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Autore: DanceLikeAnHippogriff    04/11/2021    3 recensioni
Non ho fermato il mondo, ma ho fermato me. Guardo la giostra e aspetto il momento giusto per rientrare, ma senza fretta, con pazienza. So che non basterà il tempo che mi sono presa; non servirà, da solo, a invogliarti a darmi una mano. A darmi la mano.
***
Un ritorno su tastiera in punta di dita, ma con tanta voglia di scrivere e de-scrivere.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Storie brevi'
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“Fermate il mondo… voglio scendere!”

Una frase che mi rimase saldamente impressa, letta anni fa quando, con la mia solita curiosità e il giusto pizzico di invadenza che caratterizza le mani dei bambini, frugavo col fiato sospeso nei cassetti a casa di nonna. Cercavo tesori, ricordi, emozioni passate riposte con cura negli anfratti dei mobili, degli armadi, degli angoli. La memoria mi ha sempre attirata; era per me il fascio di luce dentro cui danzava immota la polvere in una soffitta. Trattenevo il fiato per non smuoverla, quella polvere; mi avvicinavo con cura, reverenza, forse percependo tutto l’amore che c’era dietro al semplice gesto di conservare un oggetto. In famiglia siamo tutti così, attirati dal ricordo. Persi nell’amore.

Quella frase la lessi sul diario rosa di Mafalda delle medie di mia madre, con la testa china e gli occhi che scorrevano avidamente le pagine, inciampando su nomi e dediche che per me non avevano volto né significato. La lessi mentre giravo le pagine col cuore in gola, avvolta in una cappa di denso silenzio. Immobile. Il mio corpo e le mie orecchie erano sempre pronti a captare la minima vibrazione. Se avessi sentito qualcosa, avrei rimesso tutto apposto, alla rinfusa, con estrema velocità perché il gioco che giocavo da sola prevedeva di non farsi assolutamente cogliere in flagrante. Pena: …! Non saprei davvero. Nessuno nella mia famiglia punirebbe mai la curiosità. Ma la me del passato, la me bambina, amava le sfide e se le poneva anche da sola, se necessario. Le esplorazioni delle case, le “cacce al ricordo”, rientravano in questa categoria. Così ho letto gli scritti segreti dei miei zii e delle mie zie, aperto scatole anonime che racchiudevano preziosi tesori – monetine particolari, rametti, fiori essiccati, tappi di bottiglia, sassolini… –, esplorato armadi rinvenendo vecchi vestiti di paesi lontani, sospirato con le lettere dei miei nonni, scovato chiavi nascoste e aperto pertugi segreti. Il tutto in silenzio. In punta di piedi. Senza mai farmi scoprire.

Ne ho sempre fatto un vanto, del mio silenzio. Quando voglio, riesco perfino ad annullare il rumore dei miei passi sulle scale – anche se ora mi fregano i tendini che scrocchiano come ghiaia sotto le suole. Era un gioco e una sfida. Molto di quello che facevo da piccola lo era, e al tempo stesso era un’avventura. Il silenzio che mi portavo dietro era un silenzio di anticipazione, di fantasia, di scoperta; era la coltre che mi stringevo addosso che piegava la realtà come un prisma, rendendo tangibile la mia immaginazione. Per gli altri, era silenzio. Per me, era pieno di rumori. Il silenzio me lo sono portato dietro nella lettura: quando ho tra le mani un libro, non esiste modo per distogliermi dalle sue pagine, dalle parole. La mia mente mi isola, le mie orecchie sono occupate a riempirsi dei suoni di quel mondo per me nuovo, delle voci dei personaggi, di un’altra vita. Nel mio silenzio, io sento tutto, tranne quello che succede qua.

“Fermate il mondo… voglio scendere!”

Questa frase attraversava spesso l’ovatta di cui mi sono foderata la mente in questi mesi – per non sentire, per non badare alle vertigini che provavo. Non pensavo che sarebbe stato possibile desiderarlo così tanto. Eppure, eccomi ritornata nel mio rifugio sicuro, a casa. Eccomi tornata ai miei silenzi, ai miei pensieri, al mio ascoltarmi. Mi mancava. E quella frase urlata a pieni polmoni da una piccola Mafalda, incomprensibile per la me bambina, ora la capisco bene. Il mondo non lo posso fermare, ma io posso scendere. E così, preso il coraggio a due mani, sono saltata giù da questa giostra impazzita e sono ruzzolata sull’erba, spostando la sguardo dalle risate caotiche ed elettrizzate bambini che la fanno girare al cielo. E ho respirato. Per la prima volta, dopo mesi, ho respirato davvero.

