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Autore: Adeia Di Elferas    06/11/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Quel 27 dicembre, dopo giorni di intense nevicate, sembrava che il cielo avesse deciso di essere clemente con Firenze e, mentre la tavola di Nostra Donna di Santa Maria Impruneta veleggiava per le strade della città, solo pochi sporadici fiocchi andavano a infastidire i presenti.

Lorenzo, con indosso il suo abito sistemato alla bell'e meglio, stava a una discreta distanza dalla moglie, accompagnata dal figlio Pierfrancesco. Non gli importava granché di pregare quel simulacro, quello che voleva fare davvero era tastare il polso dei fiorentino. Perciò, rammaricandosi di non aver indossato dei vestiti meno appariscenti, si era calcato ben bene la berretta in testa, per rendersi meno riconoscibile, e aveva cominciato a mescolarsi con la folla.

Aveva già visto più di un volto noto e da qualcuno era anche stato notato, ma quello che lo lasciò più di stucco fu sentire la gente comune, quelli che non avevano di solito voce alla Signoria, parlare di grande politica e farlo con una sicurezza e un astio pari a pochi.

“L'Imperatore – diceva uno – vuole riprendersi l'Italia e presto verrà qui coi suoi soldati tedeschi!”

“Re Luigi – diceva un altro – s'è stancato di proteggere Firenze e non guadagnarci, e ci lascerà nelle mani del Duca Valentino!”

“E la colpa è solo di Lorenzo!” aggiungeva qualcun altro, facendo gelare il sangue nelle vene al Medici.

Tutti gli altri commenti che il Popolano sentì quel giorno erano dello stesso tenore e, sempre di più, lui veniva additato come il grande responsabile del quadro che si stava venendo a formare. I fiorentini avevano deciso di loro sponte che Massimiliano stesse brigando per prendersi la Repubblica, pretendendola come sua per antico diritto di successione, che Luigi stesse cercando un modo per liberarsi di un impegno preso con troppa leggerezza con la Signoria e che il papa non aspettasse altro, come un gatto sotto al tavolo del macellaio, che di una distrazione delle altre due potenze per fare il salto decisivo e agguantare la sua preda. In tutto ciò Lorenzo appariva come l'oscuro figuro che, per incapacità, ma forse anche per calcolo, aveva gettato Firenze in mezzo a quel triangolo infuocato.

Con il cuore che batteva in modo anomalo nel petto e la testa che pulsava in modo spiacevole, il Medici pian piano si allontanò dalla ressa, camminando in senso opposto rispetto alla tavola sacra che tutti gli altri seguivano, e cercò la via di casa. Si spaventò nel trovarsi confuso, nel non ricordare che strada imboccare per arrivare alla via Larga.

Si dovette fermare qualche minuto, le dita ad allargarsi il colletto del camicione e gli occhi tondi che correvano a destra e a manca. Si appoggiò al muro di un palazzo e fece del suo meglio per calmarsi. Tutto gli sembrava estraneo, i volti che vedeva, le voci che sentiva. Faceva anche fatica a capire le parole che uscivano dalla bocca dei passanti.

Un uomo gli chiese se stesse bene e il Medici non riconobbe in lui il piovano di Cascina, quel Francesco Fortunati che conosceva da giovane e che ora si diceva fosse il vero tramite tra Caterina Sforza e il resto del mondo. Vestito di nero e accigliato, gli parve solo un corvo pericoloso da cui scappare.

Scostandosi di colpo, borbottò qualcosa in modo sconnesso. Sudava, tremava perfino, e non sapeva dove fosse. Camminò senza meta per un po', e poi, come se stesse uscendo da un incubo, all'improvviso le strade tornarono a essere familiari, l'accento della sua gente comprensibile e molte facce gli risultarono abbastanza note da poter abbinare loro un nome.

Ancora malfermo sulle gambe, tremendamente spaventato da quel profondo momento di confusione, l'uomo si orientò e cercò la via più rapida verso il suo palazzo. Camminava in modo un po' incerto, ma voleva dare la colpa della rigidità delle sue gambe alla paura appena provata.

Entrò a palazzo senza salutare nessuno, nemmeno si accorse che suo figlio era già rientrato, tanto meno lo sentì mentre gli chiedeva come stesse, preoccupato dal suo aspetto sconvolto.

