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Autore: laisaxrem    06/11/2021    0 recensioni
Sakura non ha mai avuto un rapporto facile con la sua famiglia: civile per nascita e di una famiglia facoltosa, i suoi genitori non hanno mai accettato il suo desiderio di diventare una kunoichi. In un giorno di pioggia, Sakura scoprirà che la famiglia non è sempre solo il sangue che ti scorre nelle vene.
Giorno 6 della Sakura Week.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kakashi Hatake, Sakura Haruno, Shizune, Tsunade
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
- Questa storia fa parte della serie 'This Is Us'
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DATA: Venerdì 28 Febbraio 1680
TITOLO: Believer - Imagine Dragons

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«Sakura-chaaaan!»

La voce fastidiosa di Naruto appena fuori dalla porta del suo appartamento la svegliò.

Voltandosi appena sbirciò la sveglia che teneva sul comodino accanto al letto: erano solo le 7 del mattino e Sakura sentì dentro di sé irrefrenabile la voglia di uccidere il suo amico.

Per un attimo contemplò l’idea di non alzarsi ed aspettare che Naruto se ne andasse e la lasciasse in pace. Poi si ricordò di chi stava parlando e con un grugnito uscì da sotto le coperte.

Naruto era sul pianerottolo, l’unico braccio sollevato per bussare alla porta per l’ennesima volta.

«Oh, Sakura-chan, temevo non fossi in casa».

«Se è così perché continuavi a bussare e urlare di prima mattina, brutto idiota».

«Uuh. Sakura-chan, non essere così dura con me», piagnucolò lui, mettendo il broncio. «Mi sentivo solo a casa… E mi fa male il braccio».

La giovane donna sospirò e si scostò di lato, invitando il suo amico ad entrare con un gesto del capo, poi lo fece sedere sul suo divano un po’ malconcio e gli posò una mano sul moncone del braccio destro infondendogli il suo chakra curativo per alleviare il dolore. Al contempo Sakura analizzò la cicatrice per assicurarsi che non ci fossero infezioni in atto. Per fortuna tutto era come doveva essere perciò la giovane intuì che Naruto aveva ancora abusato del suo arto durante gli allenamenti e gli diede una bella lavata di capo rammentandogli per quella che era probabilmente la milionesima volta le indicazioni che gli avevano dato per ottenere le maggiori probabilità che le cellule di Hashirama-sama attecchissero quando il braccio prostetico fosse stato pronto.

«Ehi Sakura-chan, perché vivi ancora in un appartamento da chūnin se sei una jōnin?» chiese ad un tratto il suo amico.

«Mmm». In effetti Tsunade-sama le aveva offerto un nuovo alloggio quando Sakura era stata formalmente promossa jōnin ma lei non ci aveva pensato troppo e aveva rifiutato. «Forse perché questa è stata la prima casa che sia stata veramente mia».

«Uhh? Ma che stai dicendo, tu vivevi con i tuoi genitori prima di trasferirti qui».

«Mmm mmm».

In effetti, pensandoci bene, erano passati esattamente tre anni da quel giorno…


Martedì 28 Febbraio 1677

 

Sakura aveva sempre odiato gli ultimatum.

Ecco perché si trovava a vagabondare per le vie di Konoha come se non avesse più una casa. Perché in effetti Sakura non aveva più una casa.

Pensava di avere finalmente trovato la sua strada, il suo posto nel mondo ninja: eccelleva nelle arti mediche grazie alla guida di Tsunade-shishō, aveva raggiunto un ottimo livello nei taijutsu grazie anche all’aiuto di Rock Lee, si sentiva utile e necessaria anche in ospedale dove aiutava sia shinobi che civili. Sentiva di essere sempre più vicina alla sua meta: riportare a casa Sasuke. Ed era felice.

Eppure eccola lì, a camminare come uno zombie sotto alla pioggia. A volte odiava i suoi genitori; non avevano mai sostenuto il suo desiderio di diventare una kunoichi e anzi spesso avevano persino fatto ciò che potevano per metterle i bastoni tra le ruote. Ricordava come se fosse ieri quanto avessero combattuto per non firmare i moduli per l’ingresso in Accademia. In quei giorni a casa Haruno c’erano stati urli, pianti e porte sbattute. Kizashi e Mebuki avevano creduto di poterla scoraggiare con i loro dinieghi e il loro continuo rimandare; si vedeva che non la conoscevano affatto.

