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Autore: jinkoria    02/11/2021    3 recensioni
[ Manjirou/Takemichi ; side Ken/Emma ] [ dai prompt del writober 2021: ascian ; sciaphilia ]
Come fosse all’improvviso diventato sgradevole, allontanò di scatto l’asciugamano, l’espressione crucciata rivolta alla fantasia azzurra del panno, pronto a restituirlo all’altro quando l’odore conosciuto dei dolcetti si fece paradossalmente più intenso.
Porto verso di lui, avvolto in un tovagliolo, il pesciolino ripieno comparve davanti ai suoi occhi, tenuto su dalle mani del suo interlocutore.
Il sorriso che gli rivolse fu talmente morbido e gentile che Manjirou sentì qualcosa nel suo petto fare male, davvero tanto, al punto da causargli un fastidioso senso di bruciore agli occhi. Per questo distolse in fretta lo sguardo, sia dal ragazzo che dal dolce.
«È dell’ultima sfornata».
«…».
«Ne ho altri due».
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Emma Sano, Ken Ryuguji (Draken), Manjirou Sano, Takemichi Hanagaki
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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ascian;
“ una persona o una cosa senza ombra 

 

Che sei un ascian te lo si legge in faccia.

Mikey non ricordava a che età avesse dato il primo pugno, era però certo fosse da attribuire a quella frase, il grilletto di una sentenza piantata nella tempia senza possibilità di evitarlo.

Non che fosse poi così difficile, capirlo; bastava guardarlo muoversi per le strade sotto la luce del sole, ammantato dalla solitudine che non era riuscito a sconfiggere – alla quale aveva perso l’intenzione di opporsi, arrendevole a una natura impossibile da sovvertire.

Talmente evanescente da risultare impercettibile persino a se stesso nei momenti più bui, come se l’oscurità non fosse la prima caratteristica che gli si attribuiva, prima ancora del colore sbiadito dei capelli bianchi o degli occhi spenti e vuoti come l’abisso in cui aveva confinato la propria anima; uno sguardo catramoso dove nessuno, mai, avrebbe rischiato di rimanere ingabbiato.

Umani senz’ombra, essere un ascian era il risultato del rigetto inconscio della luce o della perdita di essa per privazione. Manjirou ricordava perfettamente quando quel momento fosse scoccato, nella sua vita; un lutto imprevedibile, destabilizzante, mai aveva vissuto sulla propria pelle l’effetto di un terremoto eppure era sicuro, fin dentro le viscere, nulla lo avrebbe mai sconvolto tanto come la vidima sulla morte di Shinichiro.

Da allora nulla di sé aveva più generato ombra perché ombra stessa era tutto ciò che era diventato.

Era facile riconoscere un ascian perché pochi erano quelli che continuavano a mostrarsi all’esterno, quelli incuranti della vergogna del venire esposti contro la propria volontà, spogliati del diritto di non confessare quanto forte fosse il loro dolore. Non era il caso di Manjirou, che interiormente ringhiava contro chiunque osasse intromettersi nella sua dichiarata fragilità, ma aveva sentito il bisogno di uscire più di quanto mai avrebbe desiderato evitare il mondo che gli ricordava quanto impossibile fosse la normalità.

Il sole era caldo sulla pelle, Mikey lo percepiva distintamente, il volto sollevato al cielo di un azzurro soffocante e così acceso, rispetto a lui, da apparirgli quasi sfrontato e instillare in sé il desiderio di tendere la mano verso l’alto e stringere, come se soffocando la luce potesse dare pace al buio.