Lorenzo si chiuse in camera, si prese la testa, che ancora gli doleva da morire, tra le mani e fece un suono gutturale di frustrazione. Aveva dato la vita, per Firenze, aveva ipotecato tutto ciò che aveva di più caro, e Firenze come lo ripagava?! Considerandolo un misero traditore...

 

Caterina aveva atteso con ansia il ritorno di Francesco. In tutta sincerità, comunque, non si era aspettata di vederlo arrivare già il giorno dopo la processione.

Sotto a un cielo bianco e carico di neve, il piovano aveva percorso a velocità sostenuta la stradina che portava dal fitto del bosco alla villa e, lasciando il cavallo a un servo, senza preoccuparsi di togliersi almeno la cappa da viaggio, aveva cercato la Tigre.

“Credevo che saresti rimasto in città di più...” soppesò lei, dopo aver chiesto a Galeazzo e Bernardino, che le stavano facendo compagnia nella biblioteca.

“All'inizio era il mio progetto...” ammise lui, rifiutandosi, però, di ammettere ad alta voce che a riportarlo così presto alla villa non era stata solo l'urgenza di riferire quanto sentito a Firenze, ma anche il bisogno, bruciante, di rivedere la Sforza: “Ma poi ho pensato che era meglio venire subito qui per discutere quanto ho appreso in città.”

A quel punto l'uomo le fece un puntuale riassunto dei timori e delle agitazioni dei fiorentini, le spiegò di come ormai anche l'uomo comune si sentisse minacciato quasi in egual misura dalla prepotenza dei Borja, dall'indifferenza del re di Francia e dalla superbia dell'Imperatore.

“Io l'ho detto anche al Gonzaga – fece la Leonessa, con un contentuto orgoglio, come a dire che, malgrado fosse stata lontana parecchio tempo dalla grande poltica, sapeva ancora dire la sua – che gli sarà indispensabile avere non solo il favore francese, ma anche dell'Imperatore... Così, quale che sia la piega presa dalla corrente, lui sarà salvo.”

Il piovano non commentò, trovandosi d'accordo, ma scoprendosi troppo distratto dal profilo della donna, dal modo in cui teneva le mani allacciate in grembo, dalla piega del suo collo, mentre chinava appena la testa di lato, invitandolo a riprendere il discorso...

Facendo del suo meglio per riprendere il filo, Francesco si schiarì la voce e le riassunse anche un breve incontro avuto con i Salviati. Le portava i loro saluti e i loro migliori auguri per la sua salute a tratti cagionevole. Lucrezia Medici voleva che sapesse che lei era disposta a incontrarla di nuovo, quando voleva. Jacopo Salviati, più trattenuto, voleva assicurarsi che Caterina avesse saputo per tempo che Firenze avrebbe dato a breve la carica di Capitano Generale dell'esercito a Francesco Gonzaga.

Caterina ascoltò tutto, annuendo appena a ogni punto elencato da Fortunati. Non le dispiaceva aver trovato degli alleati in quei parenti di Giovanni. Suo figlio Giovannino, dopo tutto, era e sarebbe sempre stato anche un Medici: era importante poter contare su qualcuno della sua famiglia, specie in prospettiva, per il futuro.

Ciò che catturo di più la sua attenzione, però, fu quello che il piovano disse alla fine, quasi buttandole lì un'informazione che evidentemente lui riteneva marginale.

“Ho intravisto anche tuo cognato Lorenzo...” disse, curragando la fronte, nel ricordo di quella strana immagine: “O, almeno, credo che fosse lui...”

“Perché dici credo?” domandò la Leonessa, facendosi molto più attenta.

Francesco, capendo che la milanese si era messa ad ascoltarlo davvero solo in quel momento, si morse il labbro e descrisse il Medici pallido e sudaticcio che aveva visto, spiegando come lo avesse trovato spaesato e confuso.

La Sforza non disse nulla. Si era fatta seria, quasi cupa. Il ritratto, impietoso, ma di certo molto realistico, che le aveva fatto Fortunati le stava dando da pensare. Nel corso della sua vita, grazie ai suoi studi da alchimista, aveva avuto modo di confrontarsi anche con guaritori e cerusici e ciò che il piovano le stava dipingendo le fece subito venire in mente le descrizioni di certe febbri nervose e di altre malattie particolari e, molto spesso, pericolose.

“Ma che si sappia, Lorenzo è malato?” domandò, cercando di far quadrare le ipotesi che si stavano presentando nella sua mente.