A volte sentiva ancora nelle orecchie le loro parole. “Sei ancora troppo giovane”, le dicevano, “fallirai e poi verrai a piangere da noi”; oppure, quando cercavano di farle cambiare idea usando la logica, usavano argomentazioni del tenore del “noi non siamo ninja, gli Haruno non lo sono mai stati. Cercare di essere ciò che non sei ti farà solo sentire peggio”. A volte invece decidevano di usare il senso di colpa: “e se ti succedesse qualcosa che ne sarebbe di noi? Non pensi ai tuoi poveri genitori? Non ti abbiamo educato per essere egoista”. Ma alla fine l’aveva avuta vinta lei e si era iscritta in Accademia anche se quasi con un anno di ritardo. Aveva sperato che i suoi genitori accettassero la sua scelta ma ciò non era accaduto. Ogni volta che si trovava ad avere qualche difficoltà in un esercizio, o che un test non andava in modo più che perfetto, suo padre la guardava con disappunto e con un’espressione in volto che diceva che si aspettava che avrebbe fallito mentre sua madre sottolineava che loro glielo avevano detto che non era quella la sua strada, che doveva vivere come una civile come facevano loro. In quel periodo Sakura si era addormentata piangendo molte volte.

Erano passati anni e pensava che ormai i suoi genitori l’avessero ferita in ogni modo possibile. Si sbagliava; quanto si sbagliava.

Quella sera a cena suo padre le aveva comunicato che si sarebbero trasferiti presto a Hana no Kuni e che lei sarebbe andata con loro.

Sakura aveva protestato veementemente dicendo loro che a Konoha aveva una vita, amici, una carriera e che non voleva lasciare tutto per trasferirsi dall’altra parte del mondo. “Sei una Haruno”, aveva urlato suo padre sbattendo il pugno sul tavolo, “ed è ora che ti comporti come tale. Verrai con noi, ti dimenticherai di tutta questa insensatezza e ti sposerai con il nipote del Daimyō! È già stato tutto deciso”.

Così Sakura era uscita di corsa sbattendo la porta, ignorando il fatto che fuori piovesse a dirotto e che i suoi leggeri abiti civili non erano adatti per una camminata sotto la pioggia.

Era passata ormai più di un’ora e Sakura sapeva che doveva tornare a casa e parlare con i suoi, ragionarci e far capire loro che davvero non poteva lasciare il Villaggio, nemmeno se erano loro a chiederglielo, e che sicuro come l’inferno non aveva alcuna intenzione di accettare un matrimonio combinato. Perché dentro di sé sapeva che sarebbe appassita lentamente se avesse abbandonato la carriera di kunoichi. Eppure, pur sapendo questo, anche solo l’idea di mettere di nuovo piede in quella casa le faceva venire la nausea e per quanto ci provasse proprio non riusciva a trovare dentro di sé la risolutezza per tornare là.

Alla fine nel suo vagabondare si ritrovò ai margini della foresta dove una grande lapide nera svettava fiera sotto alla pioggia. Sakura conosceva bene quel posto e sapeva cosa rappresentasse quella pietra e non si stupì troppo di notare che una figura alta e un po’ curva vi sostava davanti.

«Kakashi-sensei», lo salutò mentre si avvicinava al cenotafio a passo lento.

«Ehi, Sakura-chan, è da un po’ che non ci vediamo», la salutò lui con un piccolo sorriso, intuibile solo dalla piega dell’unico occhio visibile.

In effetti aveva ragione. Dopo che Naruto era partito con Jiraiya-sama per il suo allenamento, tutto ciò che era rimasto a Konoha del Team 7 erano Kakashi-sensei e lei stessa che però aveva iniziato ad istruirsi sotto la guida di Tsunade-sama, quindi la loro squadra era stata momentaneamente sciolta. Sakura sapeva che Kakashi era costantemente impegnato in missioni di livello A o addirittura di livello S e la cosa non la sorprendeva per niente: dopotutto il suo ex sensei era probabilmente il jōnin più potente del Villaggio e da quando Suna e Oto avevano sferrato l’attacco che aveva portato alla morte del Sandaime e di tanti altri valorosi shinobi, quelli rimasti erano costretti ad affrontare una missione dietro l’altra, sia per dimostrare che nonostante tutto Konoha era ancora forte, sia per portare un po’ di denaro nelle casse del Villaggio. Kakashi in particolare, forse anche per la sua fama, era tremendamente richiesto e nell’ultimo anno e mezzo aveva passato più tempo in missione che all’interno delle mura. In effetti Sakura sapeva che Tsunade gli aveva imposto un periodo di riposo di tre settimane dopo che era tornato a casa per l’ennesima volta con la riserva di chakra al minimo per l’abuso del suo sharingan.

