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Autore: Asmodeus    03/11/2021    3 recensioni
[Finnick Odair PoV | Semi Death-Cast!AU]
Come reagiresti, se sapessi che morirai nelle prossime ventiquattr'ore? Se dopo una vita di lotta, a un passo dalla vittoria, la tua vita fosse inevitabilmente segnata, e ogni battito potesse essere l'ultimo?
[Dal testo]: Il bracciale rosso comincia a vibrare, strappandomi dal silenzio che ricopre ogni cosa, quaggiù nel Transito.
È un ronzio ritmico, basso ma insistente, che si fa strada lungo il mio corpo come un rombo cupo, eppure sembro il solo ad accorgermene: ma dopotutto, quella è una campana a morte che suona solo per me.
Sposto leggermente la manica dell’uniforme per rivelare il sottile anello purpureo intorno al mio polso, e ogni possibile dubbio svanisce nel vedere una piccola aquila dorata pulsare seguendo i battiti del mio cuore.
L’ho già vista illuminarsi due volte, laggiù nell’Arena, ma stavolta è diverso – stavolta morirò davvero.

~ Terza classificata al contest "Muoiono entrambi, alla fine" indetto da VigilanzaCostante sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Finnick Odair, Jackson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Qualcosa per cui morire

 

 


Il bracciale rosso comincia a vibrare, strappandomi dal silenzio che ricopre ogni cosa, quaggiù nel Transito.
È un ronzio ritmico, basso ma insistente, che si fa strada lungo il mio corpo come un rombo cupo, eppure sembro il solo ad accorgermene: ma dopotutto, quella è una campana a morte che suona solo per me.
Sposto leggermente la manica dell’uniforme per rivelare il sottile anello purpureo intorno al mio polso, e ogni possibile dubbio svanisce nel vedere una piccola aquila dorata pulsare seguendo i battiti del mio cuore.
L’ho già vista illuminarsi due volte, laggiù nell’Arena, ma stavolta è diverso – stavolta morirò davvero.
Ricopro in fretta il polso con la tuta nera, per evitare che quella piccola lucina possa allarmare gli altri, e continuo a seguire il gruppo che avanza in fretta lungo i cunicoli sotto Capitol.
Probabilmente non sono il solo ad aver ricevuto quella chiamata: mi è parso di intravedere Jackson toccarsi il polso destro, più avanti, e Messalla quasi è inciampato nei suoi stessi piedi poco fa, ma nessuno ha detto una parola in merito.
Forse abbiamo udito tutti quel rintocco macabro e personale, e stiamo fingendo per non spaventare e demoralizzare gli altri. Dopotutto, sappiamo tutti i rischi che corriamo a sfidare in questo modo il Presidente Snow – e la morte è l’ultimo dei nostri problemi.