“No... No...” valutò Fortunati, cercando di ricordare se avesse sentito mai qualcuno dirlo: “Posso dirti che, da quando era ragazzo, è molto dimagrito... Ma non ho mai sentito dire che abbia qualche malattia.”

La Tigre non voleva sentirsi felice per quella che, ridotta all'osso, era una cosa molto brutta, ma si trovò a sperare con tutta se stessa di averci visto giusto e che quel malore, descritto dal piovano in modo tanto preciso, fosse solo un primo passo verso la tomba, per il cognato. Si sentiva un mostro, a sperare che il fratello di Giovanni – fratello da lui amatissimo, sempre, malgrado tutto – morisse, ma sarebbe stata la soluzione più immediata e indolore a buona parte dei suoi problemi.

“Forse...” esitò Francesco, ripensando ad altre voci che aveva sentito, durante la processione.

“Forse..?” lo incitò Caterina.

L'uomo la fissò per un lungo istante. Nei suoi occhi verdi, in quel momento, non c'era alcuna traccia di desiderio per lui, né la disperata vergogna che vi aveva letto a Santo Stefano. Le sue iridi erano accese e vive, lucide, del tutto presenti, come quando, anni prima, alla sua rocca, comandava il suo esercito, i suoi uomini, il suo Stato.

“Forse la sua condizione è dovuta alle accuse che gli stanno muovendo...” accennò lui, molto cauto nell'avanzare quell'ipotesi: “Sentirsi dare del traditore non credo sia una cosa bella...”

La Tigre si fece spiegare nel dettaglio cosa il piovano intendesse e, dopo aver ascoltato tutto, fece un'espressione difficile da decifrare e si lasciò andare a un lungo sospiro.

“Ti fermi qualche giorno?” chiese poi, abbandonando di colpo l'argomento precedente.

Un po' spiazzato, l'uomo deglutì un paio di volte. In effetti il suo piano era proprio quello: restare almeno fino al Capodanno, o meglio, quello che la famiglia della Sforza considerava l'unico verso Capodanno, e poi ripartire per Cascina e curare un po' anche i suoi affari.

Tuttavia, proprio mentre stava per dire di sì, la Tigre allungò una mano e gli sfiorò il braccio, probabilmente per convincerlo a restare, ma ottenendo l'esatto opposto.

Turbato dai brividi che quel brevissimo contatto gli aveva scatenato, Francesco scosse con forza il capo e, stringendo gli occhi, rispose: “Meglio di no...”

“Certo...” sussurrò allora la donna, un po' avvilita per quel comportamento, ma conscia che era stata lei a chiedere troppo: “Anche se mi avrebbe fatto piacere, se fossi rimasto fino all'anno nuovo...”

“L'anno nuovo...” sorrise Fortunati, prima di salutarla davvero: “Ricordati che io sono fiorentino, come lo era tuo marito Giovanni e come lo è tuo figlio Giovannino... Per noi l'anno inizia a fine marzo...”

Prendendo quella precisazione come una sorta di promessa, Caterina ricambiò il sorriso e, senza dire altro, sollevò una mano in segno di congedo, e lasciò che il piovano la lasciasse di nuovo sola.

 

Lucrecia osservava con un distacco solo apparente l'abito di velluto cremisi e broccato d'oro che la stavano aiutando a infilare.

Le avevano ripetuto alla nausea la scaletta del cerimoniale che avrebbero seguito quel giorno, eppure, in quel momento, la Borja non riusciva che a pensare a due cose. La prima era che quel 30 dicembre, malgrado il freddo, splendeva un sole strano, pallido, ma troppo intenso, per essere pieno inverno. Il secondo era che il suo terzo marito si sarebbe chiamato Alfonso, come il secondo, e quel dettaglio la faceva sentire in colpa come una ladra.

Le sue dame stavano dando l'ultimo tocco anche alla sua capigliatura e un paio di loro, con tono concitato, le ricordava che a breve avrebbero dovuto mettersi in cammino, perché tutti, cardinali, ambasciatori e nobili romani e ferraresi, la stavano aspettando per sentirle pronunciare i voti matrimoniali.

Di colpo la settimana appena trascorse le si ripresentò tutta assieme, tutta confusamente, come un turbinio di forme e colori da cui riuscì a estrapolare solo pochi ricordi nitidi.

