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Autore: blackjessamine    02/11/2021    5 recensioni
[Kingsley Shacklebolt/Gilderoy Allock]
"Le eccezioni, per Gilderoy, erano macchie.
Elementi capaci di infastidirlo oltre ogni misura, come errori nel tessuto perfetto delle giornate che andava costruendosi.
Aveva imparato a diffidare delle eccezioni, perché un’eccezione non è mai solo un’eccezione: un’eccezione è la porta aperta su un fiume capace di travolgere con una piena distruttiva tutto ciò per cui aveva sempre lavorato.
Eppure, esistevano eccezioni da cui era impossibile prendere le distanze".

O di quella volta in cui Gilderoy non seppe esitare abbastanza.
[Storia partecipante alliniziativa A corde di Acquaviola organizzata dal gruppo facebook L'angolo di madama Rosmerta]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Crack Pairing | Personaggi: Gilderoy Allock, Kingsley Shacklebolt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Kingeroy'
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Parte seconda
 
 
 
 
La seconda volta che l’eccezione si insinuò a giocare con le crepe della sicurezza di Gilderoy, Londra era coperta da un compatto strato di neve sporca di grigio e le luci di Natale[1] continuavano a brillare a ogni angolo di strada, desolanti nel loro essere ormai fuori luogo.
Gilderoy odiava il Natale: amava il picco di vendite dei suoi libri nel periodo delle feste, amava la girandola di eventi a cui era invitato durante il mese di dicembre, ma detestava la solitudine che gli stringeva la base dello stomaco quando la mondanità cedeva il passo alle feste da trascorrere in famiglia. C’era sempre un momento, dopo gli ultimi brindisi la sera della vigilia, in cui ci si guardava e ci si sorrideva, si annuiva, si concordava che fosse il momento di tornare a casa e di dedicare finalmente del tempo alla propria famiglia. Ci si diceva che era qualcosa di meritato da chiunque, anche da un giovane scrittore di successo, e poco importava che Gilderoy a casa avesse solo un’immensa pila di regali provenienti da mittenti sconosciuti e nemmeno un sorriso a cui tornare[2].
Doveva fingere, doveva annuire e mostrarsi grato per quell’occasione di dedicarsi alla famiglia, perché questa era l’immagine che il suo pubblico voleva vedere di lui. E di solito era piuttosto bravo a indossarla, questa immagine. Ma Natale è Natale per tutti, e anche una persona come Gilderoy, in occasioni del genere, sentiva il peso delle proprie stanze piene solo di oggetti e lettere impersonali gravargli sulle spalle.
E se c’era qualcosa che lo intristiva più di una giornata di Natale trascorsa a mangiare un ottimo tacchino preparato dalla miglior rosticceria del quartiere senza mai sentire il bisogno di pronunciare anche solo una parola, quel qualcosa erano i giorni che seguivano al Natale. Quando la vita sembrava riprendere, ma non del tutto. Quando gli addobbi continuavano a riempire case e strade, ma erano ormai qualcosa di passato, il ricordo sbiadito e un po’ imbarazzante di un momento che si cercava di far durare il più possibile, con espedienti che Gilderoy non poteva fare a meno di considerare patetici.
E patetico era cercare di fuggire al silenzio delle proprie stanze rifugiandosi in un luogo come il White Swann, che in quel periodo dell’anno sembrava svuotarsi per lasciare posto solamente agli individui più soli e disperati.
 
Gilderoy non si considerava solo e disperato. Solo forse sì, ma disperato proprio no, motivo per cui si era sempre rifiutato di raggiungere il White Swann nelle settimane comprese fra il ventiquattro dicembre e il tre di gennaio.
Eppure, quell’anno la solitudine aveva scavato fosse più profonde, combinandosi con una buona dose di tedio e insofferenza che lo aveva travolto davanti all'ennesimo albero di Natale ormai inutile, eppure così sfacciato nel suo carico di addobbi e luci colorate.
Era entrato al White Swann per cercare di sconfiggere la noia: non aveva davvero intenzione di trovare qualcuno con cui concludere la serata, ma sperava semplicemente di vedere qualche volto nuovo, di farsi offrire da bere e giocare a essere irresistibile e sfuggente, un balsamo per il suo ego coperto di lividi dal silenzio di quei giorni di festa.
 