Quando Katniss suggerisce di fermarci per riposare, tre ore dopo, accettiamo tutti senza obiezioni.
Mi restano ancora poche ore di vita, ormai lo so, ma so anche che chi potrà ancora vivere in mezzo a noi ha bisogno di riposare: per questo continuo a fingermi il più tranquillo possibile, offrendomi per il primo turno di guardia insieme a Jackson e Pollux.
Mentre il resto della truppa scivola velocemente nel sonno, noi tre ci sistemiamo meglio per presidiare quello stanzino caldo e cullato dal ronzio continuo dei molti, strani macchinari che lo occupano insieme a noi.
Pollux monta la guardia all’ingresso, lo sguardo vigile e pronto a riconoscere i tanti pericoli che anni da senza-voce gli hanno impresso nella memoria.
Jackson invece si sistema vicino a me, offrendomi la scatola di fagioli che sarebbe la sua cena.
«Non ho fame», mormoro per non svegliare gli altri, e leggo nei suoi occhi la stessa rassegnata cortesia che deve animare nel profondo anche i miei.
Jackson annuisce e appoggia la scatoletta a terra, conservandola per il prossimo turno di guardia e confermando i miei sospetti: anche lei è divenuta una moritura, proprio come me.
«Come ti senti?» mi chiede poi, tremando leggermente: nonostante sia un soldato, l’idea che le restino meno di ventuno ore di vita si sta facendo strada come un cancro nel suo essere, e resistere e non spezzarsi diventa sempre più difficile.
Sorrido amaramente, guardandomi la punta degli stivali per paura di non saper reggere il suo sguardo, di farmi contagiare da quell’istinto di sopravvivenza inutile e deleterio.
«Sono pronto da tempo», rispondo infine, mascherando il tremore che mi pervade con la voce sicura e affabile che mi ha sempre aperto ogni porta in tutti questi anni.
È una menzogna solo a metà: non voglio lasciare Annie proprio ora, né riesco ad accettare che probabilmente non vedrò mai la fine di Snow e del regime, ma dopo essere stato due volte nell’Arena morire non mi spaventa più.
Jackson abbassa a sua volta il capo, scoprendosi un braccialetto blu su cui pulsa un tredici grigio scuro. Due lacrime abbandonano i suoi occhi, macchiando il pavimento, poi rialza la testa e fissa il soffitto.
«Vorrei avere il tuo coraggio», ammette, la voce spezzata in quel momento solamente nostro. «Pensavo di essere pronta, ma la morte…»
«Non sono coraggioso», la fermo io, prima che le sue parole riescano a perforare la mia corazza là dove i suoi occhi non sono arrivati. Poi mi volto a guardarla, cercando di trovare in me tutta l’energia necessaria per sollevare entrambi da quel peso insopportabile: non sappiamo in quanti nella stanza condividano il nostro destino, ma non possiamo cedere e condannare tutta la squadra.
«Vedi, quando hai visto l’Arena… il coraggio diventa una parola vuota. Così come la morte», provo a spiegare, anche se è impossibile trasmettere a parole ciò che noi Tributi abbiamo sperimentato.
«Ogni momento potrebbe essere l’ultimo, e quel che è peggio è che Morituri, laggiù, non funziona».
Jackson si gira lentamente verso di me, incredula e attenta.
«Come… come può non funzionare?», chiede allibita, indicandosi poi il bracciale al polso. Nonostante la Ribellione, nel Tredicesimo Distretto il Programma Morituri ha evidentemente continuato ad annunciare la morte delle persone come niente fosse, cambiando semplicemente il tipo di bracciale per la comunicazione ma preservando il proprio controllo totale sulla morte di ogni cittadino di Panem.
«Anche nel Tredici ha sempre continuato a funzionare, rientrava negli antichi accordi di pace…» continua a balbettare Jackson, una delle certezze della sua vita che si sgretola, finché non la interrompo bruscamente.
«Non lo so come, non lo so!», scuoto la testa senza risposta. «Ti dico solo che è così. Nell’Arena, il Programma Morituri non funziona. Sarebbe tutto troppo facile, altrimenti».
Un ghigno amaro apre le mie labbra, mentre comincio a rivelarle l’ennesima crudeltà perpetrata da Snow e dal regime contro noi Tributi.
«Non so come funzioni al Tredici, ma nei Distretti questo», spiego, scoprendo il mio bracciale purpureo, «ci viene regalato al nostro dodicesimo compleanno. E mentre gli addetti del Morituri lo saldano alla nostra pelle, ci viene spiegato che quando saremo pronti per morire, comincerà a pulsare come un secondo cuore».
Rabbrividisco al ricordo del giorno in cui quel sottile anello di metallo porpora è penetrato nella mia carne, segnando per sempre la mia sottomissione a Panem, e nel tremore che scuote anche Jackson rilevo un passato identico e speculare a quello di ogni altro bambino dei Distretti.
«Se tutto va per il verso giusto, nessun ragazzino vede illuminarsi il proprio bracciale per molti anni», continuo a spiegare, raccontandole forse un’ovvietà che non mi sento però di tralasciare. «Anzi, una volta scampate tutte le Mietiture, il ricordo stesso del significato di questo bracciale comincia a perdere importanza… almeno fino al suo definitivo accendersi che conclude ogni vita».
Mi fermo per un attimo, perché ho appena descritto cosa succederà a entrambi entro venti ore, e so che anche Jackson sta lottando per trattenere quel conato di vomito che sento salire dallo stomaco. Ricaccio indietro quell’orribile sensazione, rituffandomi nel racconto per preservare la mia sanità mentale ancora per un po’.