Stanco, tirò su il cappuccio della felpa e vi sparì dentro, sebbene nessuna ombra riuscisse davvero a calare sul viso consumato dalle occhiaie; una ragazza al suo fianco lo guardò con compassione e trattenere il mostro che era fu possibile solo perché era così simile a sua sorella da fargli bruciare la gola e il petto e l’immaginarla vinse su qualsiasi rabbia faticasse a censurare. Anzi; probabilmente, se lo avesse visto così, Emma lo avrebbe rimproverato e Kenchin insieme a lei, costringendolo a seguirli a casa per dargli l’amore che percepiva desiderare con la tossicità del vizio. Senza contare i tentativi di dargli uno spiraglio speranzoso, ricordandogli che Emma stessa aveva rischiato di perdere la propria ombra per la scomparsa del fratello maggiore e che con Ryuguji era riuscita a mantenere – Mikey non riusciva a comprendere come qualcuno avrebbe potuto amarlo in uno stato simile, rinunciando a una felicità totale per correre dietro a chi la luce vera e propria non ricordava neanche cosa fosse.

Ecco perché era uscito senza dir nulla, stanco di appassire tra le mura di una casa non sua, come una pianta incapace di raggiungere il sole e abbandonata ad appassire.

Camminando a testa bassa, Mikey si accorse del colore grigio del marciapiede incupirsi, poi lentamente macchiarsi di piccoli punti più scuri ancora, che sbocciavano sparsi in terra; risollevò lo sguardo solo per rendersi conto avesse iniziato a piovere – sbuffò una risata amara, le labbra tremule.

Almeno, adesso, non c’era ombra di cui sentire la mancanza.

Si riparò in fretta sotto la pensilina di una fermata dell’autobus, troppo lontano da casa per sperare di scampare all’acquazzone a piedi.

La cupidigia generale favorita dal tettuccio era quasi confortevole, notò comunque di sottecchi qualche occhiata fin troppo curiosa di chi, come lui, aveva trovato riparo là sotto ma gli scivolarono addosso – immaginò il freddo sulla pelle e l’umidità piovana come uno strato protettivo contro cui nulla poteva davvero attecchire.

Piano, col passare del tempo le persone intorno a lui andavano sparendo, chi perché scelto l’autobus come ulteriore riparo e chi decidendo di tentare una corsa verso un’altra destinazione, il che, era probabile, fosse per allontanarsi da lui. Del resto, avere un ascian accanto era come trovarsi soli con qualcuno perso in un pianto disperato, vistoso e impossibile da ignorare, quasi soffocante tanto il disagio e l’imbarazzo del non sapere come reagire e comportarsi, o non voler fare nulla e non sopportare il peso di macchiarsi d’indifferenza.

Mikey si era lasciato andare sulla seduta della fermata, il capo chino e le mani in tasca, in un tentativo di scaldare almeno quelle, data l’acqua che sentiva scivolargli sotto la felpa.

Fu tentato di ridere per l’amarezza, come se quel diluvio non fosse altro che una punizione per aver osato pensare di potersi godere un po’ di luce naturale. E sbuffò davvero, senza alcuna inflessione però, si accasciò invece contro lo schienale in plastica, scomodo e rigido e lì rimase, mentre i pali della luce iniziavano ad accendersi e illuminare la strada sempre più scura sotto il calar della sera.

 

Si accorse di aver chiuso gli occhi, e di essersi con probabilità addormentato, quando si sentì scrollare da qualcuno: nonostante la gentilezza del tocco, dopo aver spalancato gli occhi vacui, afferrò con forza il polso di chiunque lo stesse toccando e strinse con l’intento di ferire, quando sentì un gemito sofferente.

«Ahi- scusa, non volevo spaventarti».

Manjirou dovette sbattere le palpebre più volte per riacquistare totale nitidezza, gli occhi ancora appannati dal sonno.

Di fronte a lui, un ragazzo avvolto in una larga felpa rossa – il cappuccio doveva essergli scivolato nello strattone, pensò – lo guardava con una smorfia sofferente, gli sembrò di intravedere una lacrima trattenuta nell’occhio chiuso, forse più per lo spavento del gesto brusco che non della violenza della presa, tuttavia manteneva un sorriso nervoso e non accennava a muoversi.