(Una volta Sakura era stata testimone di uno dei loro battibecchi perché Tsunade aveva voluto insegnarle come curare persone col chakra esaurito. Era stato al contempo divertente ed imbarazzante vedere il suo ex-sensei venire rimproverato e trattato come se fosse un bambino di cinque anni).

«Come sta andando il tuo riposo forzato?»

«Maa, maa, mi sento come se mi tenessero in una campana di vetro. Credo di aver riletto Icha Icha Paradise almeno una decina di volte», si lamentò l’uomo, scrollando le spalle ed estraendo il libricino arancione il tempo necessario per farglielo vedere prima di rimetterlo al sicuro dalla pioggia.

«Onestamente, sensei, davvero non so cosa ci trovi in quei libri. Non sono nemmeno anatomicamente corretti».

«Questo lo dici tu Sakura-chan».

«No, lo dice il corpo umano».

«Non discuterò con te di Icha Icha… E del fatto che tu abbia letto un libro vietato ai minori di diciotto anni», la punzecchiò lui, il tono di voce leggero di chi cerca di strappare un sorriso. «Cosa direbbero i tuoi genitori se lo sapessero?»

Ahi. Questa faceva male.

All’istante Sakura sentì tornare quel peso sul cuore che aveva scordato durante gli ultimi minuti di conversazione col suo sensei. Forse Kakashi notò i suoi occhi incupirsi perché si voltò verso di lei quel tanto che bastava per guardarla dritto in faccia. La giovane non riuscì a reggere quell’occhio scuro che la scrutava e abbassò il viso.

«Sakura, perché sei qui sotto la pioggia?» Lei non rispose, la gola stretta in una morsa. Odiava quando si sentiva così e qualcuno era gentile con lei perché le sembrava di poter esplodere da un momento all’altro. Il fatto poi che si trattasse di Kakashi era ancora peggio. «Sakura». Questa volta il tono di Kakashi era più duro, il tono di voce che avrebbe usato in una missione per farsi obbedire dai suoi compagni e Sakura ci ritrovò senza volerlo a raddrizzare la schiena e mettersi sull’attenti. «Guardami». Lei obbedì come se non potesse fare altro ma sentiva la gola stretta in un nodo. «Cos’è successo? Qualcuno ti ha fatto del male?»

Lei non riuscì a fare altro che scuotere la testa. Non avrebbe pianto, assolutamente non avrebbe pianto. Era una kunoichi di Konoha, era un’adulta, e non avrebbe pianto solo perché i suoi genitori erano degli egoisti.

«È successo qualcosa ai tuoi genitori?» insistette Kakashi-sensei e Sakura si stupì quando sentì una delle sue mani posarsi sulla sua spalla, un’ancora rassicurante in quella tempesta di emozioni. «Andiamo. Ti accompagno a casa».

Sakura avrebbe voluto protestare ma abbassò il capo e lo seguì fuori dal campo per le strade di Konoha. Non guardò nemmeno dove stessero andando, gli occhi fissi sui piedi del jōnin, fidandosi ciecamente che non le avrebbe permesso di andare a sbattere da qualche parte. Dentro di sé era già pronta alla seconda parte di quella schermaglia e stava cercando di indurire il suo cuore quel tanto da permetterle di non cedere sotto i ricatti emotivi della sua famiglia. Ma in realtà non sapeva come avrebbe potuto fare. Dopotutto non aveva ancora quindici anni e sebbene genin ben più giovani di lei vivessero soli già da tempo, lei non era orfana e ci si aspettava che in quanto figlia unica seguisse i desideri dei suoi genitori.

Mezz’ora dopo Kakashi si fermò ed in tono allegro disse: «Eccoci qua».