«Se diventi un Tributo, però, le cose vanno diversamente», riprendo a spiegare, la mia mente che pesca dai ricordi dei miei primi Giochi. «Ovviamente, nei giorni che vanno dalla Mietitura alla vigilia dei Giochi veri e propri non succede nulla. Ma è proprio l’ultima sera che tutto cambia».
Jackson è ipnotizzata dal mio racconto, e per un attimo invidio la sua completa ignoranza di cosa significhino davvero gli Hunger Games. Probabilmente non ha nemmeno mai visto una singola edizione, e in ogni caso non ha mai rischiato di essere Mietuta o di perdere qualcuno di caro a causa dei Giochi. Per lei, il mio racconto è tutto una novità distante, e nonostante tutte le nostre somiglianze, questa differenza sarà per sempre incolmabile.
«La sera prima di entrare nell’Arena, a mezzanotte esatta, tutti i bracciali dei Tributi si illuminano contemporaneamente», rivelo, facendole aggrottare le sopracciglia dalle domande. «E no, non pulsano. Si illuminano, come piccole torce dorate che non si spengono più… finché non esci dall’Arena, in un modo o nell’altro».
«Nessuno ci avverte prima di questo cambiamento del Programma, e a meno che tu non sia stato abbastanza fortunato – o sfortunato – dal vedere qualcuno morire fuori dall’Arena, pensi di aver capito male, che sia quello il pulsare di cui parlavano, e che inevitabilmente sia giunta la tua ora».
Il ricordo della mia prima Vigilia dei Giochi si fa largo prepotentemente nella mia mente, e per un attimo sento ancora il mio cuore battere all’impazzata come quella notte. Non ero riuscito più ad addormentarmi, la consapevolezza che sarei morto prima della notte seguente che mi artigliava l’anima e che avevo domato solo grazie al narcotico speciale passatomi da Mags.
Jackson è scioccata dalla mia rivelazione, e inorridisce davanti a quella crudeltà gratuita.
«Ma… perché farvi questo?» balbetta, incapace di cogliere il vero significato degli Hunger Games. «Sapete già che rischiate di morire, che dovrete uccidervi a vicenda costi quel che costi… perché farvi pensare che morirete proprio quel giorno?»
Scuoto la testa davanti alla sua ignoranza, e la invidio per la sua umanità intoccata dalla barbarie di Panem.
«Se tu sapessi che tanto non morirai oggi, cosa ti vieta di affrontare in maniera più... rilassata i Giochi?» le domando, provando a farle capire la malvagità di Snow.
«Gli Hunger Games sono uno spettacolo, prima di tutto, e devono divertire chi li guarda. Per questo ai Tributi non viene mai concessa troppa calma, ma sono sempre messi alla prova e spinti a uccidersi nelle maniere più spettacolari e sanguinose».
Jackson sembra aver finalmente compreso il punto, e pare sufficientemente inorridita da aver dimenticato ogni paura relativa al loro destino.
«Se invece pensate tutti di morire entro la sera successiva, lo spettacolo è assicurato, giusto?» abbozza, addentrandosi dentro la psicologia malata del regime.
«Esattamente», annuisco, «se sai che morirai entro ventiquattrore, ti restano solamente due opzioni. La prima è entrare nell’Arena completamente demoralizzato e sfinito da una notte insonne, incapace di agire razionalmente e organizzarti per provare a sopravvivere. La seconda invece…»
«È lottare con tutte le tue forze per sfuggire al tuo destino, uccidendo chiunque ti si pari davanti, giusto?»
Jackson completa la mia spiegazione, e io annuisco soddisfatto: ha centrato il punto della discussione, e forse abbiamo la soluzione per la nostra condizione.
«Non sai quanta adrenalina avevo in corpo, alla mia prima Arena. Mi è bastato riflettere un po’ per capire che eravamo tutti nelle stesse condizioni, e che avrei potuto cavarmela se fossi stato sufficientemente forte e fortunato».
«E così hai vinto…» aggiunge lei, lasciandomi concludere con un sorriso: «E questo alla fine si è spento».
Indico il mio bracciale porpora, che continua a pigolare il suo lento conto alla rovescia ma che ora ha un nuovo significato.
«Dici che riusciremo a vincere?» mi chiede Jackson, finalmente serena nonostante le nuove lacrime sul suo volto. Sono lacrime di speranza mista a dolore, ma non vi è più traccia di paura in esse.
Annuisco deciso, prima di parlare con sicurezza: «Sono uscito due volte dall’Arena, e ho sempre spento questo dannato affare nel modo che avevo scelto io: vincendo».
Jackson si rialza in piedi, coprendo il suo bracciale blu e recuperando la scatoletta di fagioli; poi mi tende la mano e mi aiuta ad alzarmi a mia volta.
Le stringo la mano con forza, e prima che possa staccarmi mi sussurra: «Entri nell’Arena con me, Finnick?»
Annuisco con convinzione, promettendole di vincere anche questa volta: «Puoi giurarci. Non ti lascio sola, Jackson!»
Ormai siamo legati, per la poca vita che ci resta da vivere – perché adesso abbiamo entrambi qualcosa per cui morire.
Lei annuisce, e insieme mormoriamo poche parole che sugellano il nostro giuramento.
«Che i Settantaseiesimi Hunger Games abbiano inizio!», annuncio piano, ricordando la stessa battuta pronunciata da Katniss pochi giorni fa, mentre Jackson risponde subito dopo: «E possa la fortuna essere sempre a nostro favore!»
Ci sorridiamo l’un l’altra un’ultima volta, poi ci separiamo e svegliamo il prossimo turno di guardia.