Mikey lo liberò lentamente, non chiese scusa, fin troppo teso per essersi mostrato così vulnerabile e alla mercé di chiunque, il cipiglio diffidente che indossò era la prova di quanto avesse standardizzato quell’atteggiamento di allerta. L’altro ragazzo, invece, aveva portato l’altra mano sul polso dolente, toccandolo a malapena.

Non disse nulla, si limitò a distogliere lo sguardo – non gli piacevano gli occhi di quel ragazzo, così spaventosamente azzurri da ricordare il cielo che fino a qualche momento prima aveva desiderato distruggere.

«Ehi, senti…» parlò ancora quello, la voce sottile come un pigolio mortificato «Davvero, mi dispiace… È che volevo sedermi lì per ripararmi ma non volevo che ti svegliassi e ti… sì insomma» una pausa, poi si ripeté a bassa voce, alzando gli occhi al cielo quasi realizzando di star dicendo una sciocchezza «spaventassi…».

Mikey continuò a non guardarlo «Fai come vuoi».

Lo sconosciuto lo ringraziò, come se ci fosse da ringraziarlo per avergli permesso di sedersi a una fermata pubblica, lo sentì borbottare qualcosa tra sé contro il freddo calato di colpo e la sfortuna di aver perso l’autobus proprio mentre gli passava di fronte; Manjirou si sorprese a quell’affermazione, percepita distrattamente, sempre più rannicchiato contro la parete sporca della pensilina, perché significava essersi addormentato davvero tanto da non sentire neanche un mezzo passargli davanti. Per questo, soltanto per questo, domandò: «Da quanto tempo stavi provando a svegliarmi?».

Quello non finse neanche di non essersi stupito nel sentirlo parlare, evidente il singhiozzo nervoso che l’aveva tradito. Con la coda dell’occhio, sentendo il frusciare della felpa, lo vide intento a massaggiarsi i capelli e, ancora, sorridere a disagio, come se avesse paura di indisporlo. Non poteva biasimarlo, del resto lo aveva aggredito e, allo stesso modo, sotto il palo della luce che rendeva chiara la sua natura, il ragazzo non poteva nemmeno sapere perché Mikey fosse un ascian.

Sempre con voce titubante, lo sconosciuto rispose «Non molto, sono arrivato da poco… un paio di minuti?».

Comunque troppi. In un certo senso, doveva essergli grato per averlo svegliato. Non gli era mai successo prima d’ora di essere tanto incauto, faticava a dormire persino nella sua camera, con Emma e Kenchin nella stanza accanto, né si sentiva così esausto da giustificare quel sonno repentino. All’improvviso sentì il bisogno di grattarsi, grattare via gli indumenti e non solo, infastidito da tutto ciò lo circondasse, e desiderò che l’autobus passasse in fretta; non aveva le forze per camminare fino a casa, l’acqua piovana di qualche ora prima stava iniziando a gravargli addosso per davvero.

«Oddio».

Giunse d’un tratto alla sua sinistra, sempre piano ma forte a sufficienza perché ogni cosa di Mikey scattasse sull’attenti, dunque altrettanto in fretta si voltò verso l’altro ospite della pensilina, fissandolo con uno sguardo intenzionalmente minaccioso – non sarebbe più scattato verso di lui, non senza ragione, era però il modo più immediato che aveva per scoraggiarlo dal fare alcunché contro di lui.

«Ma tu…».

L’ascian strinse forte i pugni sulle ginocchia per trattenere il desiderio di colpirlo e impedire a quella denominazione di farsi strada nelle sue orecchie, incassò lentamente il capo tra le spalle, in attesa.

«Tu sei… completamente fradicio, perché l’ho notato solo adesso?».

La testa di Manjirou smise di girare per un secondo «Cos’hai detto?».