Sakura guardò davanti a sé e si rese conto che non si trovavano davanti al giardino dei suoi genitori ma la porta che aveva davanti era quella un po’ rovinata dell’appartamento di Tsunade-shishō.

«Oh».

Avrebbe voluto dire qualcosa, chiedere a Kakashi-sensei perché l’avesse portata lì e non alla casa in cui era nata e cresciuta, ma lui stava già bussando alla porta e una manciata di secondi dopo questa si aprì su Shizune.

«Yo», la salutò Kakashi alzando una mano. «Ho trovato una gattina sperduta sotto la pioggia ed ho pensato fosse vostra».

«Sakura! Che hai fatto? Sei completamente zuppa», la rimproverò la sua senpai prima di afferrarla per il polso e trascinarla dentro. «Sbrigati ad entrare Kakashi o farai uscire tutto il caldo».

La ragazza non si voltò a controllare ma sentì la porta chiudersi e dei passi leggeri seguirle lungo il corridoio angusto e buio, segno che in effetti Kakashi-sensei aveva obbedito all’ordine.

L’appartamento dell’Hokage era dannatamente piccolo, sicuramente più di quanto ci si aspetterebbe dalla persona più importante di Konoha. Era una cosa del tutto inusuale e contro la tradizione e gli Anziani e il Consiglio avevano cercato di costringere Tsunade a traslocare al quartiere dei Senju o perlomeno ad accettare una delle innumerevoli case che le erano state offerte e che, a loro dire, erano più consone al suo ruolo. Naturalmente la Godaime aveva rifiutato fermamente asserendo che il suo piccolo appartamento umido e spoglio era più che sufficiente per lei e Shizune visto e considerato che passava quasi tutta la sua vita nell’ufficio al palazzo.

Tsunade era seduta sul divano in soggiorno, un bicchierino di ceramica in mano ed una bottiglia di sake aperta posata sul basso tavolino da caffè. Nell’altra mano reggeva un grosso tomo di medicina ma quando li vide entrare chiuse il libro e le sue sopracciglia bionde si inarcano creando una ruga tra di esse.

«Che ti succede ragazzina? Sei bagnata fino al midollo».

Sakura avrebbe voluto tranquillizzarla e dire che tutto andava bene, che non c’era nulla da preoccuparsi, mentire ed affermare che si era semplicemente dimenticata l’ombrello uscendo di casa. Ma forse fu la mano calda di Shizune sulla sua schiena, o la sensazione dell’occhio di Kakashi puntato sulla sua nuca perché Sakura non riuscì a trovare la forza di mentire.

«I miei genitori hanno deciso di trasferirsi a Hana no Kuni il mese prossimo e vogliono che vada con loro», buttò fuori tutto d’un fiato, la voce bassa ma più tranquilla di quanto si aspettasse.

La sua rivelazione venne accolta da un momento di silenzio attonito, poi Shizune sbottò con un: «Che diavolo vuol dire?»

Sakura sbatté le palpebre come un vecchio gufo, stupita, perché quella era probabilmente la prima volta in cui sentiva la sua senpai imprecare.

«Hanno detto che devo lasciare la mia vita da kunoichi ed iniziare a comportarmi come una Haruno», proseguì sempre in quel tono freddo e distaccato, come se stesse spiegando quale procedura avrebbe scelto per affrontare una certa operazione su un paziente. «Hanno detto che è ora che conosca le attività del clan e che porti onore alla famiglia trovando un marito che possa ampliare il giro delle nostre conoscenze».

Mentre parlava Sakura non riuscì a guardare negli occhi la sua shishō. Mentre ripeteva le parole dei suoi genitori sentiva crescere dentro di sé la nausea e la rabbia; com’era possibile che pretendessero questo da lei? Com’era possibile che non capissero minimamente i suoi sentimenti nonostante fossero i suoi genitori, sangue del suo sangue?

Sakura sentiva gli occhi pungere ma mai e poi mai avrebbe pianto, non per questo.