Le tornò in mente, in primo luogo, il giovedì passato, esattamente una settimana prima. Dopo giorni e giorni di pioggia, era rispuntato il sole, spandendo per Roma un odore sgraziato di fango e umidità. I ferraresi erano alle porte della città e tutto era già un fermento di abiti, feste e aspettative.

Alle dieci del mattino, le avevano raccontato, gli inviati del suo futuro sposo, in corteo, si erano mossi verso il centro dell'Urbe, e avevano incontrato i notabili di Roma. Cesare, per primo, era andato incontro al Cardinale ippolito e gli si era affiancato, davanti alla folla curiosa e in festa.

Di quel giorno Lucrecia ricordava il suono assordante dei pifferi, delle trombe, delle pive e dei corni. Anche se lei era rimasta al suo palazzo, le era sembrato di averli nelle orecchie. Un suono di gioia, per lei, si era tramutato in un grido d'angoscia.

Suo fratello, il Duca Valentino, aveva condotto una selezionata schiera di ospiti al suo cospetto, al palazzo di Santa Maria in Portico. Lei si era presentata a quei finissimi ferraresi con indosso il suo vestito preferito, di broccato color morello, sulle spalle un manto d'oro bordato di zibellino, i gioielli pesanti e la sottile reticella per i capelli davano l'ultimo tocco di regalità al suo aspetto.

Risentiva ancora il fardello di tutto quell'oro, mentre scendeva i gradini uno per uno, sottobraccio a un vecchio cortigiano dai capelli bianchi scelto appositamente da suo padre per non farla avanzare da sola verso gli ospiti.

Di quell'incontro, non ricordava molto d'altro. Ne era seguito un banchetto, ma quello andava a confondersi con tutto il resto.

La seconda immagine che riaffiorò subitanea alla sua memoria fu il ricevimento che lei stessa aveva tenuto nei suoi appartamenti a Santo Stefano. Si era tenute strette le sue cinquanta dame, usandole quasi come una fortezza, lasciando che gli occhi voraci dei giovani ferraresi cadessero su di loro, piuttosto che su di lei che, anzi, aveva fatto in modo di mostrarsi il più possibile coperta di veli e tuniche.

La musica, quella volta, era leggera, ma le aveva dato ugualmente la nausea, come si trattasse del gemito flebile di un morente.

Aveva danzato, anche con Ferrante Este, aveva fatto sì, però, che tutti venissero catturati da Angela Borja, più che da lei. Voleva che l'attenzione ricadesse sulla quindicenne, promessa sposa di Francesco Della Rovere e non su di lei, ventunenne, già una volta vedova e con un matrimonio annullato alle spalle...

L'ultimo ricordo che la colpì, mentre ormai le sue damigelle le dicevano che era ora, che si doveva andare, riguardava un paio di sere addietro, quella di martedì. Avevano cercato di non farglielo notare, ma la giovane aveva capito che qualcosa non andava.

I ferraresi avevano avuto un diverbio con il notaio Camillo Beneimbene, accusandolo di aver usato una forma sbagliata dello strumento dotale. Era stato il papa impersona a dirimire la contesa, decidendo di sua sponte che il notaio rivedesse il tutto, attenendosi esclusivamente al criterio ferrarese. Lucrecia aveva capito la mossa del padre: era un segno di fiducia, per far capire al Duca di Ferrara che il pontefice non temeva alcuna truffa. Tuttavia, l'unica cosa che le era rimasta nel petto, dopo aver saputo con che facilità Rodrigo aveva archiviato la questione, era stata la sensazione di essere ormai stata venduta, di non essere più una proprietà di interesse, per suo padre...

Per lei era stato pagato il prezzo giusto, e tanto bastava ad Alessandro VI per non accanirsi con ulteriori pretese...

Prima che potesse avvedersene, Lucrecia era pronta. Imbottita nel suo abito di velluto cremisi e broccato d'oro, foderato d'ermellino, si lasciò trasportare come una zattera dalla corrente. Le sue cinquanta damigelle la sospingevano, la stordivano di chiacchiere, la circondavano senza darle tregua.

Le trombe e le trombette l'accolsero alla lettura dell'atto matrimoniale, confondendo quella piccola parte di lei che ancora non si era lasciata trascinare via dall'impetuoso turbinio di quella fredda, ma limpida giornata di dicembre.