«Tu!» continuò lo sconosciuto, a voce fin troppo alta per i suoi gusti, ciononostante non riuscì a provare sincero fastidio, neppure quando una mano del ragazzo, avvicinatosi fin troppo in fretta, si strinse sulla sua spalla per sentire che, in effetti, fosse alquanto bagnata «Guarda qua! E dire che stai pure tremando» Mikey si irrigidì; se solo avesse saputo perché, non che avrebbe potuto o voluto dirglielo in ogni caso.

Vide l’altro voltarsi e portare avanti uno zaino piuttosto capiente «Senti… ho un asciugamano, se vuoi – se non ti fa schifo – posso prestartelo, non ho portato il cambio con me oggi quindi non posso darti una felpa o qualcosa di meglio, però puoi asciugarti un po’… Che ne dici?».

Manjirou rimase interdetto per qualche secondo, gli occhi sgranati come non faceva da anni, fissando l’individuo di fronte a sé quasi con sconcerto, in cerca di qualsiasi cosa potesse tradire la forzatura dietro la buona intenzione; l’aver capito di essere vicino a un ascian e ostentare compassione e gentilezza.

Sotto l’espressione buffa – impossibile definirla altrimenti, per quanto il semplice pensare quell’aggettivo in un’accezione positiva fu strano – Mikey non riuscì a trovare false o cattive intenzioni, né scherno o qualsiasi altra cosa fosse diventata abitudine incontrare negli altri, per lui, al limite dell’ovvietà giornaliera: il ragazzo di fronte a sé non era niente del genere. Impacciato, con capelli ricci di un giallo sgargiante, acceso come i petali di un girasole e che stava notando davvero solo in quel momento, era quanto di più estraneo ci fosse a un pericolo. E quegli occhi dannatamente limpidi e sinceri che Manjirou, per un ridicolo istante, pensò fosse uno spreco stesse rivolgendo a lui.

Non era comunque allettato dalla risposta, tuttavia la sensazione di umido addosso iniziava a diventare piuttosto fastidiosa e rischiava di ritrovarsi con una febbre non indifferente il giorno dopo. Un asciugamano non avrebbe cambiato nulla, eppure provò sincero e genuino sollievo nello stringere quello che il ragazzo gli stava porgendo, morbido e caldo, probabilmente perché spremuto dentro lo zaino, lo portò al viso e sul collo, quando percepì un aroma familiare che lo portò senza realizzarlo ad affondare il naso contro il tessuto.

Il ragazzo si agitò a quel gesto «Non mi dire che fa puzza? Oddio, mi dispiace, sono mortificato, e dire che oggi l’ho uscito solo un attimo per-».

«Sa di taiyaki al cioccolato» rispose distratto, gli occhi chiusi mentre inspirava meglio il profumo del dolce.

«Ah! È perché lavoro in una pasticceria qui vicino!» spiegò il giovane, visibilmente più rilassato, salvo poi aggiungere un’altra nota preoccupata alla domanda «Non ti dà fastidio?».

Manjirou si limitò a scuotere la testa, per qualche motivo però si sentì di aggiungere «Mi piace».

«Davvero? Ti piacciono i taiyaki?».

Sentiva già di doversi pentire per aver aperto bocca, assuefatto dall’odore familiare si era lasciato andare a un’esternazione, inusuale per lui, come tutto del resto in quella serata uggiosa. Inoltre, una domanda così diretta lo mise a disagio, quasi punto sul vivo e riportandolo lì, dove aveva esposto un gusto, un’apertura, a qualcuno, che non avrebbe mai più visto.

Decisamente una punizione per aver cercato il sole.

Come fosse all’improvviso diventato sgradevole, allontanò di scatto l’asciugamano, l’espressione crucciata rivolta alla fantasia azzurra del panno, pronto a restituirlo all’altro quando l’odore conosciuto dei dolcetti si fece paradossalmente più intenso.

Porto verso di lui, avvolto in un tovagliolo, il pesciolino ripieno comparve davanti ai suoi occhi, tenuto su dalle mani del suo interlocutore.