Strattono Katniss appena prima che possa girare l’angolo per far esplodere il Tritacarne – o per finire uccisa da uno dei fasci di luce dorata che sta liquefacendo in questo istante il povero Messalla.
Siamo tutti immobilizzati davanti a quell’immagine, almeno finché Peeta non ci distoglie dal macabro spettacolo con le sue spinte e ci convince a rimetterci in marcia.
Lascio andare Katniss e mi infilo dietro di lei, seguendo i suoi passi per non finire a mia volta imprigionato da un raggio. Se oggi dovrò davvero morire, sarà alle mie condizioni, non inutilmente.
Katniss si blocca appena prima del prossimo incrocio, dove viene raggiunta da una scarica di fucilate.
Una squadra di Pacificatori è apparsa dal nulla, e ci sta caricando lungo il Transito. Siamo in trappola, bloccati tra loro e il Tritacarne davanti a noi, per questo non abbiamo altra opzione se non fermarci e rispondere al fuoco.
Scarico il fucile sulle truppe di Snow, imbrattando le loro candide uniformi con esplosioni sanguigne che abbattono un soldato dopo l’altro, e con la coda dell’occhio cerco Jackson.
La vedo sparare con precisione da cecchino, mietendo un Pacificatore dopo l’altro come se fosse nata per strappare quelle vite votate al regime di Snow. Sembra felice, mentre spegne vita dopo vita con singoli proiettili letali, e so che ora anche lei riesce a comprendermi.
Siamo entrambi nell’Arena, alleati che combattono insieme nei nostri Giochi personali, e siamo determinati a vincere.
Riusciamo a fermare la squadra di Pacificatori, abbattendone tre quarti, ma non possiamo fermarci a festeggiare nemmeno un secondo. All’improvviso, altri cominciano ad entrare a frotte dalla parete del tunnel che abbiamo abbandonato pochi minuti fa, pronti a dar man forte ai loro…
Inorridisco e per un attimo tutto intorno a me sembra congelarsi.
Quelli non sono Pacificatori.
Sono completamente bianchi, come i soldati di Capitol City, ma non indossano alcun vestito. Quegli esseri abominevoli, quattro arti e una lunga coda da rettile che sferza l’aria mentre sciamano nel Transito, sono solo nuovi, orribili ibridi inviati da Snow per ammazzarci.
Gli esseri rettiloidi si lanciano sui Pacificatori davanti a noi, azzannando loro il collo e decapitando le teste con gli elmetti bianchi, incuranti della loro identica fedeltà al regime. Proprio come nell’Arena, quelle mostruosità non guardano in faccia a nessuno: sono create solamente per uccidere, e presto ci saranno addosso.
Katniss grida un ordine che sento a stento, ma la seguo rasentando la parete e girando stretto a destra, in un nuovo cunicolo. Poi, quando siamo tutti al coperto, Katniss spara in direzione dell’incrocio che abbiamo appena abbandonato.
Il Tritacarne si attiva, ed enormi denti meccanici sfondano la strada e masticano le piastrelle, riducendole in polvere. Niente e nessuno dovrebbe riuscire a sopravvivere a quella carneficina, ma dubito che una semplice trappola possa fermare quegli esseri abominevoli.
Per questo seguo Katniss e Pollux attraverso una porta anonima, che ci proietta in un condotto stretto e puzzolente fino a un ballatoio largo poche decine di centimetri.
Siamo nella fogna principale, e al nostro lato un intruglio venefico e mortale scorre lentamente gorgogliando. Dubito che anche un nuotatore esperto come me potrebbe sopravvivere all’interno di quelle onde putride, per cui mi affretto lungo il ballatoio scivoloso con la massima attenzione, fino a una rientranza nella parete oltre a un precario ponticello.
È solo quando ci fermiamo che mi accorgo che la mia compagna in questa terza Arena non c’è più.
Mi guardo intorno, contando i miei commilitoni: Katniss è viva, e così Peeta, Gale, Homes, Pollux, Castor, Cressida… Sono tutti salvi, tranne Leeg 1 e Jackson, svaniti come nel nulla.
«Sono rimaste al Tritacarne per trattenere gli ibridi», spiega Homes, e il mio cuore si stringe di dolore.
So che non avrebbe fatto alcuna differenza, e che a prescindere dalle mie parole di questa notte Jackson sarebbe morta comunque, ma mi sento in parte in colpa per quella sua scelta.
Almeno, ha scelto di morire alle sue condizioni, sacrificandosi per salvare tutti noi.
La ringrazio in silenzio, sordo al battibecco che si sta consumando tra Katniss e Homes, ma sono immediatamente riportato alla realtà dal fetore che invade la fognatura principale.
Quando alzo gli occhi, gli ibridi lucertoloidi sono di nuovo in mezzo a noi, all’inizio della conduttura.
Vedo Gale tendere il suo arco, poi una fragorosa esplosione fa saltare il ponte proprio davanti a quelle mostruosità.