Ho dovuto lottare col senso di colpa, quel piccolo tarlo che avvelena la bellezza del riappropriarsi dei propri tempi, delle proprie passioni. Lo devo fare ogni giorno e non sempre ne esco vincitrice. A volte, nei lunghi silenzi di una giornata, mi riscuoto e sento una stretta al petto che mi trascina verso il basso. Vedo il mondo che gira senza sosta e a starne fuori provo una vertigine difficile da spiegare: una sorta di ebrezza mista a una lieve vena di terrore. Perché, mi domando, quanto sarà difficile risalire? Poi, prendo in mano una matita e i miei timori irrorano la carta, impregnano la grafite, si traslano in un’altra dimensione. E il mio silenzio diventa arte, passione, bellezza. Non è più un silenzio di colpa. È un inno alla vita.

Sono sempre stata paziente. Misurare con precisione il tempo, per me, non ha granché valore. Il sole e la luna mi scandiscono le ore, i giorni, i mesi. Non so leggere l’orologio, quei modelli con le lancette che se la stanno giocando con gli analogici. Ora lo dico con una certa punta di orgoglio, ma solo qualche anno fa me ne vergognavo da morire. Tutt’ora, quando mi si chiede di leggere un orologio, nella mia mente si mescolano lancette e numeri peggio di un Pollock. Da piccola, l’unico Insufficiente che io abbia mai preso alle elementari è stato in una verifica sul tempo; bisognava scrivere l’ora esatta sotto il disegno di un orologio, dieci in totale. Ho scritto giusto solo il primo, sommando poi le ore di ogni orologio a quello successivo. Sono venute fuori un sacco di ore e una montagna di minuti. Tempo cumulativo. Ma chi lo capisce il tempo? Io no, ma ho sempre saputo aspettare, facendomi scivolare via quel ticchettio di dosso. L’orologio al polso la mattina mi pesa come una catena. Ho smesso di portarlo anni fa. Ecco, in questi ultimi mesi, il tempo l’ho guardato spesso. Era un imperativo. Tirare fuori il telefono, controllare l’ora, rimettere via il telefono. Ritirarlo fuori perché non avevo letto l’ora per davvero, rimetterlo in tasca. Tirarlo fuori di nuovo per controllare di aver letto bene. Tenerlo in mano. Aver saltato giù dalla giostra mi ha fatto ritornare al mio mondo senza tempo, scandito dal vento tra le foglie e dal formicolio sotto pianta dei piedi quando corro veloce pestando il terreno. E sorrido.

“Fermate il mondo… voglio scendere!”

Tranquilla, mi sono fermata. Con vergogna, con esitazione, col cuore in gola e avvolta in una cappa di silenzio. Non mi sembrava un’avventura, questa, più una sconfitta. Mi chiedo cosa penseresti di me, tu che correvi felpata per le stanze di case da esplorare, che non stavi mai ferma e avevi solo voglia di infilare le mani nei pertugi più strani e, solo per te, invitanti. Mi chiedo cosa mi diresti, se penseresti che sono una ragazza strana adesso, con la testa piena di lancette e rumore. Forse mi tireresti la mano per portarmi in qualche nascondiglio segretissimo e pieno di magia che scaturiva tutta da te, dal tuo silenzio teso e fremente. Sono scesa dalla giostra anche per te. Per prenderti per mano, per permetterti di fare capolino da quel fantastico mondo, portandolo con te. Ora mi sorprendo a rendere vivi i silenzi, ad amare i miei schizzi su carta, a cercare il rumore delle dita sulla tastiera, a pizzicare le corde della chitarra, a decantare ad alta voce brani teatrali per casa. Per te.

Non ho fermato il mondo, ma ho fermato me. Guardo la giostra e aspetto il momento giusto per rientrare, ma senza fretta, con pazienza. So che non basterà il tempo che mi sono presa; non servirà, da solo, a invogliarti a darmi una mano. A darmi la mano. E sento la tensione accumularsi nei polpacci perché presto toccherà a me saltare sulla giostra in movimento, non appena mi si presenterà la giusta apertura. E la dovrò cogliere e la vorrò cogliere. Prometto, però, di darmi e darti tempo di venire a colorarci il mondo. Ascolterò il tuo silenzio fatto di suoni e il mio silenzio di riflessione. E salterò sulla giostra. Per te. Per me.

 


 

 

Note dell'autrice: Era da un po' che non mi prendevo il tempo per scrivere e sono felice di averlo fatto. Ne avevo bisogno. Ciò che amo di più dell'arte, che sia la scrittura o il disegno o la musica nel mio caso, è la sua capacità di assorbire il lato negativo delle emozioni che provo. Mi sono chiesta spesso come mai fosse così facile scrivere della tristezza; perché, almeno per esperienza personale, si è più attirati verso un foglio bianco o una tastiera di computer o le corde di una chitarra quando ci si sente tristi, melanconici, grigi? Non ho ancora trovato una risposta, ma quello che so è che l'arte mi purifica l'anima. Quello che so è che una volta finito un disegno, uno scritto, una canzone, il mio cuore si sente più leggero e ciò che rimane è una grande e infinita pace. 

  
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