Non si sarebbe mai aspettato di ritrovarsi a inciampare di nuovo nello sguardo attento e penetrante dello sconosciuto che mesi prima gli aveva voltato le spalle.
Non si sarebbe aspettato di avere solo gesti maldestri e di rovesciare il bicchiere di Burrobirra di quell'uomo – che poi era poco più di un ragazzo, perché non poteva avere che qualche manciata di anni più di Gilderoy – o di arrossire nello scusarsi. E di arrossire ancora di più sentendo la voce profonda e rassicurante dell'uomo sminuire la macchia umida che si stava allargando sui suoi pantaloni: perché quella era una voce capace di vibrare nel petto di Gilderoy con la profondità di un terremoto, e perché quella macchia era talmente impudica e ammiccante da suscitare solo pensieri inadatti a essere condivisi con uno sconosciuto.
 
"Davvero, perdonami, di solito non sono così maldestro. Basta un Gratta-E-Netta, e…"
Lo sconosciuto rise, e fermò con un gesto delicato la mano di Gilderoy che stava correndo alla bacchetta.
Grazie a Merlino e alla sua lozione LisciaBarba.
Gilderoy non lo avrebbe mai ammesso, ma gli incantesimi di pulizia non erano esattamente il suo cavallo di battaglia, e la posizione di quella macchia era decisamente troppo delicata per rischiare di sbagliare mira e intensità dell'incantesimo.
E poi quella mano dalle dita lunghe e nodose, calde, dalla presa sicura ma gentile erano una carezza a cui Gilderoy non avrebbe mai voluto rinunciare.
"Non è necessario, davvero. Ci penserò domani".
Quella voce era una carezza di velluto approfondita da una vena appena arrochita, come se un sentore di tabacco si fosse trasformato in vibrazione uditiva.
Gilderoy, con un sorriso soddisfatto, notò che lo sconosciuto non aveva scostato la mano, continuando a tenerla posata attorno al suo polso.
"Ma mi dispiace, spero di non averti rovinato i pantaloni".
L'uomo sorrise, accennando una risata appena trattenuta.
"Peccato solo per la posizione scomoda della macchia. Forse è meglio coprirla col mantello… ti va di fare due passi con me?"
Una domanda decisa: niente giri di parole, niente gioco di seduzione. Solo una domanda accompagnata da uno sguardo capace di far sentire Gilderoy completamente trasparente, trapassato da parte a parte da quegli occhi che sembravano voler dire dimmi di sì e mi farai molto contento, ma se mi dirai di no, non importerà, non te lo chiederò una seconda volta. Perché almeno di questo Gilderoy si sentiva sicuro: quell'uomo non si sarebbe piegato ai giochi di seduzione in cui Gilderoy era solito eccellere. Non avrebbe mai accettato una ritrosia che voleva solo chiedere attenzioni, non avrebbe cercato il nascosto nel no.
E Gilderoy, che di norma non avrebbe mai ceduto a una domanda tanto diretta senza prima ottenere un po' di corteggiamento capace di coccolare il proprio ego, decise di abbandonarsi a quella nuova eccezione.
"Mi piacerebbe moltissimo fare due passi con te".
 
***
 
Kingsley.
Lo sconosciuto si chiamava Kingsley, parlava pochissimo ma viveva di sguardi capaci di abbattere ogni barriera, e le sue poche parole erano dirette e aperte, sincere, capaci di spogliare Gilderoy di ogni ritrosia.
 
"Perché non mi hai parlato, l'altra volta?"
"Non ero da solo".
"E adesso lo sei?"
"Ovviamente, o non ti avrei invitato a farmi compagnia".
"Che tipo di compagnia vuoi?"
"Quella che sei disposto a darmi".
 