Non pensavo che sarei morto così presto, dilaniato da quelle orribili creature in una fetida fognatura di Capitol City, ma forse dopo aver evitato la morte in due diversi Giochi è davvero tempo che paghi pegno.
Continuo a combattere con tutta la forza della disperazione, gettando via il fucile ormai scarico e lacerando quelle carni da rettile col mio fidato tridente.
Vedo uno degli ibridi decapitare con singolo morso Homes, mentre Castor soccombe ad altri due imbracciando inerme un altro fucile scarico.
Con la coda dell’occhio, percepisco Gale arrampicarsi lungo una scaletta metallica, mentre frecce e pallottole perforano dall’alto quelle mostruosità che mi circondano.
Pianto il mio tridente nel cranio di uno degli ibridi, poi mi getto a mia volta sulla scaletta per provare a fuggire.
Ma è troppo tardi.
Una zampa da rettile mi afferra per il polpaccio, dilaniandomi la gamba e strattonandomi verso il basso. Provo a resistere, ma la scala è scivolosa e perdo la presa quando un secondo abominio si attacca all’altra gamba.
Scivolo verso il basso, provando a recuperare il mio tridente in quella bolgia infernale di zanne e artigli che si avventano contro di me, ma è tutto inutile.
Vedo il viso di Katniss lassù, in alto, all’estremità del condotto, e urlo il suo nome.
Non voglio morire così, dilaniato a sangue ma cosciente – una morte inutile e troppo dolorosa – e Katniss sembra capire la mia preghiera.
Mentre le zanne trafiggono le mie carni e il mio mondo si riduce a una spirale di dolore continuo e letale, i miei occhi incontrano per l’ultima volta quelli di Katniss.
Vedo la mia vita scorrermi davanti in un baleno, pochi flash estremamente vividi e autentici che mi sottraggono a quell’orrore disumano.
L’albero di una barca a vela.
Un paracadute argentato.
Mags, la mia dolce Mags che ride.
Un cielo rosa.
Il tridente che mi ha regalato Beetee.
Annie, meravigliosa nel suo abito da sposa, che danza ridendo, felice.
Onde che si infrangono sulle rocce in riva al mare.
Poi è solo luce, è solo buio.
Poi, è finita.


