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Autore: _Frame_    05/11/2021    5 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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223. Il risveglio e Il punto di non ritorno

 

 

7 dicembre 1941

Pearl Harbor, Isola di Oahu

Hawaii

 

Inghilterra affondò il viso nel petto immobile di America. Gli singhiozzò addosso, soffocando un lamento, “Torna”, e sentendo il suo stesso cuore spaccarsi in due e spandere le stesse lacrime di dolore versate dai suoi occhi.

Strinse più forte le braccia, ma il corpo di America non reagì, già bollente e febbricitante. Rivoli di sudore percorsero il turgido gonfiore dei muscoli, si mescolarono al sangue rappreso, e bagnarono le ferite ancora fresche da cui evaporava un sottilissimo velo di fumo nero, lo stesso che esalavano anche le carcasse delle sue navi e gli scheletri carbonizzati dei suoi bombardieri.

Inghilterra si aggrappò con le dita alla fibra della maglietta umida di sangue versato, si appese ai fiochi palpiti di vita che percepiva attraverso la fronte premuta sul petto di America. Pianse ancora. Grosse lacrime amare si sciolsero dalle palpebre strizzate, discesero le guance, e piovigginarono sul viso insanguinato di America. “Torna da me,” singhiozzò di nuovo, e le sue braccia avviluppate al corpo di America tremarono per lo sforzo. Spostò le mani attraverso il gonfiore delle braccia nude e ferite. I lividi pulsarono di dolore sotto il suo tocco, dove le sporgenze delle ossa rotte erano più acute. “Torna da me, America.” Inghilterra girò il viso e gli premette sul petto la guancia sporca di sangue e lacrime. “Ti prego.” Un altro singhiozzo gli rimbalzò in gola, inasprendo il suo pianto. “Ti prego, svegliati. Svegliati, America.” Gli aprì una mano sulla nuca, sorresse il capo che era ciondolato di lato, e gli carezzò i capelli. Fra le sue dita, le ciocche corsero umide e collose, pregne del sangue che stava via via essiccando. Erano color rosso rame, anziché biondo grano. “Torna da me.” Anche il viso di America era bagnato di sangue. Le orbite gonfie e violacee, profonde ferite a solcargli le palpebre abbassate da cui si erano sciolte le lacrime scarlatte colate fin sotto il mento. Nemmeno uno spasmo di vita ad attraversargli le labbra bianche, o a soffiare un sibilo di fiato dalle narici.

America non reagì nemmeno quando un gruppo di camionette – sia militari sia civili – sgommarono sulla banchina, fiancheggiarono l’orda degli uomini in fuga, e riversarono su di loro la stessa ondata di fumo proveniente dagli incendi che si stavano consumando su tutto il porto. Le sagome degli uomini si diradarono attorno ai mezzi, i freni stridettero, i colori fiammeggianti degli incendi brillarono sulle carrozzerie ammaccate.

“Largo, largo!” Giunsero altri furgoni, alcuni grandi il doppio rispetto alle camionette che li avevano preceduti. Portelli si aprirono e sbatterono, suole di scarpe calpestarono il cemento bagnato, altri uomini si unirono a quelli che già brulicavano sui pontili. “Allontanatevi dall’acqua! Tutti fuori dall’acqua!” Fiamme s’innalzarono sul pelo dell’acqua, braccia di fumo risalirono l’aria incendiata e annerirono i detriti metallici più vicini. Il mare ruggì, un’onda azzannò il fianco di una delle navi capovolte, e fece ribollire l’acqua circostante.

Bombardieri americani sfrecciarono attraverso il fumo, bassissimi, tanto da infilarsi fra i tralicci delle navi abbattute, sfiorare le carcasse che galleggiavano nell’acqua gorgogliante, e perforare le nubi attraverso cui non era più visibile nemmeno uno spicchio di cielo.

Orde di uomini, piccoli come pesciolini nelle reti, sguazzarono sotto le luci rosse e gialle degli incendi, sventolarono le braccia verso i pontili, “Quiii!”, gridarono a gran voce ingoiando acqua e nafta, “Siamo quiii!”, e agitarono il biancore schiumato dalle onde. Le acque gli ribollirono attorno, incendiate dal calore delle fiamme. Le braccia s’incollarono alla superficie oleosa di nafta e sprofondarono, facendoli sparire dietro il fumo degli incendi o sotto le pareti metalliche delle navi da cui stavano scappando.

Alle raffiche degli aerei in volo si unirono i cavernosi scricchiolii delle navi divorate dal fuoco. Le placche metalliche stridettero, consumate dal continuo dimenarsi delle fiamme, e colarono a picco in acqua, sollevando schiaffi d’onda che si ribaltarono sugli uomini a galla, mandandoli a sbattere sul fondo, o contro le ancore, o gettandoli in pasto al fuoco sempre più ingordo.

Investito a sua volta dallo sfrecciare improvviso dei mezzi di soccorso appena giunti al porto, Canada emise un gemito di spavento. Si rannicchiò spostando le ginocchia piegate sul cemento della banchina, e strinse più forte la mano di America a cui era aggrappato. Non ci fu una risposta, una reazione. Solo il suo braccio inerte, gonfio e maculato di lividi, che ciondolava a peso morto, sorretto unicamente da quella debole presa.

Canada strofinò le dita fra quelle di America, che bruciavano come se avessero impugnato dei carboni roventi per tutto quel tempo, ma ancora non percepì alcun impulso di vita. Lo afflisse una stretta di dolore che era uguale a quella patita da Inghilterra. Come lui, anche Canada non riuscì a contenere un velo di pianto che gli appannò la vista già soffocata dal caldo bruciore del fumo. “America...” Sovrappose anche il tocco dell’altra mano. Strofinò via il dolore dalla pelle bruciante di America, e qualcosa di umido e caldo gli bagnò la pelle.

Canada alzò la mano davanti a sé. Era rossa, lucida di sangue fresco che colò fino al polso. L’odore di fumo, di carburante bruciato, di metallo sciolto, di acqua di mare e di alghe carbonizzate, gli penetrò le narici e attirò il suo sguardo verso lo spazio della rada. Lo abbagliò il calore delle fiamme, spingendolo a tirare su il braccio per ripararsi dalla nera corrente d’aria in cui turbinavano fiocchi di cenere e scintille incandescenti.

Gli si strinse lo stomaco, le guance impallidirono come carta.

Il cielo rigurgitò dei gorgoglii simili a quelli di un temporale. Lingue di fuoco divorarono le bandierine appese ai tralicci, si dimenarono fra gli squarci che laceravano le navi colpite, e zampillarono luci rosse e arancio sulla traslucida pellicola di nafta che schiumava fra le onde.

Attorno alle prime camionette giunte in soccorso, corsero avieri e marinai che si precipitarono contro gli schizzi d’acqua sollevati dagli uomini che gridavano aiuto dallo stretto di Ford Island.

Soccorsooo!” Ci fu un’esplosione. “Soccorso da questa parte!” Uno spruzzo di scintille bianche, simile a un fuoco d’artificio, bruciò le nubi più basse, emettendo uno scoppiettio a ripetizione, e abbagliò le loro facce bagnate e sporche di nero. “Lanciate salvagenti! Più salvagenti!”

Un fischio discese il cielo, si materializzò nel profilo di un bombardiere americano in picchiata, e si lasciò dietro uno sfregio di fumo ancor più nero delle acque della baia. L’ala in fiamme s’inclinò verso l’ansa del porto, trascinò verso il basso il peso dell’aereo, e affettò i tralicci della Arizona. Il B-17 compì un avvitamento su se stesso, si schiantò sul ponte inclinato della nave, ed esplose in mille pezzi. Si dilatò in un globo di luce e calore che divorò il fumo lì attorno, splendette come un sole da cui volò via una raggera di detriti, e la cascata di frammenti grandinò in acqua, dove nuotavano gli uomini in fuga.

“Via dalle naviii!”

La palla di fuoco si estinse, e finì di bruciare attorno allo scheletro del B-17. Tornò a calare il buio soffocato dal fumo.

L’acqua del molo ribollì attorno alle navi danneggiate, sommerse dalla marea nera che saliva sempre più in alto, fino a sommergere le superfici dei ponti e le batterie contraeree che ormai avevano smesso di sparare.

Uno stormo di bombardieri sorvolò la scia del B-17 appena precipitato. Il loro vento scosse il cielo, fece tremare le fiamme, e il loro boato risuonò sul cemento della banchina. Qualche marinaio si gettò a terra tenendo le mani dietro la testa per non venire investito dalla risacca d’aria così bassa.

Altri uomini, radunati sulla terraferma, sbracciarono e gridarono verso quelli che si tenevano a galla o che stavano emergendo dalle acque fatte di fuoco e pece. “Da questa parte! Di qua, di qua, coraggio!” Le voci indistinguibili l’una dall’altra, come i loro volti. “Aggrappatevi forte!”, “Reggetevi a qualsiasi cosa galleggi, lontani dalle pozze di nafta!”, “Di qua, di qua! Siamo quiii!”

Le braccia asciutte di chi si sporgeva dalla banchina si tesero e vennero loro in soccorso. Emersero i primi corpi, neri e gocciolanti, estrapolati dall’acqua proprio come bestie marine appese alle reti. Gli uomini stesi e ammucchiati riempirono lo spazio del pontile sommerso dalla nebbia color carbone. Alcuni si rotolarono sul fianco, tossirono, vomitarono acqua, ma rimasero intrappolati nella pellicola di nafta in cui avevano sguazzato. Certi si aiutarono a vicenda, piegandosi sulle ginocchia, alzandosi per primi e tendendo le mani a quelli ancora rannicchiati sul fianco, a stringersi le ferite o a boccheggiare in mezzo al fumo. Gemiti di dolore si mescolarono alle grida di agonia di quelli ancora intrappolati in mare.