Stavano per Materializzarsi a casa di Kingsley.
Gilderoy, sempre così attento alla propria sicurezza e alla segretezza, si era accontentato di passeggiare accanto a quell'uomo sconosciuto senza scambiarci più di qualche frase senza troppo significato prima di acconsentire a seguirlo a casa sua. Lo aveva fatto senza timori: Kingsley dallo sguardo acuto, Kingsley dalla voce profonda e rassicurante non poteva essere un pericolo. Gilderoy non voleva vivere in un mondo in cui una voce tanto rassicurante fosse solo un'esca, e così sì, aveva annuito alla sua proposta, lo aveva seguito in un vicolo appartato e lontano da indiscreti sguardi babbani e si era preparato a sentire di nuovo le dita di Kingsley attorno al polso, pronto a farsi trascinare in quello spazio angusto e soffocante che è la Materializzazione.
Ma Kingsley non lo aveva afferrato imperiosamente per un polso. Gli si era avvicinato, sovrastandolo di tutta la testa e tuttavia riuscendo a non farlo sentire minimamente intimidito, e gli aveva circondato la schiena con un braccio, attirandolo piano a sé. Anche attraverso il mantello invernale il palmo aperto di Kingsley che gli premeva sulla sua schiena appena sopra le reni era rovente: un tizzone ardente che lasciava un'impronta che sembrava in grado di superare stoffa e pelle e sangue per andare a carezzare il centro stesso di Gilderoy, la sua propria essenza, di qualsiasi cosa si trattasse.
E Gilderoy, completamente dimentico della situazione, dimentico del suo ruolo e del suo proposito di mantenere sempre il manico della bacchetta, dimentico del distacco e delle recite che davano senso a quei suoi incontri al White Swann scivolò in avanti, pronto a perdere un pochino la presa di quella mano meravigliosa sulle sue reni pur di incontrare il calore avvolgente del petto di Kingsley. Si abbandonò contro quel corpo saldo con un sospiro che non riuscì a trattenere, e non gli importò nemmeno di farsi udire. Si abbandonò a quel mantello che anche in pieno inverno riusciva a conservare un calore fuori dal comune, si abbandonò a muscoli ampi e respiri lenti, a quell'odore che non era un profumo costoso, ma qualcosa di legnoso e sobrio più avvolgente e appagante di qualsiasi eau de toilette Gilderoy avesse mai annusato.
Kingsley si limitò a muovere anche il braccio sinistro, portandolo sulla schiena di Gilderoy per stringerlo in un abbraccio che sembrava volersi prendere tutto il tempo del mondo.
Penserà che sono ubriaco, si ritrovò a riflettere Gilderoy. E in effetti non si era mai sentito meno lucido in vita sua, nonostante come di consueto non avesse toccato nemmeno una goccia di alcol. Ma non importava: le braccia di Kingsley erano un bel posto per perdere la lucidità.
"Quando sei pronto…"
Il mormorio di Kingsley si comunicò dal petto dell'uomo a quello di Gilderoy con un basso vibrare a cui Gilderoy, inevitabilmente, rispose con un brivido. Non gli importava nemmeno che quel brivido, di rimando, si trasmettesse al corpo di Kingsley, perché sentiva che lui non lo avrebbe giudicato e non ne avrebbe riso.
"Sono prontissimo".
Un lieve annuire, che Gilderoy avvertì, più che vedere, e poi la stretta di Kingsley si fece appena più salda.
 
E poi fu buio e fu impossibile respirare, e quando i loro polmoni tornarono a poter incamerare aria ci fu solo l'odore fresco e pungente della neve pulita in mezzo a una pineta.
Ci fu Kingsley che si scusava per il piccolo tratto a piedi, ma è sempre meglio schermare una casa dalla Materializzazione[3].
Ci fu un sentiero lastricato di ciottoli bianchi, come in una fiaba, e poi uno spiazzo erboso dove la neve non era caduta – sicuramente merito di qualche incantesimo che Gilderoy non si era mai preso la briga di imparare, perché la sola idea di vivere in un posto dove fosse necessario schermare la propria abitazione dalle intemperie gli dava i brividi – e la soglia di una casetta piccola e accogliente.
Una casa fatta di camini dalle fiamme vivaci e tappeti colorati, mobili scuri pieni di tomi di ogni genere e oggetti che sembravano provenire da tutto il mondo. Era una casa disordinata, ma era un disordine che accoglieva con lo stesso tranquillo calore dell'abbraccio del suo proprietario.
 