[2947 w.]

⌁◇⌁♆⌁◇⌁

 

Questa storia un po' particolare, che segna anche il mio debutto in questo fandom, è nata esclusivamente grazie allo splendido contest indetto da Mati (@matiscrivo o Vigilanza Costante).
L'idea si basa su una particolarità del libro "They both die in the end" (che non ho ancora letto, ma ho provveduto a comprare proprio perché ispirato da questa iniziativa!*__*), il meccanismo "Death Cast", che abbiamo dovuto implementare in ciascuna delle nostre storie.
L'idea in sè è tanto semplice quanto inquietante: citando proprio Mati, "le persone devono essere avvertite "dall'alto" che stanno per morire alla mezzanotte del giorno in cui moriranno. Deve essere, insomma, un sistema approvato dalla società in cui i personaggi vivono. Non devono scoprirlo con un bigliettino trovato per strada, per caso o perchè sono in qualche modo prescelti."
Ho pensato che il distopico mondo di Panem potesse essere perfetto per introdurre questo meccanismo di avviso della propria morte, e ho inventato pertanto il Programma Morituri ( riprendendo appositamente il termine latino per imitare i continui riferimenti di Panem all'Antica Roma): ho pensato che un fenomeno così importante dovesse essere presente sin dall'inizio della storia di Panem, e continuare a funzionare anche dopo la Prima Ribellione, restando in mano a misteriosi burocrati persino al di sopra del Presidente Snow stesso - ma da lui utilizzati a proprio vantaggio per seminare ancora più panico nell'Arena. Spero di essere riuscito il meccanismo richiesto dal contest in maniera appropriata, e di non averne storpiato troppo il significato.
Ho voluto dedicare questo mio debutto al personaggio di Finnick, che ho sempre amato con tutto me stesso, e spero di avergli reso giustizia.
Vi ringrazio di cuore per aver letto questa storia, e se vi va di lasciarmi un vostro parere vi sarò ancora più grato.
In bocca al lupo a tutti gli altri concorrenti, e possa la fortuna essere sempre a nostro favore!
   
 
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