I primi uomini si alzarono, aggrappati alle spalle di quelli giunti in loro aiuto, zoppicarono nella coltre di fumo, si allontanarono dai frammenti d’onda saltati in aria assieme ai lapilli degli incendi, e si trascinarono verso le camionette dei soccorsi. Alcuni furono trasportati tenendoli alzati per braccia e gambe, come sacchi di farina. La testa ciondolante di lato e il corpo molle e gocciolante. Altri invece non si mossero. Giacquero immobili, stesi a terra, illuminati dal rosso degli incendi e sorvolati dai ronzii degli aerei, attorniati dalla miriade di gambe che correvano da un capo all’altro della banchina.

“Date gas, date gas, partite! Via di qui!”

Le camionette ripartirono, cariche di feriti, in direzioni degli ospedali. Incrociarono la marcia con un altro gruppetto di furgoni verdi, marchiati da una croce rossa, che presero il loro posto. I mezzi appena arrivati si fermarono alla base dei pontili, senza nemmeno spegnere i motori, e spalancarono i portelli lasciando scendere gruppi di uomini in uniforme, marinai, soldati e avieri. “Caricatene più che potete”, “Non c’è più posto, non stanno più”, “Fateli stare, smuovete anche i camion civili, ci servono tutti i mezzi dell’isola!”.

Dalle anse del porto salparono piccole barche a motore da cui sventolavano bandiere statunitensi. Fendettero la nera superficie dell’acqua, schivarono le fiamme galleggianti, e si ammassarono attorno alle carcasse delle navi da guerra, dove le onde gorgogliavano e gli incendi si specchiavano sulle superfici di metallo lacerato.

Gli uomini che le guidavano lanciarono salvagenti e giubbotti di salvataggio già aperti. “Forza, forza, ché ce la fate!” I superstiti più vicini si appesero alle ciambelle di salvataggio, boccheggiarono forzandosi di tenere la testa fuori dall’acqua, e si girarono a tendere il braccio a quelli che sguazzavano lì vicino. Gli uomini in barca si sporsero e sventolarono le mani per richiamarli. “Ancora uno sforzo, ci siamo qui noi, non mollate, ancora una sbracciata!”.

Calarono scialuppe di salvataggio dalle navi più piccole, quelle risparmiate dai bombardamenti. Issarono reti e funi, estrapolarono altri corpi dall’acqua nera di nafta, li recuperarono sottraendoli al dimenarsi delle fiamme.

Si levarono le grida di dolore degli uomini ancora vivi. Le loro ustioni bruciarono, incollando quel che rimaneva degli abiti ai corpi abbrustoliti dal fumo.

Un fascio dei tralicci della nave più vicina, la Maryland, si tese e stridette, consumato dal calore del fumo che gli bruciava attorno, e si spezzò di netto. I tralicci frustarono il fumo, precipitarono in acqua, schiaffeggiarono le onde, scaraventando lontano gli uomini che galleggiavano sulle creste, ed evocarono altre grida di agonia.

Le fiamme s’ingrossarono attorno alla Maryland, e la loro luce accecante nascose gli ammarati. Le fauci di fuoco azzannarono il fianco della nave danneggiata e strapparono avidi morsi attorno ai laceri che già ne annerivano la corazza. Un colloso e asfissiante odore di fumo si propagò dalla vernice sciolta.

Gli uomini nuotarono ad aggrapparsi alle catene delle ancore. Altri forzarono qualche bracciata fra la schiuma nera delle onde e si appesero ai salvagenti gettati dai soccorritori. Molti di loro tuttavia galleggiavano immobili, già morti. La faccia ingiù, le braccia aperte, il corpo inerte sballottato dagli scossoni delle acque mosse.

Le raffiche della contraerea echeggiarono a vuoto, si alternarono ai tonfi secchi e sordi delle salve che continuavano a far fuoco anche se non c’erano più stormi giapponesi da abbattere. “Sparano ancora!”, “Giù con le teste, giù con le teste!”. Sfrecciarono i ronzii appartenenti a un altro stormo di B-17, quelli decollati dalla Enterprise. I bombardieri inseguirono le traiettorie degli Zero e dei Nakajima che si erano ormai dileguati dai cieli di Pearl Harbor, scomparvero dietro le colonne di fumo e le nuvole di vapore, e si rimpicciolirono contro la nebbia dell’orizzonte.

Schiacciato nel vortice di quella visione, Canada provò una seconda fitta al cuore, ancor più dolorosa della precedente. Fu un dolore sordo che risuonò in ogni fibra del suo corpo, bruciando attraverso il sangue e premendo sulle ossa. Schiuse le labbra, trasse un sibilo di fiato che gli ronzò nelle orecchie, stordendolo. Si ritrovò estraniato dai boati degli incendi, dalle raffiche metalliche della contraerea, e dalle grida laceranti degli uomini che continuavano a morire davanti ai suoi occhi spalancati. I suoni si ovattarono. L’ambiente si appannò, racchiuso in una patina eterea e vaporosa che era la stessa in cui si sguazza durante un incubo.

Canada si sentì sprofondare. Per tenersi aggrappato a uno spiraglio di realtà, per convincersi di non star sognando, strinse più forte la mano di America, facendo gocciolare dell’altro sangue fra i loro palmi, gli stessi che quella mattina, sui cieli infuocati dal combattimento aereo, si erano congiunti per passarsi il modellino del B-17.

Era accaduto tutto troppo in fretta, troppo all’improvviso. Canada e Inghilterra erano giunti a Oahu solo la sera prima. Erano smontati dal piccolo aereo, avevano attraversato le strade di Honolulu illuminate dalle lanterne di carta e profumate dai dolci vapori delle grigliate di pesce che fuoriuscivano dalle porte dei ristoranti. Si erano fermati a cenare in quel piccolo locale dal tetto di paglia allestito sulla spiaggia. Le lontane luci di Pearl City splendevano rigogliose, raccolte nelle insenature della costa sormontata dalla luna già alta come un faro. Dalle navi ammarate giungevano musiche e voci. I marinai ridevano, avevano bevuto assieme a loro, e adesso anche loro stavano affrontando quel... no, era troppo irreale, non stava realmente accadendo.

“Come può essere?” Sugli occhi sgranati di Canada tremolarono le ultime lacrime che aveva versato per America. Lo sguardo incredulo, annebbiato di dolore. “Perché è successo? Giappone...” Ebbe solo un breve ricordo di lui, di quando aveva incrociato il suo sguardo estraneo al di sopra delle nuvole. Anche quella gli parve l’immagine strappata a un incubo ormai lontano, sfumato da un brusco risveglio. “Giappone non avrebbe mai... non contro America che non aveva nemmeno...” Strinse più forte la mano bagnata e bollente di America. Quella scossa gli attraversò il braccio, piantandogli nel petto una crudele stilettata di dolore. “Perché poi in questo modo? Perché in maniera così crudele?”

“È la Regola del Tre.” Inghilterra avvolse la mano attorno al capo di America, lo tenne protetto contro di sé, poggiato sul petto, e gli massaggiò i capelli insanguinati. Placò i singhiozzi – gli occhi gonfi e rossi, una fiamma a bruciare nelle loro profondità –, e si tenne stretto a lui, smettendo di tremare. “Qualunque cosa tu faccia...” La voce bassa e rauca, pregna di rancore. “Qualunque gesto, qualunque azione, ti tornerà indietro moltiplicata per tre, a prescindere dalla sua natura.”

Due esplosioni si susseguirono, ed evocarono una vampata di fuoco più alta. Il calore incendiò l’aria, risalì la coltre di fumo, e illuminò lo specchio d’acqua agitato dalla miriade di uomini che stavano ancora sguazzando e annaspando per andare incontro ai soccorritori.

Non un brivido da parte di Inghilterra, non un gemito o un sussulto davanti a quei botti. Il vento gli passò attraverso, la luce di fuoco gli tinse di rosso il viso lucido di lacrime, e lui non smosse una ruga. “Questa non è la punizione di America,” affermò con solennità. “Questa è la mia punizione. È la conseguenza delle mie azioni. È il prezzo che pago per tutto il sangue che ho versato, per tutto il dolore che io ho disseminato da quando questa guerra è cominciata. Se non fosse stato per me...”

Inevitabilmente venne risucchiato a Taranto, in quel ricordo emerso alle sue spalle come un’ombra. Era notte, non mattina. Ed era stato Inghilterra a impugnare i piccoli aerei e a comandare gli stormi di Swordfish, facendoli scendere in picchiata, e silurando l’arsenale di navi italiane.

“Se non fosse stato per quello che io ho causato a Taranto, per la mia ingiustizia nei confronti di Italia, per la mia meschinità, ora...”

Tenendo le braccia strette attorno al corpo esanime di America, si sovrappose un’altra immagine appartenente alla Notte di Taranto. Il viso in lacrime di Spagna, la sua fronte premuta sul petto immobile di Romano, i suoi singhiozzi disperati, gli occhi arrossati che poi si erano alzati verso Inghilterra, maledicendolo con tutto il dolore che avrebbe potuto tornargli indietro. Un ritorno che infine lo aveva raggiunto.

Era America a giacere sulla banchina del porto, erano le braccia di Inghilterra a sorreggerlo, erano le sue mani a massaggiargli i capelli, erano i suoi occhi in lacrime che lo scongiuravano di svegliarsi, ed era il suo cuore a essersi spezzato per l’ennesima volta.

“Ora America non...”

Bastò quell’istante a farlo pentire di ogni cosa: di essere sbarcato sulle sue coste, centinaia di anni addietro; di averlo cresciuto, di averlo amato, di averlo combattuto, di essersi fatto disprezzare, di averlo spinto alla ribellione, e di averlo infine riconosciuto come una vera nazione.

Se io non avessi mai fatto parte della vita di America, tutto questo non sarebbe mai capitato. Lui non si sarebbe mai ritrovato vittima delle guerre da cui ho sempre cercato di proteggerlo. Sarebbe stato meglio se io e lui non ci fossimo mai incontrati, se non fossimo mai entrati l’uno nella vita dell’altro.