Gilderoy si aspettava di essere infine gettato su quel divano pieno di cuscini colorati e coperte dai disegni geometrici. In fondo, sapevano entrambi fin troppo bene per quale motivo avevano lasciato la calma del locale per andare a rifugiarsi a casa di uno dei due.
E invece Kingsley si tolse il mantello e fece cenno a Gilderoy di fare altrettanto, da perfetto padrone di casa, invitandolo ad accomodarsi.
Ma Gilderoy non si accomodò. Rimase in piedi, osservando l'uomo muoversi nel piccolo appartamento con gesti rapidi e silenziosi, osservandolo alla luce calda e avvolgente del fuoco e pensando che ciò che vedeva non gli dispiaceva affatto, ma che voleva di più. E che se voleva di più, doveva essere lui a fare una mossa esplicita, perché Kingsley si era già esposto abbastanza chiedendogli di seguirlo a casa sua.
"Allora, che cosa hai intenzione di fare per quei pantaloni?"
Lo sguardo di entrambi gli uomini andò alla macchia ormai quasi invisibile sui pantaloni di Kingsley. Una macchia di cui a nessuno dei due era mai importato davvero qualcosa, ma che si trovava nella posizione perfetta per suggerire un cambio di scenario per le atmosfere di quella notte.
"Secondo te cosa dovrei farci?"
C'era malizia nella voce di Kingsley, ma era malizia esplicita, usata come vessillo comico e per dare a Gilderoy il pretesto perfetto per spostare definitivamente l'argomento di conversazione.
"Dovresti toglierteli. Non sta bene che un uomo come te se ne vada in giro con dei pantaloni sporchi".
Kingsley annuì piano, aprendosi in un sorriso divertito.
"E dopo che li ho tolti?"
"Dopo che li hai tolti andiamo in camera tua e il mio occhio estetico deciderà se e con cosa sostituirli".
Non ci fu più bisogno di dire altro. Kingsley fece strada lungo uno stretto corridoio per arrivare a una camera arredata con lo stesso caldo disordine del salotto: altri libri, altri strumenti di cui Gilderoy non conosceva la funzione disseminati su tavolini e librerie, altri tappeti colorati e coperte e cuscini a riempire un letto ampio e invitante al centro della stanza.
 
Non ci fu più bisogno di parlare, non quando Gilderoy si ritrovò a perdere la pazienza, ad alzarsi in punta di piedi e attirare a sé Kingsley in un bacio che lui avrebbe voluto cercare di rendere più profondo, più aggressivo, seguendo quello che era stato il copione di tutti i suoi incontri che servivano solo a scacciare pruriti. Ma Kingsley fu solo lento, lentissimo, baci controllati e movimenti appena accennati.
Fu un incontro fatto di desiderio bruciante, ma consumato lentamente, come se avessero tutto il tempo del mondo. Come se fosse solo un preludio, l’assaggio di qualcosa di immenso che sarebbe durato per sempre.
Il sesso con Kingsley fu qualcosa di completamente diverso a ciò cui Gilderoy si era abituato: lui conosceva solo rapporti consumati in fretta per sfuggire allo squallore di incontri tenuti nascosti, per sfuggire all’imbarazzo di essere due sconosciuti fermamente intenzionati a non rivedersi mai più, per sfuggire alla consapevolezza di non voler davvero essere lì, non sempre.
Kingsley non disse una parola, ma ogni suo movimento era mitigato dai suoi occhi attenti e pronti a cogliere ogni cambiamento in Gilderoy. Ogni suo movimento era una domanda, una richiesta, un permesso ricevuto e donato con limpidezza. Il sesso con lui era offrirsi completamente, mostrarsi, e in cambio ricevere solo la voglia di conoscersi, di rispettare i tempi l’uno dell’altro, trovarsi, imparare a camminare insieme.
Era commovente, e soverchiante, e bello in un modo che non aveva niente a che fare con il talento o con la voglia di dimostrare qualcosa.
Era sconvolgente, perché in quella stanza sconosciuta, fra le braccia di quell’uomo di cui conosceva il nome e nulla più Gilderoy si sentiva presente, vivo, sentiva di essere osservato e considerato e coperto di attenzioni che nulla avevano a che vedere con la fama, con la folla che chiamava il suo nome adorando solo un’immagine vuota e priva di ogni sostanza.
 