Il sorriso che gli rivolse fu talmente morbido e gentile che Manjirou sentì qualcosa nel suo petto fare male, davvero tanto, al punto da causargli un fastidioso senso di bruciore agli occhi. Per questo distolse in fretta lo sguardo, sia dal ragazzo che dal dolce.

«È dell’ultima sfornata».

«…».

«Ne ho altri due».

 

L’unica cosa su cui riusciva a concentrarsi Manjirou, un boccone dopo l’altro, era il sapore di casa, di quella in cui non avrebbe mai più potuto far ritorno e che, per tanto tempo, si era negato di riportare alla memoria.

Accettò il tè versato nel tappo del thermos usato come bicchiere da Takemichi – così si era presentato dopo che Mikey aveva ceduto all’offerta, sorridendogli stavolta in un modo così intenso da sembrare ingiusto, sul serio, uno spreco, si sentì quasi ladro di qualcosa di fin troppo bello e luminoso e con lui, chiaramente, non aveva nulla a che vedere.

Tutto si sarebbe aspettato da quell’uscita disastrata, tranne il ritrovarsi a fare merenda con un ragazzo conosciuto per caso, avrebbe persino detto errore fino a qualche minuto prima, adesso invece era accecato dal bagliore della sua presenza e, forse era colpa del freddo, si era fatto un po’ più vicino a lui, attirato dal calore che sembrava emanare naturalmente. Poi lo guardò, sia Takemichi che il suo zaino, al che il giovane scoppiò a ridere – forte ma rilassante, confortevole, come la pioggia battente sull’asfalto vista da dentro casa, al caldo, un che di rassicurante e intenso insieme.

«Non ne ho più» un altro singhiozzo divertito al notare l’accenno di broncio di Manjirou, un tempo sarebbe stato molto più evidente «però posso fartene avere altri! Se vieni a trovarmi-» si fermò, specie quando l’altro si voltò a guardarlo avendo notato l’interruzione brusca.

«Hai la febbre, Takemicchi?».

«N-no, perché me lo chiedi?».

Mikey lo fissò impassibile, dopodiché come nulla fosse si leccò le dita, dove un po’ di ripieno al cioccolato era rimasto.

Vide di sottecchi le mani che erano state generose con lui tormentarsi a vicenda, Takemichi stesso aveva abbassato lo sguardo.

Una voce maligna, nella testa di Mikey, gli suggerì fosse per colpa sua. Il buio era aumentato, l’ombra di Takemichi era evidente, i lampioni rendevano chiaro la differenza fra loro.

Gli venne da vomitare.

Si sollevò di scatto quando un altro autobus iniziò a intravedersi, allontanandosi il più in fretta possibile dal ragazzo, che trasalì al gesto brusco ma lo imitò poco dopo, sistemando le sue cose nello zaino il più in fretta possibile.

Non gli si avvicinò, Takemichi, che in piedi poté notare essere un po’ più alto di lui, e la nausea crebbe. Forse salire su un mezzo in quel momento non era la scelta più giusta. Stava già per andarsene a piedi, le mani a un passo dal rimettere su il cappuccio, qualche goccia di pioggia aveva ripreso a cadere.

C’era troppa luce, era per questo. Aveva sbagliato a star là.

«M-Mikey-kun!» la voce alta di Takemichi lo fermò, Manjirou odiò ogni briciola di sollievo e soddisfazione provata al sentirsi chiamare da lui. Si odiò e lo odiò, quando si voltò a guardarlo e vide quegli occhi che del cielo si facevano beffe, di una bellezza senza eguali, lucidi e umidi come carezzati da un velo piovano.

«Poco fa- ci siamo appena conosciuti, ma volevo dirti che- se, se vuoi- la pasticceria in cui lavoro è-».

«Non mi interessa».

Odiò anche il senso di colpa e rimpianto nella visibile delusione nell’espressione di Takemichi, ma non poteva crederci.

«Qualsiasi cosa tu stia per dire, lo fai perché sai cosa sono e non mi interessa».