Un altro groppo di pianto gli si sciolse in gola. Il bruciore delle lacrime gli riempì le palpebre, colò lungo le guance, e i singhiozzi di dolore gli squassarono il petto. “Torna...” Inghilterra si rovesciò sul corpo esanime di America, sporcandosi del suo sangue, inspirando l’odore di mare e di carburante, e lo chiamò ancora una volta. “Torna indietro.” Fu lo stesso grido basso e doloroso con cui l’aveva inseguito nel bosco di Yorktown. “America.” Fu lo stesso gemito che aveva sviscerato dal cuore la volta in cui lo aveva visto alzarsi dal terreno fangoso, dargli la schiena e scomparire in mezzo agli abeti.

Questa volta, però, il suo grido non cadde nel vuoto. Lo riportò indietro.

La mano di America strinse le dita tumefatte fra quelle di Canada, fece gocciolare dell’altro sangue. Una smorfia gli stropicciò la fronte annerita dal fumo, e un breve gemito gli scivolò fra i denti stretti. “Ghn...” Uno spasmo risalì il braccio e si propagò al resto del corpo.

Canada sobbalzò, rispondendo alla pressione della mano, e tirò su il capo di scatto. “A...” Gli occhi umidi s’illuminarono. Il suo respiro si fermò, osò aggrapparsi a una piccola speranza. “America.”

Inghilterra sollevò la fronte e sgranò gli occhi annacquati. Le esplosioni smisero di brontolare, il ronzio degli aerei si allontanò, le grida degli uomini si acquietarono, la coltre di fumo oscurò il panorama del porto, congelando il mondo attorno a lui. “America?” Ancora non osò sperarci.

America aprì e richiuse la bocca, si morsicò il labbro grigio. “... ewa.” La voce gli uscì in un farfuglio. “In...” Un barlume di azzurro brillò fra le ciglia sfarfallanti, impregnate di polvere e sangue. “... ghil...” Schiuse un occhio alla volta, tenne aperto solo quello di destra che aveva le palpebre meno gonfie. “... tewa?”

Le guance di Inghilterra divennero rubizze, infiammate da un guizzo di emozione sorto dal profondo del suo cuore. Non fu un tonfo freddo e duro, come quello che l’aveva colpito quando era esplosa la prima bomba area, ma una sensazione morbida e dolce che colmò quel vuoto che era sprofondato in lui quando aveva creduto di non poter mai più riabbracciare America. Una carezza di velluto sulla guancia, un abbraccio attorniato dal profumo dei fiori di campo.

Non Inghiltewa.” La sua stessa voce era un ricordo lontano, ma custodito con amore. “Inghil-terra.”

Tewa.”

Ter-ra.”

Teee... wwwa.”

“America.” Anche lui pronunciò il nome di America con tono diverso. Si fece rapire dallo stesso senso di appartenenza che lo accoglieva tutte le volte in cui giungeva nel Nuovo Mondo, nella sua casa oltre l’oceano. “Sei...” Le sue labbra tremarono, i suoi occhi s’illuminarono di speranza come quelli di Canada. “Sei tornato.” Non seppe a quale vita di America si stesse riferendo, ma non importava. Gli gettò le braccia al collo e lo strinse di nuovo prima di vederlo di nuovo andare via. “Sei vivo.” Si rimise a piangere, e le lacrime che sgorgarono furono di natura diverse, più dolci e liberatorie. “Sei vivo, sei vivo. Oh, sei vivo.” Gli spremette le dita sulla maglietta, gli carezzò i capelli, la nuca, spinse la guancia su quella di America, umida e bruciante, e il suo sussurro si unì in un unico interessante sibilo. “Vivo, vivo, vivo...” Divenne un’invocazione. Una preghiera che appagò l’anima e dissetò la bocca. America era vivo.

“V-vivo?” Il corpo di America rabbrividì fra le sue braccia. “Ero...” La guancia si spostò, le labbra balbettarono un mormorio confuso. “Ero morto?”

Canada accostò la mano al petto e sospirò a lungo, svuotandosi di tutta l’angoscia che gli aveva stropicciato il cuore. Una volta rallentati i battiti e placato l’eco dell’ansia, tornò lucido. “Inghilterra.” Gli posò la mano sulla schiena. “Non stringerlo così forte. È ancora ferito.”

“F-ferito?” America spostò una spalla sotto la stretta di Inghilterra, si girò sul fianco. “Io sono...” Raggelò, fulminato da una scossa di dolore. “Ferito? Ma cosa...” Distese una gamba, muovendosi sul fianco opposto, e gemette di nuovo, arricciando le gambe al ventre. Strinse i denti e strizzò le palpebre, sbiancando. “Cos’ho fatto?” rantolò a fatica. “Cos’è successo?”

Inghilterra gli posò una mano sul petto e una dietro la schiena. “No, no, va tutto bene, non ti agitare.” Gli avvolse di nuovo la nuca per aiutarlo a stendersi senza che toccasse direttamente il cemento. Lo guardò dritto negli occhi, con la speranza di tenerlo lontano dalla visione che li attorniava. “Resta giù. Va tutto bene, non sta succedendo niente, sei al sicuro.”

Però non andava tutto bene, perché lì al porto la gente continuava a morire, le navi a sbriciolarsi, il mare a ribollire, e l’isola intera a bruciare.

“Canada,” lo chiamò Inghilterra. “Cerca aiuto. Dobbiamo portarlo all’ospedale, devono curarlo immediatamente.”

Canada si strinse nelle spalle, le sue guance tornarono pallide e i suoi occhi s’incavarono in un’ombra di paura. “Ce...” Trafitto dalle vibrazioni a raffica della contraerea ancora attiva, il suo cuore perse un battito. “Cercare aiuto?” Si guardò attorno. La coltre di fumo si divise, spalancò la visuale su Ford Island, sulle ombre delle navi incagliate nel Ten-Ten Dock, sulle imbarcazioni più piccole appena salpate per raggiungere la Nevada, e sui marinai che si davano il turno per issare le funi, gettare le scialuppe, e salvare i sopravvissuti. “Ma tutta l’isola ha bisogno di aiuto. Ci sono migliaia di uomini da soccorrere, e poi tutti i feriti, e quelli ancora intrappolati nelle navi, e gli ospedali saranno sovraffollati, non ci saranno nemmeno abbastanza medici per...”

“Lui ha la precedenza,” esclamò Inghilterra, rifiutandosi ancora di sciogliere l’abbraccio. “La sua vita è la prima a contare in una situazione del genere!”

“Dove siamo?”

Quella frase pronunciata da America colpì Inghilterra e Canada come se una bomba aerea fosse appena precipitata sulle loro teste.

Inghilterra e Canada si fissarono – occhi sbarrati, labbra ammutolite, un lieve cipiglio di stordimento a corrugare la fronte –, e spostarono quella stessa espressione su America. Forse si era davvero buscato qualche mazzata di troppo.

Gli occhi socchiusi di America guardarono in alto, grigi come quell’aria inquinata, e si tesero fino alle nubi senza riuscire a raggiungere l’azzurro del cielo coperto. La sua fronte si distese, una riga di sangue lacrimò dalle palpebre ferite. “Siamo, uh, sulla spiaggia?” Si poggiò su un gomito, resistette nonostante i continui tremori della spalla. Gonfiò i muscoli del petto, inspirò a fondo, contraendo i muscoli del ventre, e stropicciò la fronte. “C’è odore di mare.”

Inghilterra deglutì, trattenne il fiato anche lui e strizzò i pugni per placare i tremori, per non dar l’impressione di star perdendosi nel vortice di fumo nero. Compì uno sforzo disumano per restare freddo e lucido. “Va tutto bene.” Non riuscì a convincere nemmeno se stesso. Tornò ad abbracciare America, a proteggere entrambi, e fece di nuovo in modo da tenergli il capo coperto, così che non guardasse direttamente le fiamme, l’acqua nera, la bassissima coltre di nuvole plumbee, le navi martoriate, i cadaveri galleggianti. Si rivolse a Canada, rassicurò anche lui. “Va tutto bene, è normale che non se lo ricordi. È solo un meccanismo di autodifesa del suo corpo che altrimenti non reggerebbe un tale carico di dolore, tutto qui. Ma va tutto bene. Starà bene.”

Canada non riuscì a consolarsi. Per niente. Fu quella scintilla di terrore che aveva letto nello sguardo impallidito di Inghilterra a preoccuparlo maggiormente. “Come facciamo a portarlo in ospedale?”

“Le camionette militari,” rispose Inghilterra. E strofinò un’altra carezza fra i capelli di America. “Fermiamone una, ma che ci siano alla guida uomini armati che siano in grado di proteggerlo. Nessun altro dovrà avvicinarsi a lui, nemmeno i civili, e da lì...”

“Ti ho sognato.” America si appese a una manica di Inghilterra, senza nemmeno dargli il tempo di sconvolgersi davanti a quella rivelazione. Strinse più forte la mano, quella che prima era intrecciata alla presa di Canada. Nonostante il gonfiore delle ossa rotte e il dolore del polso slogato, compì un ulteriore sforzo per non separarsi. “Prima ti ho...” Un boccheggio trascinato gli fece battere i denti. “Quando noi due...” Tirò lentamente su lo sguardo, andò incontro al viso di Inghilterra. I suoi occhi erano allagati dal sangue. Eppure, lacrimando dalle palpebre gonfie come quelle di un pugile mandato al tappeto, rivelarono una consapevolezza nascosta, una lucidità più profonda. “Quando io e te ci siamo...”