Gilderoy sapeva che quelle che gli carezzavano le guance erano lacrime – di sollievo, di gioia, e anche di perdita, sì, la perdita di tutto ciò che Kingsley gli aveva mostrato e che lui non aveva mai avuto.
E non gli importava.
Non gli importava niente di aver pianto mentre faceva sesso con uno sconosciuto, non gli importava che questo sconosciuto avesse visto le sue lacrime, e le avesse carezzate con dita leggere come neve, tenendolo stretto con una compassione che niente aveva a che vedere con la pena.
Non gli importava che di solito, dopo un incontro di quel tipo, tutto ciò che Gilderoy desiderava era sentire il respiro del proprio compagno farsi pesante e regolare per permettergli di allontanarsi il prima possibile, di chiudersi in bagno e lavare via ogni traccia di quell’incontro che già aveva voglia di dimenticare. E invece questa volta rimase immobile, il viso abbandonato sul cuscino di Kingsley, i segni inequivocabili del loro rapporto ancora sparsi su di lui – dentro di lui, un pensiero confortante e nient’affatto disgustoso.
“Hai da fare, domani?”
La voce di Kingsley continuava ad essere un basso vibrare, un suono confortante in cui Gilderoy avrebbe voluto annegare.
“Da fare?”
“Se non hai impegni, mi piacerebbe uscire con te. Uscirci per bene, andare a cena da qualche parte e parlare, conoscerti…”
Per un attimo, Gilderoy si ritrovò a credere a queste immagini.
A figurarsi con indosso il suo completo migliore, a passeggiare accanto a quell’uomo che aveva rappresentato tante eccezioni, a parlare di sé come non si concedeva di fare nemmeno durante le interviste… un sogno. Un bellissimo, spaventoso sogno.
Perché Gilderoy non poteva permetterselo. Non si poteva permettere di offrire ai giornalisti a caccia di gossip le fotografie delle loro mani intrecciate. Non poteva dar fuoco in modo così insensato a quella costruzione perfetta che era stata la sua carriera sino a questo momento. E non poteva permettersi di mostrarsi a Kingsley per quello che era: non puoi uscire a cena con un uomo, e poi uscirci di nuovo, e di nuovo, e dormire nel suo letto, e farlo dormire nel tuo letto, e sperare in un Natale trascorso finalmente in compagnia e sperare comunque di girare il mondo per rubare il talento di persone sciocche e sprovvedute. Perché Kingsley dallo sguardo limpido, Kingsley che prestava attenzione anche a come variava il suo respiro al variare d’intensità di una carezza non sarebbe stato capace di distogliere lo sguardo dalle ombre e dai vuoti che Gilderoy seminava al proprio passaggio. E di Kingsley lui non sapeva niente, ma sapeva che non avrebbe mai accettato di restare accanto a quelle ombre.
Fu con uno sforzo doloroso che Gilderoy si strappò di dosso quel sogno bellisismo e terribile.
Si raddrizzò, fissando il soffitto e ascoltando il respiro calmo e sereno di Kingsley.
“Mi piacerebbe. Mi piacerebbe davvero. Adesso dormiamo, però”.
 