Il discorso che ne seguì, la Borja ne fu molto lieta, venne fatto abbreviare dal papa, che, con un gesto spazientito, aveva fatto capire all'oratore di sbrigarsi, per non annoiare troppo i presenti. A quel punto, Ferrante, fratello di Alfonso, lo sposo designato di Lucrecia, si fece avanti e le consegnò l'anello.

Trovando la voce laddove non pensava di riuscire a trovarla, la ragazza rispose con tono molto chiaro che l'accettava.

Fatto questo, come se fosse scattata una nuova fase del cerimoniale, mentre si registrava formalmente l'atto, il Cardinale Ippolito, splendente nel suo abito talare dal taglio inusuale, contrasse il volto in un sorriso e, sistemandosi un attimo i lunghi e liscissimi capelli, indicò Giovanni Ziliolo, che lo seguiva con un cofano di gemme.

L'Este disse due parole, quasi in modo sbrigativo, e poi fece aprire il cofano, facendo sì che le gemme contenute passassero dalle mani del tesoriere a quelle del pontefice e poi alla Borja, affinché a nessuno di loro sfuggisse il lusso di quel regalo.

Visti tutti i gioielli, Lucrecia ne lodò la forma, il colore e il valore, ma poi, con una vena di scaltrezza che non sfuggì ai più acuti, e nemmeno al fratello Cesare, commentò, con apparente ingenuità: “E trovo ammirevoli e preziosi anche gli ornamenti e i lavori che sono attorno a queste gemme...”

Nessuno fece eco a quelle parole, e così il papa in persona diede il permesso agli altri invitati di mostrare i propri doni, in modo che si cominciasse davvero a festeggiare quella novella sposa di cui era orgoglioso di essere il padre.

E mentre ancora la cerimonia della consegna dei regali di nozze si consumava come un teatro d'opulenza, in piazza San Pietro anche i romani cominciarono a festeggiare, con musiche e canti, finti assalti a un finto castello – attività così appassionante da far contare venti veri feriti – e fiumi di vino.

 

Da quando Fortunati aveva lasciato la villa di Castello, Caterina si era fatta ancor più solitaria del suo solito. Si era ripromessa di mettere in atto il suo progetto, ossia trovare il modo di domandare più libertà per andare in convento, e magari farsi anche accordare una celletta da Suor Elena, in modo da avere uno spazio suo e soltanto suo ogni volta che si recasse alle Murate, ma di fatto, quel 31 gennaio, sentiva di non aver la forza nemmeno per pensare a certe cose.

Aveva ripreso a nevicare, e la casa le pareva gelida. Aveva rifuggito la compagnia anche di Galeazzo e di Bernardino che pure, più di tutti gli altri, la reclamavano silenziosamente, ma di continuo.

Aveva dato ordine che quella sera, in memoria del Capodanno che aveva sempre festeggiato prima a Milano e poi in Romagna, si servisse una buona cena e aveva trovato anche il modo di chiedere a Troilo De Rossi se avesse qualche richiesta particolare per le portate.

“Mi piacerebbe – aveva detto lui, con uno sguardo molto eloquente, che aveva lasciato intendere a Caterina che Bianca gli avesse parlato diffusamente anche di lei – della cacciagione... Ma so che non sarebbe mai buona come quella che caccereste voi in questi boschi.”

La Leonessa aveva colto l'invito, molto chiaro, a prendersi una parentesi di libertà, ma, nonostante il brivido che aveva provato anche solo nel pensare di andare nel bosco, a caccia, la paura per le eventuali conseguenze ebbe il sopravvento.

Non sapendo ancora quanto potesse fidarsi dell'emiliano, né quanto, di fatto, lui potesse, eventualmente, difenderla coi francesi, si trovò a rispondere laconica: “Per me il tempo della caccia è finito da parecchio...”

Il De Rossi, allora, aveva fatto un'espressione un po' intristita e aveva commentato, mesto: “Allora quali che siano le portate scelte da voi, andranno certamente bene anche per me.”

Era pomeriggio inoltrato, e ripensare a quel breve dialogo aveva incupito molto la Sforza. Aveva da poco lasciato la sua stanza, stufa di guardare il soffitto o fuori dalla finestra, e aveva imboccata la strada per la sala delle letture. Non aveva volumi che le interessassero particolarmente, nella biblioteca, trattandosi perlopiù o di opere di scarso valore, o a tema teologico. Doveva trovare il modo di recuperare qualcosa di più interessante, anche per il bene dei suoi figli... Però, per quel giorno, le sarebbe andato bene anche un messale. L'importante era distrarsi.