Una scia di ricordi si srotolò fra di loro. Ricordi di tempi lontani, risalenti a un’altra guerra e un’altra epoca. Fucili di legno sormontati da vecchie baionette, cannoni caricati con polvere da sparo, frotte di giubbe rosse contro altrettante frotte di giubbe blu. Un bosco coronato dalla nebbia del diluvio, un addio straziato dalle lacrime, una bandiera bianca issata sulla fortezza di Yorktown, e una sagoma ormai distante che svaniva in mezzo alle ombre degli abeti.

Inghilterra si tenne stretto alla sua corazza difensiva. Stiamo davvero parlando dello stesso ricordo? Non un brivido a fargli vacillare lo sguardo, nemmeno un palpito a sciogliere la stretta attorno al cuore. Lo ha rivissuto anche lui? Posso davvero sperarci? Come se fosse possibile che America pensi ancora a...

America issò l’altro braccio che ciondolava sul cemento, lo fece scivolare sul grembo, e schiuse il pugno tremante e maculato da lividi. Delle briciole scure rotolarono dalle dita sporche di sangue e piovigginarono sulla banchina. Un pugno di terra, lievemente deformato dalla pressione delle falangi, come creta molle, gli giaceva sul palmo.

Inghilterra sbarrò le palpebre. “Te...” Corrugò un sopracciglio. “Terriccio?” Sovrappose la mano a quella di America, e lui gli passò il mucchietto di terra. Era scura e tiepida, umida, color cacao, puntellata da minuscoli sassolini bianchi. Inghilterra mosse le dita. Un singolo granello si separò dal mucchio e cadde sul cemento. Inghilterra guardò il pugno di terriccio con la stessa meraviglia e la stessa timidezza con cui si scruta un uccellino appena sgusciato fuori dall’uovo. “Ma come hai...” Mostrò la terra ad America, quasi implorandolo. “Da dove...”

America fissò il grumo di terra materializzatosi dentro il suo pugno, altrettanto spaesato. Anche lui rivolse a Inghilterra la stessa espressione che implorava una spiegazione. “È...”

Fu doloroso specchiarsi negli occhi di America, sfocati e arrossati dalla colata di sangue, ma Inghilterra sostenne lo sguardo. Capirono entrambi. Avevano rivissuto lo stesso passato, avevano respirato gli stessi ricordi, avevano sofferto schiacciati dallo stesso dolore che ancora si portavano sulla schiena dopo tutto quel tempo.

Inghilterra annuì. Raccolse la mano di America, formando un guscio attorno alla terra custodita nell’incavo del suo palmo, e non servirono altre parole. Tutto ciò di cui avevano bisogno era racchiuso lì, fra le loro dita. Batteva come un cuore, bruciava come un fuocherello, e avrebbe continuato a vivere per loro, finché quei ricordi avrebbero continuato a esistere.

Gli occhi di Canada si posarono sulle due mani giunte di America e Inghilterra, sulle briciole nere che sporcavano la pelle insanguinata, e sul breve tremore che si era propagato dalla loro stretta. Un tuffo al cuore lo fece sussultare. Il suo sguardo distante si appannò di una straziante malinconia che fece di nuovo fiorire qualche lacrima dietro il riflesso delle lenti.

Anche lui si ritrovò trasportato indietro, sotto il rossore di un tramonto frastagliato fra i promontori della vecchia Virginia. I galeoni britannici in partenza, le Giubbe Rosse in ritirata, l’ultimo abbraccio stretto attorno a Inghilterra, per raccogliere tutto quel dolore e quell’amore di cui lui non sarebbe mai stato protagonista. Il giorno in cui aveva definitivamente accettato la sua condizione di rimpiazzo. Il triste istante in cui aveva realizzato che lui non avrebbe mai contato per Inghilterra tanto quanto contava America, che non sarebbe mai stato all’altezza, che il suo futuro era destinato a celarsi dietro la sua ombra. E così sarebbe stato per sempre.

“I-io vado...” Canada compì uno sforzo, si alzò su un ginocchio, già guardando verso la corsa delle camionette, ma tenne le spalle basse per non immergere la testa nel fumo. “Vado a cercare aiuto.” Irrigidì i muscoli delle gambe per resistere alla sensazione del cemento che tremava sotto i suoi piedi. “Voi non vi muovete, è troppo pericoloso spostarsi a piedi. Dobbiamo...”

Un violento boato esplose nel cielo, sbriciolò il costante scoppiettio degli incendi e lo scrosciare delle onde di schiuma nera, e si materializzò in un altro stormo di pattuglia. Le larghe e basse ombre dei B-17 sorvolarono la banchina, valicarono i fumi che brulicavano sul Ten-Ten Dock, e si tuffarono su Ford Island.

America trasalì, alzò al cielo gli occhi pieni di sangue. “Cosa?” Ansimò e si coprì lo sguardo accecato dallo scuotersi degli incendi più vicini. “Ma sta...” Sgranò le palpebre. La patina dei ricordi sbiadì, gli occhi si illuminarono, risvegliandosi dal torpore di quel sogno, e lui tornò al presente, con mente e cuore dove doveva essere. “L’attacco!” Riaffiorò ogni cosa, travolgendolo come la furia di una valanga. “Oahu!” gridò. “Il porto! Siamo a Pearl Harbor!” Il suo volto rabbuiò. Un’ombra di rabbia s’infittì davanti alle immagini degli uomini che continuavano a venire ammassati sulla banchina, di quelli che sbracciavano dall’acqua, e di quelli che si arrampicavano sulle pance delle corazzate rovesciate.

Nel suo petto bruciò tutto il dolore che le sue navi avevano subito quando si erano legate a lui, quando gli respiravano fra le mani, e quando sputavano fuoco sotto i suoi comandi. Le stesse navi che ora invece rantolavano di dolore. Bestie ferite che sanguinavano nafta, da cui bruciava una coltre di fumo nero e appiccicoso. Le loro anime morenti assieme a tutti quegli uomini di cui America udiva le ultime grida d’aiuto e gli ultimi respiri d’agonia. E vi era un unico individuo responsabile di una simile catastrofe. “Giappone.”

Gli sguardi di Inghilterra e Canada volarono l’uno sull’altro. Canada si portò una mano alla bocca, Inghilterra ammutolì. Nessuno dei due seppe cosa aspettarsi.

America strappò la mano da quella di Inghilterra – il pugno di terriccio si spolverò fra di loro –, si liberò dalla sua stretta, cadde sulle ginocchia, si aggrappò alla spalla indolenzita, e pestò un piede a terra per alzarsi da solo.

“America, fermo.” Inghilterra allungò la mano per afferrargli il braccio e trattenerlo, ma le sue dita gli toccarono la spalla e tornarono indietro come se si fossero accostate a una fiamma rovente. Non era facile toccarlo con la consapevolezza di potergli fare del male anche solo sfiorandolo con le punte delle dita. “Non ti alzare, resta seduto, non puoi ancora...”

“Devo inseguirlo.”

“Co...” Inghilterra corrugò la fronte, allibito. “Cosa stai dicendo?”

“Devo inseguire Giappone.” America zoppicò sul piede poggiato a terra, cadde sul fianco, si trascinò in avanti con il gomito, avanzò anche con l’altra gamba, la caviglia si flesse sotto lo sforzo – chiaramente spezzata –, e le sue dita strinsero con più forza attorno al braccio che ciondolava a causa della spalla dislocata. Un lampo di dolore balenò attraverso gli occhi infiammati di frustrazione, ancora alti verso il cielo graffiato dalle punte degli incendi. “Non può...” La caduta non gli impedì di trascinarsi ancora di una ginocchiata. “Farla franca...” Di nuovo sollevò una gamba tremante. “Devo fargliela...” Un braccio aggrappato alla sporgenza dell’anca e l’altra mano chiusa a pugno sulla coscia. Spinse le spalle in avanti e recuperò un sorso di fiato arrochito. “Deve... pagare. Posso ancora...” Si strofinò il sudore dalla faccia con il braccio nudo, chiazzato da lividi. Il suo viso era nero di una rabbia che bruciava ancor più degli incendi specchiati nei suoi occhi. “Posso ancora combattere.”

“Non dire idiozie!” Inghilterra gli andò dietro e aprì le mani attorno alle sue spalle, senza toccarle. “Ascolta, non puoi prendere nessuna decisione, non adesso. Non sei lucido, sei ancora sotto shock, lascia che ti...”

“So quello che faccio!”

“America.” Li raggiunse anche Canada e, come Inghilterra, nemmeno lui osò alzare un dito su America. “Dai ascolto a Inghilterra. Ormai non si tratta più di combattere, ma solo di proteggerti.”

“La Enterprise e la Lexington sono tutte intere?” America nemmeno li ascoltò. “Sono ancora nel porto, sono qui, le ho viste sul pannello, ho fatto decollare i B-17, sono operative, non sono danneggiate.”

Inghilterra scosse il capo. “Questo non cambia nulla.”

“Lo cambia eccome!” Una disperata frenesia ruppe la voce di America, il respiro affrettato gli fece traballare la gola. “Ho gli aerei, ho i B-17, posso ancora inseguire gli Zero e i Nakajima di Giappone, posso raggiungere le sue portaerei, deve per forza essere arrivato qua con quelle. Posso ancora fermarlo.” Scrollò le mani insanguinate, ruotò i polsi slogati per far affluire i pizzichi di calore verso le punte delle dita ed evocare il pannello di comando. Molte delle falangi non riuscirono nemmeno a piegare le nocche, ingessate dal gonfiore sempre più prominente. “Posso ancora...” Davanti al suo sguardo, gli artigli di fuoco si arrampicarono lungo i laceri che avevano smembrato la corazza della Pennsylvania, divorarono i tralicci spezzati, e azzannarono la bandiera statunitense, sbriciolandola in un solo sventolio. “F-fare qualcosa. Posso...” Non si aprì nessun pannello. Le sue mani rimasero fredde e prive del formicolio di vita che avrebbe dovuto percepire legandosi ai respiri delle sue navi da guerra. Ma nessuna di loro respirava più, e tutto il loro dolore si riversava su America, dalla Nevada rimasta incagliata durante la fuga, alla Oklahoma che era già colata a picco sul fondale. “Io voglio...” America zoppicò di un ultimo passo in avanti, stampando impronte di sangue sul cemento. Si appese al fianco con entrambe le mani, accartocciandosi per il dolore. Sbatacchiò le palpebre, ma erano troppo pesanti per rimanere aperte. La luce sbiadì dai suoi occhi. Un fischio gli stridette nelle orecchie, risucchiando ogni suono circostante. Lo avvolse un caldo e pesante sudario di oscurità che lo trascinò verso il basso, succhiandogli ogni energia dal corpo. “Combat...” Svenne senza neanche accorgersene.