***
 
Gilderoy non dormì.
Rimase immobile ad ascoltare il respiro di Kingsley farsi sempre più calmo e profondo, aspettando il momento giusto per rialzarsi senza rischiare di svegliarlo.
Si rivestì con mani tremanti, ripercorrendo quei gesti che aveva già compiuto tante volte sentendo il cuore farsi più pesante a ogni battito. Impiegò più tempo del necessario nell’indossare ogni capo di vestiario, sperando forse che Kingsley si svegliasse, che lo udisse e lo inchiodasse al suo posto col suo sguardo limpido, costringendolo a rispettare la promessa che aveva appena fatto.
Sperando che Kingsley si svegliasse, impedendogli di portare a termine il suo proposito.
Ma Kingsley continuò a dormire, immobile sotto lo sguardo pieno di rimpianti di Gilderoy. Gilderoy che ormai sentiva sotto le dita il legno liscio della propria bacchetta e sulle labbra la formula dell’incantesimo che avrebbe cancellato dalla mente di Kingsley tutto ciò che avevano fatto quella sera.
Un’esitazione.
Un’altra.
E poi, con uno strappo, l’oblivion scese ad ammorbidire ancora di più i lineamenti dell’uomo addormentato.
Fu come se l’incantesimo avesse strappato qualcosa anche a Gilderoy, che si sentì improvvisamente vuoto e mancante di qualcosa di fondamentale.
Poi l’eccezione emerse da quel vuoto che gli stava contraendo lo stomaco, quasi a voler cercare di riempire il silenzio. Quasi a voler lanciare una scommessa, una minuscola possibilità di cambiare le cose, di sconvolgere tutto e far crollare ogni certezza.
Gilderoy si chinò in avanti, le labbra a sfiorare l’orecchio di Kingsley, e mormorò:
“Il mio nome è Gilderoy Allock. Ricordati di me, domattina, anche se ora stai perdendo la memoria”.
Kingsley si mosse appena, cambiando posizione e sospirando nel sonno, ma i suoi occhi rimasero serrati.
Gilderoy si voltò, sentendo ancora le guance bagnate di nuove lacrime.
Kingsley non avrebbe ricordato, ma Gilderoy sì.
Gilderoy avrebbe ricordato tutto[4], avrebbe ricordato per entrambi, e questo sarebbe bastato.
 
 
 
 
 

Note:
Per la genesi di questa storia devo ringraziare LadyPalma, che nell’ambito dell’iniziativa A corde di Acquaviola organizzata dal gruppo facebook L’angolo di Madama Rosmerta mi ha lasciato il seguente prompt:
“Wake up, it’s time, little girl, wake up
Just remember who I am in the morning
You’re losing your memory now”
Loosing your memory – Ryan Star
Ecco, io mi rendo conto che il prompt si è un po’ perso nel corso della stesura, ma ho cercato di recuperarlo almeno sul finale.
Mi rendo anche conto che questa storia è, come mi accade sempre ultimamente, molto poco omogenea, ma ultimamente riesco a scrivere cose lunghe solo frammentando la stesura in tantissimi piccoli momenti molto lontani nel tempo, e l’effetto non riesce mai a essere particolarmente organico.
Ci ho provato, insomma.
 
 

[1] Perché proprio Natale? Perché la primissima storia che io abbia scritto su di loro ("Ma ci conosciamo, noi?") si sviluppava proprio a partire da una festa di Natale, e mi faceva piacere mantenere questo parallelismo, qui.
[2] Ora, nella biografia pubblicata dalla Rowling si parla di una famiglia di Gilderoy: padre babbano e madre strega che ha contribuito a montargli la testa non facendo altro che ribadire il suo essere speciale. Tuttavia, per la concezione che ho io del personaggio adulto mi risulta molto difficile immaginarlo alle prese con un contesto familiare. Buona parte delle mie riflessioni su di lui partono dal presupposto che sia essenzialmente un personaggio terribilmente solo (e lui ha una parte enorme nella propria solitudine, questo non lo metto in dubbio. Insomma, non mi sono mai soffermata a trovare una spiegazione per la sparizione dalla sua vita della sua famiglia, ma resta il fatto che io lo immagino solo anche da questo punto di vista. Magari prima o poi troverò l’occasione di scrivere qualcosa a questo proposito, ma non è questo il giorno, ahimé.
[3] Kingsley è pur sempre un giovane Auror: non ho voluto parlare di guerra e Mangiamorte, perché immagino questa storia ambientata durante l'infanzia di Harry, ma suppongo che un Auror anche in tempo di pace preferisca comunque mantenere salda qualche basilare norma di sicurezza.
[4] Arriverà mai il momento in cui mi stancherò di giocare con la memoria di Gilderoy? Probabilmente no.
   
 
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