Non voleva credere neanche a questo, ma se non l’avesse fatto adesso si sarebbe ritrovato a scontrarsi con quella realtà in un secondo momento, accentuando l’oscurità che mai nessuno avrebbe riacceso per lui. Ne aveva ricevuta tanta di gentilezza disinteressata, neanche un grammo di essa lo aveva salvato, niente gli aveva restituito l’umanità che la disperazione aveva iniziato a divorare tanto di quel tempo addietro da averne dimenticato i contorni, persino, figurarsi il contenuto.

Takemichi e i taiyaki erano stati una coincidenza, addormentarsi a una fermata per la prima volta, vulnerabile per chiunque fosse passato lì prima di lui, che il primo fosse stato di fatto Takemichi non aveva importanza. Nulla di quello che le circostanze proponevano poteva essere considerato valido, troppo spesso ci aveva provato e anche adesso, dopo vent’anni dall’essere diventato un ascian, continuava a non sapere cosa significasse generare un’ombra, stagliarla sull’asfalto sotto la luce.

Guardò in terra con amarezza, vedendo solo quella dell’altro ragazzo.

L’autobus si avvicinò. Si girò dall’altra parte, incamminandosi lentamente, il rumore delle porte del mezzo che si aprivano e richiudevano dietro di sé, prima di vederlo passargli accanto.

Come aveva immaginato.

Un singhiozzo alle sue spalle lo raggelò.

«Sei- ti conosco da meno di un’ora, per cui scusami il giudizio affrettato, ma sei un completo idiota!».

«Cosa?».

«E pure tu! Mi conosci da quanto? Proprio tu! Meno di un’ora! E hai già deciso che- che so quello che sei» lo scimmiottò, il viso deformato dal pianto «e che pensi che- che ti abbia offerto i miei dolci per compassione?! Perché mi dispiace per te?! A te non interessa?! Allora pensa quanto può interessare a me se hai un’ombra oppure no! Cioè- nel senso- è ovvio che mi dispiace, è umano che mi dispiaccia! Ma è ininfluente! Nel senso- Volevo solo dirti dove lavoro, per darti altri taiyaki, ma ci conosciamo – già, siamo a tre! - da meno di un’ora, non volevo sembrare un- un maniaco o che ne so, ti ho già prestato l’asciugamano!».

Aveva il fiatone, il naso grondante e gli occhi rossissimi.

Manjirou lo guardava senza parole, più sconvolto di quanto non sarebbe stato se gli avesse dato uno schiaffo in pieno viso e a tradimento. Per qualche motivo, gli era parso di sentire l’odore del ripieno al cioccolato tornare con forza a invadere l’aria circostante, sebbene l’unico vero odore predominante fosse quello della pioggia sempre più forte, di nuovo.

Strano, pensò Mikey, che tutto quello che riusciva a vedere era un cielo sereno.

Erano rimasti fermi, entrambi, sotto la pioggia, nessun asciugamano avrebbe potuto dare il minimo sollievo adesso. Takemichi continuava ad asciugarsi malamente il naso, mentre tirava su con forza, cercando invano di scrollarsi l’acqua di dosso come se potesse fare qualcosa contro quella doccia naturale. Eppure non si spostava sotto la pensilina, continuava a sostenere lo sguardo largo e oscuro di Manjirou, fisso e irremovibile, quasi non avesse paura di rimanervi impigliato. Quasi non temesse Manjirou lo avrebbe trascinato nella sua oscurità, egoista e bisognoso di sentirsi dire esattamente quello, che essere un ascian o meno era irrilevante. Che il suo dolore contava, ma non era tutto ciò a cui Mikey andava ridotto.

Meno di un’ora. Poteva essere così semplice? No che non poteva. Ma poteva pensare, sperare sarebbe stato più semplice? Non erano bastate parole dolci, confortevoli, a nulla erano serviti i complimenti, frasi circostanziali di incoraggiamento. Era davvero il sentirsi dare dell’idiota, il punto di inizio? Un rimprovero da quello che era, ancora, difatti, un perfetto sconosciuto?