“America!” Inghilterra e Canada volarono ad acchiapparlo prima che potesse sbattere la testa sul cemento.

Anche al sicuro fra le loro braccia, lo stupido zuccone rifiutò di arrendersi, e gemette un rantolo di sofferenza, l’ultima resistenza prima di rovesciare il capo contro la spalla e di abbandonarsi al baratro in cui era caduto. Dell’altro sangue gocciolò dalle sue ferite – plic, plic, plic! – e si raccolse sotto di lui, allargando una chiazza rossa sulla banchina.

Il tocco di Canada scivolò lungo il fianco di America, per sorreggergli il torso, e incontrò una zona più umida e cedevole. Canada sollevò la mano e impallidì di colpo, scoprendola rossa, fradicia di sangue fresco. “Oh no,” ansimò con un filo di fiato. “Sta ancora sanguinando.”

Anche le mani e gli abiti di Inghilterra si bagnarono del sangue di quella stessa ferita ancora fresca.

La macchia rossa si allargò sul bianco della maglietta, diventando nera in prossimità del lacero che squarciava la stoffa, dove il sangue non smetteva di scorrere e di sbrodolare a terra. Non era una ferita da arma da fuoco, non era un’ustione consumata dagli incendi. Inghilterra riuscì a visualizzare la lama nemica che infilzava America, trapassandolo con la velocità di una saetta, e che veniva estratta spruzzando un forte getto di sangue.

Si sentì mancare. Anche lui avrebbe voluto lasciarsi crollare sul cemento e svenire, pur di non continuare a soffrire. “Cosa gli ha fatto...”

Li investì un’ondata di gas di scarico fatta stridere sotto gli pneumatici delle camionette appena rimesse in moto e sfrecciate verso l’uscita del porto, cariche di tutti i feriti da trasportare in ospedale. Gli uomini ormai non sembravano nemmeno accorgersi di loro tre. Costretti nella loro immobilità, raccolti attorno al corpo esanime di America, Inghilterra e Canada divennero semplici ombre in mezzo al fumo, pezzi indistinti dello stesso sfondo.

Inghilterra si bagnò le labbra che sapevano di ferro. “Va’ a cercare aiuto.”

Canada sobbalzò, ancora ipnotizzato dalla vista della mano insanguinata, e gli rivolse uno sguardo allucinato dalla paura.

Inghilterra tornò a stringere il corpo di America, ma senza più rovesciargli alcun pianto sul petto. I suoi occhi alti, animati da una fiamma crudele e protettiva, lo sguardo della mamma-orsa che si erge sulle zampe posteriori e che ruggisce sul nemico pur di non farlo avvicinare. “Mobilita tutti i rimorchiatori, tutte le navi ambulanza, ogni imbarcazione che sia ancora in grado di navigare, persino quelle a remi. Ordina a qualsiasi uomo ancora in grado di reggersi sulle proprie gambe di recuperare tutti i sopravvissuti. Bisogna tirarli fuori dall’acqua prima che affoghino o prima che muoiano soffocati dalle fiamme.”

Canada si girò, andò in cerca dell’altra sponda, degli edifici lontani che di solito sorgevano dalla vicinanza con Pearl City, delle strade che si districavano dal porto e che conducevano a Honolulu. “E...” Non vide nulla, se non la spira di fumo in cui erano intrappolati. “E gli ospedali?” osò domandare. “Come facciamo a organizzarli? Sicuramente tutte le linee telefoniche saranno saltate. Sarà impossibile gestire le ambulanze, i posti letto, e non ci sono nemmeno abbastanza medici per occuparsi di tutti... di tutti questi uomini.”

“Dichiariamo lo stato d’emergenza,” rispose Inghilterra, senza esitazione. “Chiudiamo locali, ristoranti, empori e negozi. Tutte le scorte di cibo e medicinali andranno solo agli ospedali e ai rifugi militari. Mettiamo tutta l’isola sotto legge marziale.” Spostò su Canada quello stesso sguardo che aveva tenuto alto davanti al fuoco. “È un ordine.”

Canada si strinse nelle spalle e si sentì rimpicciolire davanti alla terrificante espressione di Inghilterra, addensata dall’oscurità delle nuvole nere e dal costante dimenarsi delle fiamme la cui luce rossa si specchiava sul suo viso. Inghilterra si era levato la maschera ed era diventato tutto quello che aveva cercato di tenere nascosto a lui e ad America mentre crescevano. Fece una figura ben diversa rispetto all’individuo che solo la sera prima si era avventurato con Canada per le stradine turistiche di Honolulu, premurandosi di lasciargli finire la sua cena, offrendogli i succhi di frutta che gli avevano fatto tanta gola, e addormentandosi di schianto sul bancone del bar, steso da un Jack Daniel’s di troppo.

Canada seppe di non avere alcun potere davanti a lui. “S-sì...” Annuì. Nonostante la paura, seppe che di Inghilterra poteva ancora fidarsi. E si sarebbe fidato. “Sissignore.” Si ripulì le mani sulla giacca. Compì un paio di passetti incerti e tremolanti, si girò a guardare un’ultima volta le braccia di Inghilterra strette attorno ad America, e corse via, seguendo le nere tracce di pneumatici strusciate dalle camionette, senza sapere dove lo avrebbero condotto.

Corse rapido come quando si era trovato da solo all’Hickam Field, quando anche lui aveva combattuto, quando si era protetto assieme agli altri uomini, quando gli aerei giapponesi gli erano sfrecciati sopra la testa, quando le vampate delle esplosioni lo avevano colpito alla schiena, facendolo cadere sul cemento e schiacciandolo sotto i ruggiti del cielo.

Giappone alla fine ha attaccato.

Quella realizzazione fu dolorosa e improvvisa proprio come una legnata alla testa.

Ha attaccato America.

Era un pensiero così assurdo da metabolizzare, e Canada faceva ancora fatica ad accettarlo, a immaginarne le conseguenze. Lo appesantiva come il fiatone salito a graffiargli la gola, gli annebbiava la testa come il fumo che stava attraversando di corsa.

Cosa succederà, adesso? Ci sarà la dichiarazione di guerra? E dopo? Quanti altri attacchi ci saranno? Dove si sposteranno le battaglie? America ha fatto di tutto per evitare di aprire un ennesimo fronte, oltre a quelli che già si stanno consumando in Europa e in Africa. Povero America. Perché gli è dovuto succedere? Proprio lui che ha sempre incoraggiato il suo popolo a ripudiare l’idea del conflitto e a sforzarsi di mantenere la pace. America...

Il corpo distrutto, il sangue sul viso, la mano gonfia di lividi che si separava da quella di Canada per andare a unirsi a quella di Inghilterra, per aggrapparsi all’unico vero sostegno di cui aveva bisogno. Il pugno di terra materializzatosi fra i loro palmi, sbriciolato dalle loro dita giunte. Quello sguardo così profondo nel quale si erano isolati, circondati da un ricordo che apparteneva solo a loro due.

Prima che America rinvenisse, Inghilterra lo aveva tenuto stretto, aveva pianto evocando il suo nome fra i singhiozzi di disperazione e i mormorii di supplica. “America... America...” Il suo nome era diventato una preghiera, una penitenza, e un’ossessione.

Inghilterra aveva sofferto allo stesso modo anche al termine della Guerra d’Indipendenza, quando si era aggrappato a Canada, quando non aveva nessun altro da cui lasciarsi sorreggere per non crollare. Anche in quell’occasione Canada si era assunto il ruolo di rimpiazzo. Aveva resistito, e doveva resistere anche ora, nonostante il battito di dolore a martellargli il petto e nonostante il peso delle lacrime sempre più gonfio e caldo a traballargli fra le palpebre.

America dovrà essere forte, ma dovrò esserlo anch’io. Non posso permettermi di essere egoista, non ora che è America quello ad avere bisogno di tutto il sostegno che siamo in grado di dargli. È lui quello in pericolo. È lui. Solo lui.

Però faceva male e, nonostante ciò, Canada continuò a correre. Strofinò le dita sotto una lente, si morsicò il labbro succhiando indietro il sapore salato di una singola lacrima scesa a toccargli l’angolo della bocca, e non osò fermarsi.

Anche il suo dolore era reale. Era reale, eppure non era legittimo. E nessuno sarebbe corso ad alleviarlo.

 

♦♦♦

 

7 dicembre 1941

Largo delle Isole Hawaii

Bordo della Portaerei Akagi

 

Due fredde ali di corrente accompagnarono la discesa di Giappone e lo depositarono sul ponte di decollo della portaerei Akagi. Giappone aprì le braccia per guadagnare equilibrio durante la discesa, tese le punte dei piedi e raggiunse il duro della pista, rimbalzando giù dal cielo.

Lo stormo di Zero gli ronzò sopra la testa, le ombre dei caccia lo sommersero, e la risacca d’aria risucchiata dal loro volo gli sfrecciò attraverso, facendogli dondolare le spalle.

