza, leggendo nello sguardo di lui ancora un vago sentore di rimprovero.

Il piovano, allora, scosse il capo e borbottò: “Non sono io a dover dire cosa sia bene per lei. A ogni modo, adesso è meglio che vada. Non voglio far tardi. Con questa neve mi ci vorrà il doppio del tempo...”

“Allora promettimi che ci penserai.” concluse Caterina, riferendosi al primo discorso che avevano affrontato.

Francesco, cambiando espressione, annuì con una certa solennità e promise: “Ci penserò, promesso...”

“Quando tornerai qui?” la domanda della Leonessa era arrivata veloce, mentre l'uomo già scendeva le scale.

Non le piaceva sembrare così disperata. Avrebbe voluto mostrarsi distaccata, quasi disinteressata, come sarebbe stata capace di fare anni addietro. Invece la sola idea che Francesco potesse starle lontano settimane o addirittura mesi, improvvisamente le sembrava insopportabile.

“Se tutto va bene, spero tra qualche giorno.” rispose lui, fermandosi con i piedi su due gradini diversi: “E ti farò sapere anche che umori tirano in città.”

Le aveva parlato delle agitazioni di Firenze anche la sera prima, ma, col senno di poi, era probabile che la donna non avesse ascoltato nemmeno una parola, tanto era concentrata dal suo proposito di provare a baciarlo e, forse, se avesse trovato terreno favorevole, a sedurlo.

“Ti aspetterò.” promise allora lei e, imponendosi di non seguirlo fino al portone, lo guardò arrivare al piano di sotto e accordarsi con un paio di servi affinché gli preparassero il cavallo.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas