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Autore: EuphemiaMorrigan    05/11/2021    1 recensioni
[Boten!arc; Mikey/Takemichi]
Il lampione sopra di lui squarciò il buio dei suoi occhi con un giallo intenso, lo stesso da sempre associato ai capelli mal decolorati di un giovane Takemitchy. Lo fece sorridere il pensiero che tutto nella vita del Mikey adolescente era stato luminoso e giallo; a quel tempo dove c'era Kenchin a portarlo sulla schiena, Mitsuya a consigliarlo, e Baji a riporre speranze e desideri dentro un vecchio amuleto, che Manjirou ancora teneva posato sul cuore.
Gli era mancato quel colore di cui s'era così profondamente innamorato.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Manjirou Sano, Takemichi Hanagaki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note dell'autrice: Ho deciso di pubblicarla anche su EFP, è una piccola OS su uno dei miei momenti preferiti come partecipazione alla MaiTake week di Settembre. Mi sono divertita molto a scriverla, adoro il pov di Mikey e spero che sia uscito un lavoro decente e non troppo OOC.
Grazie a chi leggerà.



«Dovevi proprio venire, vero?» parlò, le labbra contratte in un cipiglio velenoso. «Vuoi fare l'eroe, Takemitchy» sputò fuori quel soprannome con un misto di terrore e disprezzo «...sei soltanto un egoista. Perché non riesci a lasciarmi in pace?».

Manjirou respirava a fatica, gli occhi sgranati, il collo teso; scrutava l'altro come un serpente pronto a mordere efferato la creatura che lo stava mettendo in pericolo, colui che aveva scosso il suo cuore congelato da anni di apatia, solitudine e droghe.

Le lampade a neon della sala da bowling abbandonata crepitarono in modo inquietante, la bestia dentro Manjirou ruggì di soddisfazione allo scorgere la pelle d'oca attraversare la nuca nuda di Takemichi. Seduto alle sue spalle poteva guardare meglio la schiena solida e forte, agli occhi d'ossidiana così ampia che una parte fin troppo rumorosa di lui desiderava ancora appoggiarci la fronte, udire il battito rassicurante di quel cuore gentile. Percepire il calore di Takemichi scaldarlo fin dentro le ossa e rannicchiarsi lì per sempre, mentre le fusa della moto che gli aveva regalato anni prima li cullava e il mondo di Manjirou smetteva di essere tinto di rosso.

«Non posso lasciarti, Mikey-kun».

Quel sussurro gli fece serrare i pugni. Così addolorato. Così pieno d'amore.

Un sentimento folle, immeritato, Takemichi non avrebbe dovuto innamorarsi di lui, sprecare il suo tempo a cercare di aggiustare l'irreparabile. Mikey aveva rinunciato a tutto, a tutti, per la sua felicità, per donare ad ognuno dei suoi amici il futuro che meritavano, lo stesso futuro per cui Takemichi tanto aveva combattuto e sofferto.

Invece quello stupido era lì, pronto a rovinare tutto ciò per cui s'era sacrificato.

«Vattene!» digrignò i denti e la testa pulsò. La realtà s'accavallò a ricordi dolorosi cercati di cancellare col sangue dei nemici e gli acidi somministrati da Sanzu. Ricordi di capelli biondi che profumavano di miele e camomilla, mani piccole ma salde e forti in grado di contenere tutta la sua oscurità e labbra morbide da baciare nelle giornate assolate ai piedi del santuario Musashi, mentre gli amici di sempre ridevano poco distanti e li richiamavano.

Il petto di Manjirou si contorse, neppure si rese conto d'essersi alzato ed estratto la pistola; il pugno contratto premeva contro la tempia, la bocca distorta in una smorfia.

Doveva farlo smettere, in qualsiasi modo, doveva tornare a non sentire nulla.

«Mikey-kun, per favore».

Takemichi si voltò, ora di fronte a lui, lo chiamò di nuovo, il braccio proteso e pronto ad afferrarlo. Stringere quel cumulo di ossa e pelle sottile, traumi e violenza che le droghe e il dolore avevano plasmato dai resti del vecchio Mikey. Quello che Manjirou aveva ucciso.

Incontrare quegli occhi, perdersi ancora nel colore del cielo, fu troppo da sopportare e la sua testa venne colpita da una stilettata acuta e sorda, esplose come le tre pallottole che scaricò su Takemichi.

Le labbra secche s'incurvarono in un sorriso vitreo quando il corpo dell'altro crollò al suolo, bambola di pezza a cui erano stati tagliati i fili. Manjirou gli diede le spalle, il bruciore alla gola e agli occhi nulla in confronto con la fitta che continuava a scavargli il petto, dove la bestia, con le unghie affilate, serrava le dita fra le pieghe mai cicatrizzate del cuore.

«Io... ti salverò... sicuramente...» gemette, testardo anche in punto di morte.

«Arrenditi, è finita».

Lo lasciò lì, a morire e delirare. Le gambe si mossero da sole, faticava a distinguere altri suoni che non fossero i respiri affannosi e i rantoli incoerenti di Takemichi.

Lo aveva fatto, aveva ucciso l'ultimo brandello che lo legava alla sua umanità. Lo aveva reciso, incurante di quanto male avrebbe provato.

Le ginocchia dolevano mentre saliva le scale in direzione del tetto, come se gli arti fossero improvvisamente diventati più pesanti; non ricordava dove avesse lasciato la pistola, forse gli era caduta di mano mentre camminava, non che fosse importante, a malapena sapeva dove si trovava.

Aveva bisogno di salire il più in alto possibile, era certo solo di questo.

Spinse la porta di metallo con la spalla e l'aria fresca smosse i capelli bianchi; per un attimo socchiuse gli occhi e, quando fu in piedi vicino al bordo, guardò verso il basso.

Ora poteva morire. Adesso che quella vita non aveva nessun altro da portargli via.

Finalmente è finita.

Saltare fu una liberazione, aprì le braccia nel vuoto e sorrise. Magari, se qualsiasi Divinità esistente fosse stata abbastanza impietosita dall'assassino che era diventato, gli avrebbe concesso di incontrare la sua famiglia, forse anche Takemichi. Rimpiangeva di non avergli dato almeno un ultimo bacio, nella morte quindi voleva stare insieme a loro, gli erano mancati così tanto...

Lo strattone al polso riuscì a farlo tornare in sé, le labbra tremarono di sorpresa e fulminò con un'occhiataccia il viso esangue di Takemichi. Di nuovo lui, il suo tormento, gli stava impedendo persino di morire in pace.

«Lasciami andare» disse freddo, nemmeno il cielo tanto adorato, ora screziato di rosso, lo scalfì. Takemichi doveva morire, come lui – assieme a lui –, così si sarebbero ritrovati. Era stufo di sacrificare la sua felicità, questa volta voleva essere egoista.

«Mai! Io ti salverò!».

«Smettila di ripeterlo, non puoi più farlo! Ti ho sparato!».

Takemichi scosse la testa e tossì, la bocca macchiata di altro rosso, «Basta portare tutto il peso da solo! Volevi ti sgridassi, ti sostenersi!».

«Non c'eri» sussurrò, la voce gracchiante si perdeva fra il chiacchiericcio dei curiosi che assistevano alla scena sotto di loro e il rumore in avvicinamento delle sirene. «Volevo darti un futuro migliore ma ho odiato ogni momento senza di te. Ti ho odiato. Ti odio. Lasciami morire».

Di tutta risposta Takemichi rafforzò la presa e provò a tirare indietro il braccio, la mano stretta al cornicione per darsi la giusta spinta in modo da sollevarlo.

«Ora sono qui, sarò sempre al tuo fianco, Manjirou».

A quel richiamo sgranò le palpebre, la maniera in cui aveva pronunciato il suo nome lo riscaldò come pensava impossibile potesse succedere ancora. S'accorse di avere gli occhi pieni di lacrime solo quando gli sorrise dolcemente, oltre lo sforzo per sorreggerlo, il dolore a causa delle pallottole, le parole cariche di disprezzo che gli aveva rivolto... Takemichi ancora aveva la forza di sorridergli e amarlo.

«Dillo, Manjirou» urlò «chiedimi di salvarti e io ti salverò, non importa cosa accadrà, per te lo farò tutte le volte che posso».

Il singhiozzo che uscì dal suo petto lo fece tremare. Takemichi ancora sporto a fatica verso di lui, il sangue colava lungo il braccio teso e la presa man mano scivolava, perdeva tenacia; lo guardò contrarre i denti per lo sforzo, le unghie corte gli graffiarono la pelle mentre cercava disperatamente di aggrapparsi a lui e non lasciarlo cadere.

Ogni minima resistenza rimasta s'infranse quando Manjirou avvertì gocce color cremisi bagnargli le guance, udì il respiro arrochito e vide la determinazione accendere ancora gli occhi cristallini.

Non si sarebbe mai arreso, né lo aveva lasciato solo.

Takemichi stava combattendo per lui.

Fu serrando le dita contro il palmo umido e scivoloso che finalmente, dopo anni, chiese aiuto: «Per favore salvami, Takemitchy».

Lui gli sorrise di nuovo, poi un'espressione sorpresa distorse i lineamenti dapprima straziati. Lì, dove si tenevano stretti la pelle formicolò, una scossa attraversò interamente il suo corpo e la sensazione di cadere nel vuoto tornò. Manjirou aprì le braccia per afferrare il ragazzo ormai svenuto quando precipitarono verso il suolo.

Lo abbracciò come fosse la sua cosa più preziosa. Lo era.

Seppe di aver colpito il terreno nel momento in cui un dolore acuto alla nuca gli strappò l'aria dai polmoni e liberò un rantolo di pura agonia; non poteva ancora morire però, aveva bisogno di resistere qualche secondo... solo qualche secondo, quella volta non voleva nessun rimpianto.

Spostò il viso alla cieca e prese il permesso di lasciare un bacio sulle labbra schiuse di Takemichi, erano morbide come le ricordava, ancora calde nonostante il cuore avesse smesso di battere. Con i polpastrelli asciugò lentamente le lacrime che gli inumidivano le gote e poi mormorò flebile: «Ti amo».

Il ricordo dell'epoca d'oro in cui la Toman primeggiava fra tutte le gang del Paese invase i suoi sensi e Mikey, che sulla punta della lingua da diversi minuti percepiva soltanto il sapore ferroso del sangue, sentì di nuovo per un attimo quello zuccherino dei taiyaki, la pasta dorata e morbida fra le labbra, l'odore caldo e delizioso oltre la puzza di sangue e immondizia in cui immobile giaceva, ad ascoltare senza decifrarle grida e imprecazioni.

Il lampione sopra di lui squarciò il buio dei suoi occhi con un giallo intenso, lo stesso da sempre associato ai capelli mal decolorati di un giovane Takemitchy. E lo fece sorridere il pensiero che tutto nella vita del Mikey adolescente era stato luminoso e giallo; a quel tempo dove c'era Kenchin a portarlo sulla schiena, Mitsuya a consigliarlo, e Baji a riporre speranze e desideri dentro un vecchio amuleto, che Manjirou ancora teneva posato sul cuore.

Gli era mancato quel colore di cui s'era così profondamente innamorato. Accarezzò un'ultima volta i ricci scarmigliati, incurante delle chiazze rosse che gli macchiavano le dita ossute, ormai tanto non poteva più vederle.

«Takemitchy, grazie di non avermi lasciato» canticchiò quel nome con le ultime forze. Stava perdendo lucidità.

Abbassò le palpebre e stirò le labbra quando la voce lontana di Emma gli parlò, ridendo, mentre Shinichiro lasciava una carezza fra i capelli bianchi come la neve. La mano di Takemichi intrecciata alla sua, calda e viva, sembrava più vera del corpo freddo che stava disperatamente stringendo.

Il rombo delle moto, le risa, il bruciore della pelle ammaccata dai pugni, l'adrenalina e il suono delle onde nel porto di Yokohama. Tutto. Era tutto di nuovo lì.

Poteva tornare nell'unico posto in cui avrebbe voluto sempre stare. A casa.


-o-o-o-o-o-o-

La testa faceva male, come se un martello pneumatico la stesse aprendo lentamente, senza pietà; Manjirou percepì la schiena dolergli, il collo pesante contro la superficie morbida a cui era poggiato e gli arti divenuti come piombo.

Sembrava non esser in grado di muoversi e si sentiva confuso.

Dov'era? Cos'era successo?

L'ultima cosa di cui era cosciente era Haruchiyo che lo aveva disturbato di nuovo, qualcuno era riuscito a scoprire uno dei rifugi della Boten, qualcuno ostinatamente intenzionato ad incontrarne il capo.

Qualcuno che Manjirou conosceva bene.

Le dita afferrarono con rabbia le lenzuola e gli occhi pulsarono sotto le palpebre; la sensazione amara in fondo alla gola divenne talmente nauseante quando rimembrò gli spari e il salto da bloccargli il respiro per qualche attimo.

Impossibile. Non poteva essere vivo. Non voleva.

Rilasciò un gemito frustrato e riuscì a posarsi una mano sulla fronte; rifiutò di aprire gli occhi, voleva dormire in eterno. Che senso aveva ormai vivere se Takemichi non c'era più?

Incredibilmente, invece di una nuova scarica di sofferenza, al pensiero dell'altro uomo il corpo di Manjirou si rilassò e gli sfuggì dalle labbra un sospiro d'apprezzamento quando avvertì un profumo stranamente familiare attorno a lui. Un odore delicato, intimo e caldo, lo sentiva provenire dalle lenzuola, dal cuscino, lo avvolgeva come in un abbraccio.

Miele e camomilla.

Sbarrò le palpebre nell'oscurità, il respiro spezzato. Sollevò la mano, la studiò incredulo: era pulita, le dita callose come ricordava, il mignolo che s'era storto in una rissa quando aveva dodici anni, il polso sottile e sul braccio nessun graffio o mezza luna lasciati dalle unghie di Takemichi per riuscire a sollevarlo.

Eppure ricordava di essere caduto, di essere morto quella notte, abbracciato al corpo freddo del suo unico amore.

Un fruscio di coperte accanto a lui catturò la sua attenzione. Non provò nessun fastidio, desiderio di difendersi o bisogno di fuggire, Manjirou conosceva quei movimenti, sapevano di quotidianità e di casa. Dentro di sé ebbe la sensazione di conviverci da anni.

Passò la lingua sulle labbra secche, come se avesse rotto una diga i ricordi di quand'era più giovane cominciarono a venire affollati da nuovi e modificati. Lo scontro fra la Kanto Manji gang e la Brahman scomparso, mai avvenuto, il corpo di Senju riverso sul terreno bagnato cancellato e sovrapposto da un’immagine sfocata di lei e Sanzu che lo salutavano seduti al tavolo di una caffetteria.

Kenchin e Inui al negozio di moto che sistemavano la sua CB250T mentre Kokonoi si lamentava delle spese superflue e suggeriva di smetterla di fare lo sconto ai loro amici o avrebbero fallito. Chifuyu e Hakkai che lo aiutavano a ridipingere il soffitto del dojo, Takemichi sporco di vernice, lui che s'era impuntato a voler le pareti dello stesso colore dei suoi occhi e tutti che lo avevano preso in giro per questo.

Manjirou immerse le dita fra i capelli, ignaro delle lacrime che avevano iniziato a rigargli il viso e del sorriso sbocciato sulle labbra; come una lavagna che veniva pulita e riscritta, la vita precedente e i suoi errori non esistevano più, relegati a ricordi sfocati in un angolo della mente.

Indugiò ancora un poco fra questi, rivivendo momenti che sembravano cuciti addosso ai suoi più profondi desideri. L'odore della colazione appena fatta, il grembiule con la stampa di un gatto che Chifuyu aveva regalato a Takemichi quando avevano iniziato a convivere, Kazutora che lo chiamava casalinga, Kenchin che si raccomandava con loro di non distruggere casa visto quant'erano imbranati. I baci che il compagno gli lasciava sul viso per farlo svegliare la mattina, gli abbracci, il “Sono a casa” di Takemichi quando tornava da lavoro, il “Ben tornato!” che lo accoglieva quando rientrava lui, le mani intrecciate mentre facevano l'amore, i sorrisi, i sussurri...

Forse stava sognando. Forse era davvero morto.

Voltò il viso, attirato dal calore al suo fianco. La prima cosa che vide fu una zazzera di spettinati capelli biondi, la seconda labbra rosate e dischiuse da cui proveniva un respiro lento e calmo. Le ciglia creavano un piccola ombra sulle gote chiare e la luce della Luna e dei lampioni sulla strada illuminava il corpo rannicchiato di Takemichi.

Dormiva accanto a lui con talmente tanta pace da apparire irreale, un miracolo di cui doveva accertarsi, toccarlo. Allungò lentamente un braccio, per un momento ebbe paura che sarebbe sparito, e con lui tutta quella felicità che lo aveva stordito.

Finalmente i polpastrelli sfiorarono la guancia calda. Takemichi non sparì e Manjirou poté tornare a respirare, neppure s'era accorto d'averlo trattenuto per tutto il tempo.

Doveva svegliarlo? Voleva svegliarlo.

S'avvicinò ancora, lo udì lamentarsi un poco quando premette un bacio sul suo collo, carezzò la spalla e scivolò lungo il braccio piegato sopra il cuscino; indugiò per qualche attimo sul fianco ben coperto dalla stoffa pesante della felpa che gli faceva da pigiama, rendendosi poi conto che non indossava nient'altro. Internamente sorrise soddisfatto al ricordare che quella felpa era sua, e decisamente gli andava molto larga.

Manjirou si sentì arrossire, riportò le dita a giocare con i ricci, gli piaceva quel colore, era più curato di quand'erano ragazzini ma rimaneva luminoso come il Sole.

«Takemitchy» sussurrò.

Quasi avesse udito la flebile cantilena, le palpebre chiuse tremarono e mugolò in risposta. Le labbra di Takemichi si piegarono con naturalezza in un sorriso assonnato ma carico di affetto quando lo guardò, almeno per i primi secondi.

Neppure il tempo di realizzare quel che stava accadendo e gli occhi blu si sgranarono stupefatti. Manjirou non lo fermò quando si alzò di scatto, né parlò, limitandosi a studiarlo mentre scrutava frenetico l'ambiente circostante.

Takemichi inclinò il collo verso di lui, confuso e decisamente in panico. «M-mikey-kun?» provò con un pigolio, intanto s'era seduto sul bordo del letto, mantenendosi però a distanza.

Annuì in risposta, non si fidava della propria voce.

«Quale Mikey-kun sei?» interrogò ancora, un poco più rilassato.

Manjirou assottigliò le labbra e distolse lo sguardo, a disagio. Schiarì la gola con un colpo di tosse e disse: «Quello che ti ha sparato, suppongo» aggiunse alla fine. «Ricordo di averlo fatto, allo stesso tempo però sembra non essere mai successo, è complicato».

«Non devi sforzarti di spiegare, capisco cosa intendi» lo rassicurò, il fruscio delle lenzuola fece di nuovo sollevare gli occhi a Manjirou e si trovò faccia a faccia con l'espressione curiosa e allo stesso tempo impacciata di Takemichi. «Naoto diceva che ogni volta cambiavo qualcosa i suoi ricordi venivano riscritti e adattati alla nuova linea temporale, per questo poteva sempre aiutarmi quando tornavo nel presente, forse è successa la stessa cosa».

«Probabilmente è così, visto che siamo vivi entrambi».

«Già» mormorò a bassa voce, poi chiese: «A te sta bene?».

«Cosa?».

Ridacchiò nervoso e passò la mano fra i ricci scapigliati, «Che io sia vivo».

«Non avrei mai voluto farti del male, non ero in me» disse Manjirou in tono colpevole, incapace anche solo di chiedere un perdono che, anche se tutto sembrava magicamente diverso, tutt'ora sentiva di non meritare.

«Lo so» mosse il braccio, un po' goffo gli sfiorò la spalla con la punta delle dita, subito dopo accentuò la presa con un tremito, gli occhi blu carichi di lacrime mal trattenute. «Sono così felice di vederti».

Manjirou sospirò di sollievo, per qualche attimo rimase in silenzio, concentrato sulle labbra umide, dato che Takemichi nell'agitazione ogni tanto le mordicchiava e ci passava la punta della lingua. Le sfiorò con il pollice, incoraggiato dal fatto che non si fosse tirato indietro si sporse maggiormente verso di lui.

«Non farò più lo stesso errore, Takemitchy».

Aveva bisogno di dirlo ad alta voce, aveva bisogno di renderlo reale.

«Sssh» sussurrò con dolcezza mentre gli carezzava la guancia «La cosa più importante è che sei qui con me».

Improvvisamente il viso di Takemichi si rabbuiò di nuovo. Manjirou poté sentire la sua ansia fin dentro le ossa e, cercando di confortarlo, col braccio circondò la schiena magra.

«Ehi, va tutto bene. Siamo qui, siamo insieme».

«Io...» iniziò a torcere l'orlo della felpa fra le mani. «Io devo sapere come stanno gli altri... Hina, Akkun, Chifuyu. D-devo controllare, assicurarmi che questo sia un buon futuro o se... se ho fallito di nuovo» la voce si spezzò sul finale, il corpo teso, già pronto a scattare fuori dal letto.

«Takemitchy» lo richiamò provando a calmarlo.

«Sembra perfetto, lo so» disse assente, come se non parlasse nemmeno con lui. «È sempre così, all'inizio sembra andar bene, poi... poi c'è qualcuno che muore ed io non riesco a fare mai nulla per impedirlo».

Manjirou gli catturò le guance, lo obbligò di nuovo a guardarlo, tornare da lui.

«Takemitchy» disse duramente. «Ti fidi di me?».

«Sì».

La risposta immediata lo stupì, così come la cieca fiducia e l'amore che poteva leggere negli occhi blu come il cielo; scacciò il nodo in gola e l'ennesimo momento di commozione con ben poco successo. Sbuffò, s'imbronciò e nascose le lacrime sulla spalla di Takemichi.

«Stare con te mi ha trasformato in un piagnucolone».

«Non c'è niente di male ad emozionarsi» soffiò fra i suoi capelli, sembrava così stanco eppure sempre pronto a consolarlo. «Devi imparare a lasciarti andare, almeno davanti a me».

Manjirou premette un bacio contro la clavicola, le braccia ben salde alla vita. Finalmente era suo, non lo avrebbe più lasciato andare.

Per un attimo si crogiolò in quell'abbraccio, doveva riuscire a rassicurarlo in qualche modo e provare a scacciare la preoccupazione che lo attanagliava. Vederlo così sconvolto aveva fatto capire a Manjirou quanta sofferenza aveva patito per tutti loro.

«Gli altri stanno bene, Mitchy» sollevò il viso per guardarlo negli occhi. «Se vuoi, appena sarà mattina, possiamo controllare ma, dai ricordi che affollano la mia testa, posso assicurarti che sono tutti felici. Grazie a te».

«Ma-».

«Te lo assicuro, ce l'hai fatta. Ci hai salvati».

Manjiro sorrise quando a quelle parole lo vide tentare di trattenere il pianto e strizzare la faccia come avesse mangiato un limone. Un po' sadico, come al solito, gli pizzicò la guancia per prenderlo in giro: «Dov'è finito tutto il discorso sul non reprimere le proprie emozioni?».

Per un momento parve voler protestare, subito dopo le spalle vennero scosse dai primi singhiozzi. Nascosto contro il petto di Manjirou sembrò molto più fragile dell'eroe che aveva portato per anni sulle spalle il peso della felicità dei suoi amici; ora bisognoso di cure e amore, di lasciarsi sostenere da qualcuno, dividere il peso che gravava sulla schiena.

Gli baciò una tempia, tenendolo insieme con ancora più forza «Sei stato bravo, Takemitchy».

«Tu...» si sforzò di parlare, le dita affondarono sul collo mentre alzava il viso e lo scrutava, ancora un po' in ansia. «Tu sei felice, Mikey-kun?».

La domanda lo spiazzò.

Non credeva di saper rispondere, nella precedente vita aveva dimenticato cosa significasse essere felice. In questa il dolore acuto per la perdita dei suoi cari avrebbe probabilmente bruciato per sempre, e per sempre lo avrebbe lasciato sull'orlo di quel precipizio nel cui fondo lo attendeva solo oscurità e rabbia.

Ma in quel futuro aveva ancora persone che amava e lo amavano, aveva Takemichi fra le braccia e la voglia di vivere e ricambiare tutto quello che aveva fatto per lui come meritava.

Annuì piano, dopodiché gli sorrise malizioso per alleggerire l'atmosfera: «Sarei più felice se il mio fidanzato mi chiamasse per nome».

Takemichi distolse lo sguardo, ridacchiando istericamente. «Ah, siamo... capisco...» biascicò, persino le orecchie divennero di un acceso rosso scarlatto.

Manjirou appoggiò la mano sul ginocchio scoperto, lo massaggiò piano con il pollice. «Era abbastanza ovvio, no? O dormi così con tutti?» si lagnò un poco, lasciando un altro pizzico affettuoso.

L'altro deglutì, fissava la mano che risaliva verso l'interno coscia come un cerbiatto attirato dai fari di un camion.

«I-io... no, certo che no».

«Meno male,» afferrò la pelle morbida con un ghigno «anche perché lo avrei ucciso» soffiò minaccioso contro le sue labbra.

«Manjirou! Avevamo detto niente morti!» gli diede uno scappellotto sulla spalla.

Gli sorrise malizioso, «Scherzavo».

«Bugiardo».

Manjirou canticchiò incurante dei suoi borbottii, probabilmente aveva una vena possessiva un pochino troppo accentuata, ma in fondo in quel momento stava solo giocando.

«Mi chiedevo» fece una breve pausa, risalì il fianco sotto la felpa e dopo scese nuovamente verso le natiche «come mai non indossi le mutande?».

La faccia di Takemichi si accartocciò comicamente, cacciò un urlo e si allontanò da lui; per poco non rischiò di cadere dal letto, o trascinarsi dietro il lenzuolo, quando si appiattì contro la parete, quasi volesse diventare tutt'uno con questa.

Manjirou scoppiò a ridere, dovette reggersi lo stomaco per quanto rumorosamente e sinceramente quella scena lo aveva divertito. Non ricordava di aver mai riso tanto, non nell'altra vita...

Scosse la testa, scacciò quel tarlo definitivamente. Non esisteva un'altra vita, non c'era più niente di oscuro in quella realtà, tutto ciò che lo rendeva felice era lì, a portata di mano. O meglio, premuto contro un muro mentre borbottava insulti a mezza bocca e cercava di coprirsi fino alle ginocchia.

Decise di andarlo a riprendere, un sorrisetto predatorio si disegnò sulle labbra al notare Takemichi indugiare sulla sua figura.

«Non hai paura?»

Sbatté le palpebre, confuso. «Perché dovrei?».

«Il grande lupo cattivo vuole mangiarti e tu stai lì a guardarlo imbambolato».

Di tutta risposta lo studiò ancor più attentamente, «Sono solo... sorpreso». Prima che Manjirou potesse chiedergli da cosa, si spiegò: «Le altre volte eri, beh, sembravi il triste mietitore, ora sei... in forma».

«Solo in forma? Questa la prendo come offesa» sbuffò, ormai ad un passo di distanza. Permise a Takemichi di appuntargli una ciocca di lunghi capelli biondi dietro l'orecchio, poi spingersi di nuovo fra le sue braccia, come se non aspettasse altro che essere catturato da lui.

«Prima fuggi dal letto coniugale e dopo mi seduci, non si fa Takemitchy, mi lanci segnali contrastanti».

Le guance dell'altro si gonfiarono un pochino, lo affrontò oltre l'imbarazzo, coraggioso come al solito: «Non sto scappando, però per me è diverso».

«Diverso in che modo?» lo incitò a continuare, mentre se lo teneva volentieri stretto contro il petto. Ben intenzionato a non lasciarlo mai andare.

«Io non ricordo... l'intimità,» sembrava starsi sforzando con tutto se stesso per superare il disagio e parlarle «l'ultima cosa di cui ho memoria è la nostra stretta di mano e la promessa di rivederci nel futuro, questi dieci anni... io non...» mormorò con velata tristezza, incapace di continuare a parlare.

Manjirou socchiuse le palpebre. Mai una volta, da quando aveva scoperto Takemichi avesse il potere di viaggiare nel tempo, aveva riflettuto sul fatto che il suo eroe piagnucolone, mentre cercava di salvare tutti e dar loro un futuro migliore, continuava a perdere anni ed esperienze di vita che nessuno avrebbe più potuto concedergli indietro.

E aveva fatto tutto senza mai lamentarsi, per loro, per lui.

Carezzò una guancia pallida, con tutto l'amore e la riconoscenza che poteva mettere in quel gesto.

«Ricominciamo allora».

Di tutta risposta il dubbio si disegnò sul viso dell'altro.

Manjirou inclinò il collo per premere piano le labbra all'angolo della sua bocca, e continuò: «Dal primo bacio, i primi appuntamenti, la prima volta, rifacciamo tutto».

Fu quando Takemichi lo travolse e rise felice che ogni pezzo della vita di Manjirou tornò al proprio posto. I ricordi riaffiorarono limpidi nella sua mente, niente più nebbia o confusione, solo la sensazione di quell'amore traboccante che diventava man mano talmente immenso da riempire gli spazi vuoti e bui della sua anima. La luce di Takemichi aveva scacciato le parti oscure di Mikey in quegli anni, lo aveva accolto, scaldato, amato e si era preso cura di lui, ora toccava a Manjirou fare la stessa cosa.

Essere felici insieme, come avevano promesso.

Renderlo felice, come meritava.

Sentì le dita di Takemichi immergersi fra i capelli, poi finalmente baciarlo come si deve, chiedere più contatto, aggrapparsi a lui in un misto di disperazione e passione. Le gambe nude gli circondarono la vita e Mikey sollevò sorpreso un sopracciglio, avrebbero invertito un po' l'ordine di quelle nuove prime esperienze, ma andava bene così, in fondo non poteva negare nulla al suo personalissimo eroe.

Promise a se stesso che il loro futuro sarebbe stato ricco di baci, calore e quel giallo inteso che ormai era diventato il colore preferito di Manjirou. Ora che poteva se ne sarebbe assicurato di persona.

   
 
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