Giappone dovette chiudere gli occhi, inspirare a fondo e irrigidire i muscoli delle braccia. Fu strano riuscire a poggiare le piante dei piedi su una superficie piatta e solida, invece che affondare i passi nella consistenza più frammentata e molleggiante delle nuvole. I polpacci bruciarono, appesantendosi come le spalle. I suoi capelli corvini, scossi dal vento e dalla sfrecciata degli aerei, sbatacchiarono sugli occhi, costringendolo ad affondare una mano fra le ciocche e a pettinarli in disparte. Giappone respirò ancora, e fu la prima sorsata d’aria che non appartenesse al porto in fiamme o al cielo aperto. Le labbra fredde e grigie, la punta del naso intorpidita, le orecchie doloranti, e il bruciore del fumo a pizzicargli gli zigomi.

Sul ponte della Akagi si riversò la corsa dei marinai e dei piloti giunti dalla prima ondata, di tutti gli uomini che formavano l’equipaggio della portaerei. Le hachimaki a sventolare fra le loro mani, ampi sorrisi di vittoria a rallegrare i loro volti, le loro grida d’esultanza ancor più acute dei ronzii delle eliche.

Tora! Tora!

Omedetou!

Omedetou gozaimasu!

Gli ultimi aerei del secondo stormo atterrarono, compirono qualche rimbalzo di assestamento, rallentarono coprendo la lunghezza della pista, risucchiarono la corrente facendo sventolare i colori delle bandierine nautiche. Non ebbero nemmeno il tempo di allinearsi e di spegnere i motori, che furono subito raggiunti dalla corsa degli altri piloti rimasti sul pontile di lancio. I compagni con ancora indosso le vesti da volo, le sciarpe bianche attorno al collo e gli occhialoni allacciati alla fronte, si arrampicarono sugli aerei ancor prima dello spegnimento delle eliche. Si aggrapparono alle spalle dei piloti, condivisero abbracci avidi, batterono energiche pacche sulla schiena e sul capo, e giunsero le fronti, facendo combaciare il Sol Levante delle hachimaki.

Qualcuno stava già distribuendo il sakè caldo. I piloti ancora rannicchiati nelle cabine sorseggiarono i primi brindisi. Espressioni estatiche sciolsero la tensione dei volti ancora nascosti dagli occhialoni. Alcuni fra loro levarono le tazzine al cielo, onorando la protezione che era stata concessa dalla provvidenza divina, e succhiarono il liquore tutto d’un fiato.

Giappone arrestò il passo, tenendosi distante dalle file di caccia-bombardieri allineati sul ponte di lancio, e si isolò da quella colorata tempesta di entusiasmo, senza riuscire a sentirsi partecipe. L’esultanza della vittoria gli corse attraverso, fu acqua spanta sulla lucida superficie di un vetro, e non lasciò alcuna traccia. Nonostante il piano fosse concluso e riuscito, non c’era nessuna ragione per festeggiare.

I postumi della battaglia emersero – scogli sporchi e appuntiti che sbucano dopo il ritiro della marea –, dandogli l’impressione di essere ancora sballottato dalle correnti d’aria o di trovarsi in bilico al di sopra degli strati di nuvole. Il vento gli aveva graffiato la pelle, e sfregi sottili come unghiate color sangue gli solcavano le guance. Gli occhi bruciavano, dopo essere stati schiaffeggiati dall’aria attraverso cui aveva corso e combattuto. I muscoli stavano cedendo tensione e pesavano. Le ossa cominciavano a irrigidirsi, gambe e braccia gli dolevano anche solo provando a flettere un indice o a compiere un passo più ampio. Le mani formicolavano, il calore si stava disperdendo. Sui palmi era ancora deposta la sensazione di star stringendo la furia pungolante degli Zero e quella più esplosiva dei Nakajima, le anime di quegli aerei che ancora ruggivano in fondo al suo petto.

Ci sono riuscito. Giappone serrò i pugni e si aggrappò alla sicurezza di quella realtà – la solidità del ponte, la stabilità della Akagi, le voci dei piloti – che nessuno poté strappargli dalle mani. Ho portato a termine l’attacco. La missione è conclusa.

Lo punse un altro piccolo corpo di dolore che pulsò all’altezza del viso, sullo zigomo sinistro. Un dolore insignificante se paragonato alla rete di tensione stritolata attorno al suo corpo affaticato.

Però...

Però era il dolore che più di tutti lo tormentava.

Giappone si toccò il gonfiore sulla guancia sinistra, incontrò il livido stampato dal pugno rifilato dalla furia di America.

America.

Il viso di America illuminato dall’esplosione dello Zero schiantatosi sul ponte dell’incrociatore, la sua espressione di sgomento straziata dal dolore di quell’attacco suicida, la fronte che si era corrugata, e gli occhi che erano diventati rossi come la bolla di fuoco che aveva disintegrato il caccia appena distrutto. Il suo pugno rigonfio, la singola falcata di corsa con cui aveva rovesciato il braccio dietro la spalla e aveva scagliato il lampo di quel cazzotto sulla faccia di Giappone, ribaltandogli la testa.

Non ti perdonerò mai per quello che hai fatto!”

Nonostante l’iniziale stupore, davanti a quel gesto così impulsivo e sanguigno – così americano –, quello era stato l’unico momento in cui Giappone si era ritrovato a tremare di paura davanti alla rabbia di America, all’energia distruttiva turbinata attorno al volo dei suoi caccia-bombardieri.

Veloci proprio come onde che si accavallano l’una sull’altra, emersero altri ricordi di America. I primi sguardi che aveva rivolto a Giappone quando si erano fronteggiati nel cielo della battaglia. Un’espressione delusa dal tradimento. L’innocente e ingenuo visetto di un ragazzino che viene colpito da una sberla data di spalle, nella parte scoperta della nuca, dove fa più male. Si erano trovati uno di fronte all’altro dopo le prime esplosioni, dopo i primi colpi di artiglieria spremuti dai pugni di America, dopo il decollo dei suoi B-17, dopo l’inseguimento aereo, ma anche prima dell’ultimo colpo letale con cui Giappone lo aveva scaraventato giù dal cielo.

Lui e America, vicini come non mai. Le fronti accostate, i respiri sospesi fra le loro labbra, gli occhi azzurri di America specchiati in quelli rossi di Giappone. Il crudele riflesso color sangue che era sbiadito, lacrimato dalla superficie nera e levigata delle sue iridi tornate di un lucido color inchiostro. Il suo respiro si era tramutato in un lamento d’aiuto e in un’invocazione di perdono.

Salvami.”

Poi però aveva stretto le mani sull’impugnatura della katana e aveva affondato la lama nelle carni di America, senza neanche un brivido d’esitazione.

Ridicolo.

Giappone scosse il capo. Strinse entrambe le mani sulle tempie, massaggiò la tensione che gli pungeva il cranio, sciolse la spirale di confusione in cui si mescolavano quelle immagini così discordanti: le sue dita bianche che avvolgevano il viso di America, le mani d’ombra che guidavano l’affondo della katana, gli occhi di sangue che lo annientavano, e quelli neri e tristi, di nuovo vulnerabili, che gli chiedevano aiuto.

Non mi abbasserei mai a prostrarmi in quella maniera davanti a uno come America.

Non era reale. Non era successo. Si trattava solo di un tentativo di difesa della sua psiche, il desiderio di staccarsi dal corpo di dolore che aveva comandato l’attacco e che ora ne portava il peso. Di questo doveva convincersi.

Da cosa dovrebbe salvarmi, poi? E perché dovrebbe essere proprio America a farlo? Io ho già degli alleati a cui affidarmi. America è solo un mio nemico.

Inspirò a fondo, batté le palpebre, e si tolse dalla testa l’immagine di America, si sbarazzò del suo ricordo nella stessa brutale maniera con cui lo aveva calciato giù dal cielo.

E tale rimarrà.

Falcate frettolose, ma non in corsa, percorsero il ponte di lancio della Akagi e gli vennero incontro. Si materializzarono nella bianca figura dello stesso ammiraglio che gli era stato vicino durante tutta la navigazione e i lanci degli stormi. “Signore!” L’ammiraglio si tolse il berretto. Non sorrideva, ma la sua espressione era raggiante, nonostante fosse segnata dalle rughe di stanchezza e dalle bronzee bruciature del sole che batteva sulle acque dell’oceano aperto. “Il secondo stormo è tornato, signore.”

Alle sue spalle, piloti e marinai continuavano a festeggiare. Alcuni dei piloti riuscirono finalmente a smontare dalle cabine dei loro caccia, si sbottonarono le giacche felpate, si sfilarono gli occhialoni dalla faccia, e si lasciarono sorreggere dai compagni che allacciarono le braccia attorno alle loro spalle, ridendo e versando fiumi di sakè nelle tazzine di ceramica.

“Anche dalle altre portaerei ci confermano il rientro delle unità,” disse ancora l’ammiraglio. “Il piano è riuscito, signore.” Le grigie sopracciglia compirono un guizzo. Un velo di oscurità calò fra le fessure delle palpebre assottigliate. “Un’esecuzione impeccabile.”

Ma il volto di Giappone rimase immobile, impassibile come una maschera. Nemmeno un palpito di gioia o di sollievo ad ammorbidirgli il cuore o ad alleggerirgli l’animo. Sapeva che non si trattava di un’esecuzione impeccabile. Tutt’altro. “Quante vittime?” domandò. Gli occhi distanti, rivolti alla sconfinata distesa d’acqua color piombo. “Quanti aerei abbiamo perso?”

“Ecco...” L’ammiraglio tornò a indossare il copricapo. Strinse un pugno davanti alla bocca e tossicchiò. “Per ora ne abbiamo contati ventinove, signore. Quindici bombardieri, cinque aerosiluranti, e nove caccia. Ma si tratta di una cifra irrisoria rispetto ai danni inferti alla base americana.”

Un altro respiro profondo da parte di Giappone. “Sì.” Giappone diede le spalle all’uomo, distese un braccio lungo il fianco, stiracchiò le dita, mosse le punte per stimolare la circolazione del sangue. “Irrisoria.” Per un’ultima volta – fintanto che la distanza glielo permetteva – tese la mano volgendo il palmo verso il basso, spianò l’aria davanti a sé, e spalancò la planimetria luminosa del campo di battaglia diviso in sezioni.