«Benissimo, che vadano pure dove diavolo gli pare», sbottò Tsunade ad un tratto, costringendola ad alzare finalmente gli occhi. La sua shishō stringeva il bracciolo del divano così forte che delle crepe iniziavano già a formarsi nel legno e per un attimo Sakura sentì il proprio cuore spezzarsi perché aveva davvero sperato che lei avrebbe protestato e combattuto per convincere i suoi genitori a rimanere. Ma dopotutto loro erano la sua famiglia di sangue e Sakura non era altro che un’apprendista per lei, perciò perché avrebbe dovuto protestare? «Ma tu da qui non ti muovi», aggiunse all’improvviso la Sannin, il tono rabbioso, mentre il legno cedeva sotto le sue dita. Era evidente dalla sua faccia livida che ciò che stava per dire era la parola dell’Hokage e che non avrebbe accettato un no come risposta. «Non ho sprecato l’ultimo anno della mia vita ad insegnarti tutto ciò che so per permettere a due persone qualunque di trascinarti dall’altra parte del mondo per farti sposare un qualche ricco idiota figlio di papà».

«Tsunade-sama…» giunse la flebile protesta di Shizune.

«Niente “Tsunade-sama” e “Tsunade-sama”, Shizune», ringhiò l’Hokage. «Sono stanca di quei due. Non una volta le hanno dato il sostegno che meritava perciò non vedo perché lei debba sostenere loro adesso».

 Sakura avrebbe mentito se avesse detto che non concordava appieno con la donna, e sentire quelle parole uscire dalla sua bocca tolsero parte del peso che le opprimeva al petto.

«E questa notte ti fermi a dormire qui», rincarò la dose Tsunade. «Domattina ti accompagnerò da loro e comunicherò la mia decisione a Kizashi e Mebuki»

«Shishō, non posso…» tentò di protestare lei. Perché per quanto fosse toccata dai sentimenti della Godaime la verità era che il suo senso del dovere le impediva di prendere in considerazione quella soluzione. E sapeva che far leva sul suo buon cuore non sarebbe servito a nulla, non mentre era in uno stato così alterato, perciò tentò di usare un po’ di logica anche se tutto ciò che voleva era accettare l’invito, stendersi sul divano e dormire fino al mattino seguente. «Non ho con me i vestiti o la divisa o qualcosa per dormire…»

«Kakashi…»

«Faccio un salto io a prendere ciò che ti serve, Sakura-chan, non ti preoccupare di questo», giunse la pronta risposta del suo ex sensei che in un turbinio di foglie scomparve dal soggiorno, evidentemente diretto alla sua camera da letto nella casa dei suoi.

«Sei la mia apprendista, Sakura», continuò Tsunade, come se non avesse appena chiesto silenziosamente ad uno dei suoi jōnin di irrompere tramite una finestra nella casa di un membro di una delle famiglie civili più potenti non solo di Tsuchi ma anche di altri Paesi del continente, compreso il Paese del Fuoco. «Prima di essere una Haruno sei la mia apprendista e non intendo lasciarti andare via così». All’improvviso l’espressione sul suo viso s’addolcì e, dopo essersi alzata ed esserle andata incontro, le poggiò una mano sulla guancia con più tenerezza di quanto le avesse mai visto. «Non ti preoccupare, ragazzina, non permetterò a nessuno di portarti via senza il tuo consenso. Questo te lo posso giurare».

Sakura annuì e si concesse di appoggiarsi a quella mano ruvida mentre Shizune si avvicinava e le posava una mano sulla schiena. E per la prima volta da quando era solo una bambina che sognava di diventare una kunoichi, Sakura si sentì come se avesse davvero una famiglia.


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Sono sempre stata convinta che Sakura fosse di famiglia civile, sempre, anche quando ero solo una tredicenne che guardava l’anime senza avere idea dell’esistenza del manga. In particolare col tempo ho sviluppato una serie di headcanon (un po’ per colpa mia, un po’ per colpa di alcune fic) ovvero che gli Haruno sono una famiglia civile particolarmente conosciuta; sono mercanti discretamente ricchi e con una certa influenza; provengono dal Paese della Terra ma si sono man mano stabiliti in tutti i maggiori punti di scambio economico, Konoha compresa; tuttavia al Villaggio ora sono rimasti solo Sakura e i suoi genitori. E altre cose, alcune delle quali ho scritto nella fic, altre le introdurrò man mano in altre fic, altre non le ricordo. Devo davvero creare da qualche parte un elenco dei miei headcanon per questo AU perché iniziano a sfuggirmi le cose di mente… odio la mia testa.
  
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