Fu quell’ancora che bastò.

La voce di Manjirou uscì vibrante, del tutto irriconoscibile, una corda di violino abbandonata troppo a lungo che liberava il primo suono dopo anni di silenzio e sul punto di spezzarsi, mentre il tentativo imbranato di un sorriso leggero si faceva strada sulle labbra troppo a lungo trattenute in un linea disillusa e apatica, intimamente spaventato perché sembrava troppo eppure giusto, per qualche ragione che non riusciva a capire o spiegarsi.

«Takemicchi».

Il ragazzo tirò ancora su col naso «C-che accidenti vuoi?».

Se non fosse stato travolto da un’altra emozione, più confusa, per certi versi spaventosa ma allo stesso tempo quasi elettrizzante, per la prima volta dopo anni, forse sarebbe riuscito ad accennare ben più che un sorriso a quel tono indispettito benché privo di qualsiasi nota crudele.

Era questo, di cui parlavano Emma e Kenchin?

«Takemicchi» ripeté, carezzando ogni lettera di quel nome, un senso di adorazione così innaturalmente crescente nella sua rapidità «Voglio vederti di nuovo, per più di un’ora».

Pioveva così forte che era certo l’indomani sarebbe stato a letto per tutto il giorno, forse era già così e questo era solo il delirio di una febbre alta e imperdonabile, e se davvero si fosse svegliato e Takemichi mai esistito sarebbe stato talmente difficile accettarlo che la sola eventualità era terrificante e l’incertezza sempre più premente.

«Anch’io».

Se fosse stato un sogno, avrebbe dovuto dirlo a Emma e a Kenchin. Che era stata tutta colpa loro. In quel momento, però, Manjirou sperava solo di poterglielo dire. Il giorno dopo, in qualsiasi condizione, dirgli di Takemichi. Dirgli che quella sera l’aveva preso in pieno una pioggia senza nuvole nonostante gli fosse sembrato di camminare sotto un cielo plumbeo per tutta la vita.

«Hai la febbre?».

«Cos- no! Non ancora, almeno! Perché me lo chiedi di nuovo?».

«Perché se non è la febbre sei arrossito, Takemicchi».
 

Sulla strada, accanto a quella di Takemichi, fievole e impercettibile comparve una seconda ombra.







 


hello, non mi aspettavo di trovare la sezione di tokrev su efp ma ne approfitto per pubblicare il primo capitolo (di due) di questa storia, nata appunto dai prompt del writober 2021, ascian sciaphilia. capitoli brevi, dovrebbe essersi capito dalla storia ma l’ascian è una sorta di condizione depressiva. inoltre funziona quasi come una soulmates au, perché c'è una persona in particolare designata per far riacquisire la propria ombra – ecco perché, piano piano, la presenza di takemichi farà sì torni l’ombra di manjirou e perché lui sia riuscito a stargli vicino nonostante tutto: lo ha sentito con takemichi fosse giusto e possibile. se siete in pari con le scan del manga, questo è un po’ il mikey del bonten!arc. la storia risulta veloce e probabilmente frettolosa perché lo scopo del writober era la scrittura giornaliera, cercando di rispettare le 24 ore per sviluppare il prompt non sono riuscita a fare di meglio, complice il fatto che ho un fortissimo blocco in scrittura. non saprei cos’altro dire, scusate eventuali errori di battitura, l’html raffazzonato e l’ooc eventuale. non è molto, ma per colpa di qualcuno ci tenevo a pubblicarla. il secondo capitolo non è ancora stato scritto, nonostante fosse il 31esimo prompt dell’iniziativa non sono riuscita nell’impresa; pubblico anche perché spero questo mi sproni un minimo a riprenderla in mano e concluderla. grazie a chiunque passerà di qui, spero a quanto prima possibile. 

   
 
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