Il pannello era impazzito. Non vi era un singolo quadrante in cui non stesse lampeggiando l’allarme rosso. La luce era tanto forte che Giappone non riuscì a distinguere i confini di Oahu, o a leggere le insegne che avrebbero dovuto identificare Honolulu, Pearl City, Kakuhu Point, o i nomi delle basi aeree.

Giappone indirizzò il tocco sulla zona dell’Hickam Field, allargò l’inquadratura su Ford Island attorno a cui giaceva la gran parte delle navi bersagliate dalle sue bombe. Ne sfiorò qualcuna, accese il secondo pannello che corse davanti ai suoi occhi in un infinito elenco di disgrazie.

 

 

Nave da battaglia USS Arizona BB-39. Danni sulla Torre IV e sul ponte di prua. Torri anteriori e torri di comando collassate. Registrato scoppio della santabarbara ed esplosione sul ponte. Incendi in corso.

 

Nave da battaglia USS Oklahoma BB-37. Nave capovolta, incagliata sul fondale. Allagamento in corso.

 

Nave da battaglia USS Nevada BB-36. Incendio in corso sulla Torretta I. Ciminiera distrutta, ponte di comando distrutto, allagamento in corso. Nave incagliata.

 

Nave da battaglia USS Pennsylvania BB-38. Colpita postazione di dritta. Danni al castello di prua. Allagamento in corso.

 

Incrociatore leggero USS Raleigh CL-7. Colpito a centro nave, danni a...

 

La lista proseguiva, fin troppo fitta e rapida per riuscire a leggere i danni relativi a ogni imbarcazione. La quantità e la mole erano notevoli, ma non impressionarono Giappone, perché non erano ciò che davvero gli interessava. I danni elencati appartenevano a corazzate, navi da guerra, incrociatori, persino qualche rimorchiatore. Tutte navi potenti, di grande valore, eppure nessuna che contava quanto avrebbe dovuto.

Irrisoria. Giappone si morsicò il labbro tremolante, gelido e salato come l’acqua che aveva attraversato, e crogiolò, vittima del suono di quella parola che gli lasciò l’amaro in bocca. Sarebbe una cifra irrisoria se non si considerassero quelli che erano i veri obiettivi dell’attacco.

Giunse i polpastrelli, tornò a spalancare il quadro di Oahu nella sua interezza, spostò le punte delle dita verso due imbarcazioni esterne all’isola, lontane dai lampeggi degli allarmi. Le toccò entrambe.

 

 

USS Enterprise CV-6

USS Lexington CV-2

 

 

Le due portaerei erano incolumi, non registravano nessun danno.

Il colore rosso degli allarmi riempì gli occhi di Giappone, li colmò di una frustrazione fiammeggiante che lui sentì bruciare ancor più del livido stampato sulla guancia. Obiettivi che ormai non mi è più permesso danneggiare perché non ho più il beneficio dell’attacco a sorpresa.

“Signore, dobbiamo...” L’ammiraglio distolse lo sguardo dai piloti travolti dai festeggiamenti, aggiustò il bavero dell’uniforme, giunse le mani dietro la schiena, e interrogò Giappone con una cauta e discreta alzata di sopracciglio. “Dobbiamo forse organizzare anche una terza ondata, signore? Si ricorda, durante le esercitazioni lo avevamo già preso in considerazione, e abbiamo sia il tempo sia i mezzi necessari, quindi è più che fattibile. Per assicurarci di aver demolito i loro depositi di nafta, soprattutto, e togliere loro vantaggio per...” Una scintilla di complicità brillò nelle profondità delle sue iridi grigie. “Per tutto quello seguirà.”

Al suono di quella sentenza, Giappone batté le palpebre ed esitò, sentendosi gelare all’altezza delle guance, dove solo un istante prima il bruciore gli stava consumando la pelle.

Una terza ondata.

Spostò lo sguardo sul pannello ancora aperto, su quei lampeggi rossi che vedeva solo lui.

Tornare a Oahu.

Una perla di sudore gli rigò la tempia, scomparve fra i capelli corvini sventolati dalla corrente. Un brivido s’infoiò sotto gli abiti e gli accapponò la pelle.

Tornare ad affrontare America?

Un lampo brevissimo gli attraversò lo sguardo. Il lacero argentato con cui aveva trapassato America, i suoi occhi feriti che si erano spalancati dopo aver incassato il colpo, lo spruzzo del suo sangue, e il suo corpo che cadeva all’indietro.

Rivivere quello stesso istante, fronteggiare America con lo stesso sguardo con cui lo aveva ferito a morte. Forse essere costretto ad afferrarlo e a sollevarlo di peso da terra, costringendolo a incassare la furia dei suoi bombardieri per la terza volta, guardandolo in viso senza alcuna vergogna e infierendo senza rimorso e senza esitazione. Sapeva di non esserne capace. Le energie ormai lo stavano abbandonando, le sue mani si erano fatte troppo pesanti per riuscire a sorreggere le anime degli aerei, le gambe erano stanche, il respiro troppo faticoso da cadenzare, e il suo cuore era esausto, batteva dolorante e desisteva davanti alla prospettiva del terzo attacco, straziato da tutto il male che lui stesso aveva compiuto. Una parte di Giappone si ribellava al pensiero di doversi ripresentare sui cieli di Pearl Harbor, di sporgersi dallo strato di nuvole plumbee, di respirarne i fumi tossici, e di ripararsi la vista davanti alla luce delle fiamme che avrebbero continuato a bruciare per giorni, consumando il ferro delle navi e carbonizzando i cadaveri degli uomini che già ora galleggiavano nella rada. Ma non era quella la parte di lui che lottava per prevalere.

Digli di sì.” L’ombra era separata dal suo corpo, dalla sua coscienza, ma la sua voce fu ben più insistente di quella dell’ammiraglio. “Digli che ne sei in grado.” Il suo tono spazzò via ogni rimorso, cancellò l’immagine del porto in fiamme, delle maschere di dolore deformate sui volti degli uomini in balia delle onde nere e delle lingue di fuoco, calciò via la pietà provata per America allo stesso modo in cui aveva scaraventato il suo corpo giù dal cielo. La presenza oscura aleggiò alle spalle di Giappone, più fredda del vento su cui aveva camminato ad alta quota, lo avvolse in un drappo di gelo che spense il chiarore del giorno e il calore del sole tropicale. Accostò all’orecchio di Giappone un basso e sottile ringhio d’incitamento. “Non far spostare le portaerei, non prendere ancora il largo. Riempi i serbatoi dei bombardieri e riparti, torna a Oahu e termina il lavoro.” Strinse i denti. “Fallo.”

Giappone serrò i pugni, le braccia inchiodate ai fianchi, e irrigidì. “N...” Voltò il capo per separarsi dal freddo della sua guancia. Inspirò a fondo, gonfiò il petto su cui insisteva la pressione delle braccia d’ombra, strinse le palpebre, stropicciò la fronte sudata, e spezzò un breve guaito fra le labbra tremanti. “No.” Quel gemito gli costò ancor più fatica rispetto a guidare gli stormi di bombardieri. Non seppe nemmeno lui a chi lo avesse rivolto: se all’ammiraglio, se all’ombra, o se a se stesso.

L’ammiraglio infatti gli scoccò un’occhiata spaesata. “Signore?”

Giappone sollevò una spalla, ne sciolse la tensione, cadenzò il respiro per liberarsi della pressione che insisteva sul petto, e compì un passo distante dal corpo di ombra e gelo che voleva tenerlo prigioniero. “No,” ripeté con maggior sicurezza. “Sarebbe futile insistere con una terza ondata.” Schiuse un pugno, diede un taglio netto all’aria per scomporre il pannello di comando – non gli sarebbe più servito –, e utilizzò la stessa mano per strofinarsi la curva del collo, il punto dove il respiro freddo e umido lo aveva pizzicato, depositando una scia di brividi sul fragile biancore della sua pelle. “L’isola ormai è in stato di emergenza, i nostri aerei non volerebbero più su un cielo sgombero, e i piloti non sarebbero in grado di accumulare più danni di quanti ne riceverebbero. In quanto ai serbatoi di nafta: le scorte più ingenti sono sicuramente interrate, al di fuori della nostra portata. Non abbiamo comunque il potere di bombardarle.”

L’ammiraglio corrugò la fronte, non nascose un fremito d’indecisione. “Dunque...” Calò la frontiera del copricapo e rivolse un’ultima occhiata dietro di sé, ai piloti che stavano cominciando a spegnere i motori e i ronzii delle eliche. “Questo significa che possiamo...”

Giappone annuì. Sfilò la mano dal collo, smettendo di massaggiarsi. “Il Piano Z è concluso,” dichiarò, senza alcuna possibilità di replica. “Invertite la rotta.” Si girò di profilo e guardò l’ammiraglio da sopra la spalla. Le corte ciocche di capelli a sventolare sulla guancia arrossata dal pugno di America. Fu uno sguardo più lucido e consapevole, pienamente responsabile delle sue decisioni. “E soprattutto preparatevi ad affrontare ogni conseguenza che ne deriverà.” Sapevano entrambi a quali conseguenze si stesse riferendo – l’invasione delle altre basi navali disseminate nel Pacifico, l’occupazione di Hong Kong, di Singapore, dell’Indocina Francese, della Malesia, del Borneo, del Siam, e l’ufficiale dichiarazione di guerra alle Forze Alleate. Ma c’era tempo. E loro si trovavano ancora nel bel mezzo dell’oceano, probabilmente braccati dai caccia e dalle portaerei di America. Non potevano ancora permettersi di abbassare la guardia.

L’ammiraglio batté il saluto e si congedò.

Silenzio e solitudine si strinsero attorno a Giappone che rimase in compagnia della larga distesa del Pacifico che si rovesciava all’orizzonte, dove l’azzurro metallico delle sue onde si fondeva al blu più limpido e vibrante del cielo di primo pomeriggio su cui il sole pendeva come un faro. Quella visione di luce non durò a lungo. I raggi del sole tornarono a spegnersi, il cielo si tinse di grigio, le profondità dell’oceano s’incupirono, e un vento tagliente gli soffiò dietro l’orecchio.

Perché ti sei tirato indietro?”

Giappone voltò la guancia. Si rifiutò di guardarlo direttamente negli occhi, non voleva finire nuovamente ipnotizzato dalle tentatrici sfumature color sangue delle sue iridi.

Di nuovo il tocco dell’ombra gli scivolò lungo il collo, s’infilò attorno alla spalla, gli graffiò la scapola come un gelido rigagnolo di pioggia che riesce ad attraversare la stoffa degli abiti. “Perché gli hai detto di no, quando ti ha proposto di decollare di nuovo? Hai mezzi ed energie sufficienti per gestire una terza ondata, non avresti corso alcun pericolo.” La furbizia dell’ombra gli scavò dentro senza dargli tregua, affondando il tocco fin nell’angolo più nascosto della sua coscienza. “A me non puoi nasconderlo.”

Giappone non cedette a quel brivido. Schiacciò i pugni e si tenne stretto al suo controllo, alla sua individualità e alla sua volontà. Non voleva tornare ad affrontare America, e non sarebbe successo. Non mentre si sentiva ancora così esposto e vulnerabile. “Non ho mentito,” gli disse con tono fermo. “Penso sul serio che sia inutilmente rischioso. Non solo per lo stato d’allerta che ormai vige su tutta l’isola, ma anche per l’arrivo della Lexington e della Enterprise.”

Invece è proprio per questo che un terzo attacco sarebbe il vero e proprio colpo di grazia in grado di garantirti una maggiore stabilità sul futuro assetto di guerra.” La mano gli scivolò sulla guancia – la stessa guancia che America aveva colpito – e vi depositò un’impronta di ghiaccio. “Hai finalmente le portaerei a portata di mano. Puoi danneggiarle come hai fatto con tutte le altre navi.”

“No.” Giappone si scansò, rifiutò l’appoggio, e passeggiò lungo il ponte di lancio della Akagi. “Avrei potuto farlo se fossero state presenti durante la prima ondata. Ormai è troppo tardi. Una portaerei pronta a difendersi è un bersaglio impossibile da attaccare e da abbattere, sarebbe come scagliarsi su un castello circondato da bocche di cannone.”

Perciò preferisci ritrovarti ad affrontare quelle stesse portaerei in uno scontro in oceano aperto, quando America avrà riguadagnato le forze e avrà a disposizione le armi più potenti di tutto il Pacifico?”

Giappone arrestò il passo. L’immagine che gli attraversò la mente fu un doloroso e soffocante pugno nello stomaco, anziché sul viso: America alla guida delle sue portaerei, sciami di bombardieri che decollavano sotto il comando delle sue mani e che scaricavano una grandine di siluri sulla flotta di Giappone.

Giappone si allontanò da quella visione che non si sentiva ancora in grado di fronteggiare. “Il ricovero di America...” Camminò con più naturalezza, senza il peso del dubbio a fargli trascinare i piedi o a spingere pressione sul petto. “Sarà tutt’altro che semplice. O scontato.” Fu un’altra immagine a infondergli sicurezza. Il momento in cui aveva trafitto America, quando aveva percepito il suo ultimo spasmo di vita vibrargli fra le mani, attraverso la lama della katana sporca del suo sangue appena versato. “Sarà impossibile per lui combattere immediatamente nel pieno delle forze,” disse ancora Giappone. “E intanto noi avremo già occupato le principali basi nel Pacifico, accentuando il potere d’accerchiamento e scoraggiando ogni sua reazione.”

America non è tipo da scoraggiarsi,” lo contraddisse l’ombra. “Soprattutto se provocato.”

“Corretto. Ma io sono comunque sicuro di riuscire a piegarlo. Se non è accaduto oggi, accadrà un poco alla volta.” Giappone accettò di farsi circondare dall’oscura vicinanza dell’ombra, accolse il suo peso nel cuore, lasciò che un crudele riflesso di sangue gli bagnasse le iridi. “Accadrà fino a che America non troverà più né la forza né il motivo di risollevarsi da terra, fino a che anche lui non si dimenticherà il motivo per il quale sta combattendo. E il motivo per il quale dovrebbe valere la pena continuare a lottare.” Perché se io non riesco a governare la mia forza senza perdermi nell’oscurità della vanagloria, se io non riesco a mantenere il controllo di me stesso, se non posso fare altro che barattare la mia umanità con le mie vittorie, allora nemmeno America dovrà riuscirci.

L’ombra non sembrò accorgersi del fondo di gelosia che bruciava attraverso i suoi pensieri. Apparve compiaciuta. Ed era l’unica conquista che contava. “Temevo che combattere contro quel bonaccione di America ti avrebbe impietosito.” Una virgola di sorriso gli incurvò le labbra. “Temevo avresti esitato davanti a lui.” Rimanendo alle spalle di Giappone, gli fece scivolare il tocco di nuovo lungo la guancia, depositando una scia di brividi sulla pelle intorpidita. “E invece affrontarlo in una vera battaglia ti ha rafforzato. Ne sono sollevato.”

Giappone si morse il labbro e contenne un sussulto, raggelato da quel contatto. Ma questa volta non si ribellò, non si sottrasse. “Anch’io.” Cedette. Reclinò il capo, si appoggiò al freddo peso dell’ombra che gli aveva avvolto la guancia, e vi si abbandonò. Il suo respiro si liberò da ogni tensione, il suo cuore riposò e si sentì al sicuro, protetto nella densa oscurità di quell’abbraccio. “Anche io mi sento più sollevato.”

Rimasero isolati, lontani dalle schiere di caccia-bombardieri, dalle voci dei piloti presi dai festeggiamenti. Si affacciarono al mare. Gli sguardi rivolti al sole di primo pomeriggio che si era fatto ancora più alto, luminoso e solenne come un occhio onnipotente. Il mattino giungeva al termine. E un paio d’ore di questa giornata sono bastate a capovolgere le sorti e il futuro di due Paesi, anzi, del mondo intero, meditò Giappone. La guerra è davvero la più potente forza che sia mai esistita. Ecco perché né gli uomini né noi nazioni smetteremo mai di alimentarne il flusso.

Il freddo tocco dell’ombra si mosse lungo la guancia di Giappone, gli fece correre le dita fra i capelli, gli coprì un occhio. “Come pensi che reagirà Germania, quando lo verrà a sapere?”

Giappone ebbe uno scatto, un rimbalzo del cuore. La sua vista rabbuiò, il braccio destro si appesantì, tirato da una forza che insisteva attorno al polso. Giappone raggiunse la croce di ferro allacciata sotto la manica della giacca, la strinse contro il palmo, e vi si appoggiò come poco prima si era appoggiato al tocco dell’ombra. Quel singhiozzo di timore durò solo un brevissimo e insignificante istante. “Sono certo che comprenderà le più profonde intenzioni che mi hanno spinto a scatenare questo attacco.” Rigirò la croce, si pungolò con le estremità dei suoi bracci, fece tintinnare le unghie sul ferro. “Germania è animato dal mio stesso spirito di affermazione e di conquista, dopotutto. Ed è mio alleato. Se avessi timore di affrontare persino un mio alleato, non sarei degno di riconoscermi nemmeno come avversario di America.”

La guerra che tu e Germania state affrontando non è la stessa.”

“Su carta, sui confini geografici. Ma dentro di noi non fa alcuna differenza.” Giappone parlava sinceramente mentre guardava la distesa dell’oceano, mentre era affacciato a quella distanza che divideva lui e Germania ma che allo stesso tempo non separava la natura delle loro anime, la forza del loro patto. “So che Germania mi capirà. Mi fido del suo acume, mi fido del suo istinto.”

Anche se la sua guerra contro Russia non si è ancora conclusa? ribatté l’ombra. Il tuo patto di neutralità non ti proteggerà più se qualcosa in Unione Sovietica dovesse andare storto.”

Giappone scosse il capo. “Germania non avrebbe mai cominciato una guerra che sa di non essere in grado di concludere. Prevarrà in Unione Sovietica come ha prevalso in Polonia, in Francia, in Scandinavia, e nel Peloponneso. Io ho solo anticipato il suo tempismo.”

E lo hai fatto egregiamente.” Il tocco dell’ombra gli avvolse anche l’altra guancia, tornò a passargli le dita di ghiaccio fra i capelli, e la mano rimase ferma davanti all’occhio, tenendoglielo coperto. “Ora non resta altro da fare che aspettare l’arrivo della dichiarazione di guerra. Niente più sotterfugi, niente più embarghi, niente più trattati e patteggiamenti. Da oggi il mondo è sotto il nostro controllo più completo.”

Giappone socchiuse le palpebre, non fece nessuna resistenza. Per quel giorno, era stanco di lottare. C’era ancora tanto da pensare, troppo di cui preoccuparsi. Sciolse il pugno, lasciò andare la croce di ferro, facendola ciondolare attorno al polso, e reclinò il capo di lato, di nuovo abbandonandosi al sostegno della carezza d’ombra che gli avvolgeva la guancia. “Abbiamo davvero raggiunto il punto di non ritorno.”

L’ombra acconsentì. “E da qui non si torna più indietro. Ormai questa guerra...” Entrambe le mani scivolarono sulle spalle di Giappone, serrarono la presa. La guancia si accostò alla sua, la bocca gli sfiorò l’orecchio, il freddo tocco delle labbra s’incurvò in un fine sorriso di vittoria. “È totale.”

   
 
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