La porta della sala delle letture era accostata. Dallo spiraglio aperto filtrava la luce viva del camino e di almeno una dozzina di candele. Caterina capì subito che doveva esserci qualcuno, ma, nella sua mente, ipotizzò che si trattasse di Sforzino.

Rimase quindi molto interdetta, quando sentì la voce di Troilo e, poco dopo, quella di Bianca che gli rispondeva con una breve risata. Erano soli, per certo, eppure la Tigre trovò quasi sfrontato il loro modo di starsene in quella stanza a quel modo...

Era cosciente che i due passavano ogni notte assieme, e, spesso, quando di giorno non si vedeva nessuno dei due in giro per la villa per qualche ora, sapeva che si erano di nuovo rintanati nella stanza dell'emiliano... E tuttavia sentirli parlare tranquillamente, quasi come una coppia di lungo corso, in un punto della villa dove chiunque avrebbe potuto vederli o anche solo sentirli, la metteva in forte agitazione.

Fu tentata di entrare nella biblioteca all'improvviso, interrompendoli, gelandoli con uno sguardo fulminante... Poi ascoltò meglio. Addirittura, si avvicinò allo spiraglio aperto della porta e sbirciò dentro.

Seduti l'uno accanto all'altra, davanti alle fiamme vive del camino, sfogliavano assieme un libro e lo commentavano, parola per parola.

Quella scena ricordò alla Leonessa le lunghe sere passate con Giovanni nello stesso modo, leggendo e rileggendo l'opera di Boccaccio, o qualsiasi altra cosa finisse nelle loro mani. Riconobbe la stessa complicità, la stessa tranquilla gioia.

Non se la sentì di strappare quel momento perfetto a sua figlia. Indietreggiò lentamente, si sforzò di non fare il minimo rumore. Avrebbe cercato Creobola, l'unica serva che sembrava aver capito esattamente cosa stava succedendo tra la Riario e il De Rossi, e l'avrebbe pregata di fare in modo che nessuno li disturbasse. Quando sarebbe stato il momento di andare a cenare, pensò, se avessero tardato troppo sarebbe andata direttamente lei a chiamarli.

 

Bianca voltò appena la testa verso la porta. Le pareva di aver sentito un rumore, ma dopo qualche secondo si convinse di essersi ingannata.

Troilo, accigliandosi un istante, fece altrettanto, ma solo in riflesso al movimento della ragazza.

“Tutto bene?” le chiese, perplesso.

La giovane scosse il capo, spiegando la sensazione avuta, ma poi tornò subito a concentrarsi sul libro che avevano davanti: “Ti assicuro – gli disse, sfogliando qualche pagina – che sono cresciuta leggendo cose molto più interessanti.”

“Per esempio?” indagò lui, che, pur avendo avuto una buona istruzione, doveva ammettere di aver letto solo ciò che era stato ritenuto strettamente necessario dai suoi precettori.

“Per esempio... l'Ars amatoria. Ovidio.” sorrise lei, chiudendo il volume e dando un bacio all'emiliano, scandendo poi: “Oscula qui sumpsit, si non et cetera sumpsit, haec quoque, quae data sunt, perdere dignus est...”

Il De Rossi, che pur si era sforzato di capire la sua innamorata, si accigliò e, dopo aver accettato un altro bacio di Bianca, molto più profondo del primo, chiese: “Mi traduci..?”

Con una risatina che la riportava prepotentemente alla freschezza dei suoi vent'anni compiuti da un paio di mesi appena, la Riario tradusse, diligente: “Chi ha preso i baci, se non ha preso anche il resto, merita di perdere anche quello che gli è stato dato...”

L'uomo finalmente capì il perché dell'audacia crescente dei baci di Bianca e, divertito da quell'uso perfetto fatto delle parole di Ovidio, chiese: “Tra quanto sarà servita la cena?”

La ragazza, posando una mano sulla lunga gamba di Troilo e massaggiandolo un istante, saggiandone la robustezza dei muscoli, rispose: “Non credo che ceneremo prima delle nove, questa sera... Domani è Capodanno...”

Sollevando un sopracciglio, l'uomo prese l'ingombrante volume dalle mani della Riario e l'appoggiò sul tavolinetto davanti a loro: “Potremmo chiudere la porta a chiave e...”

Divertita all'idea di seguire quella proposta – che tanto folle non le sembrava, essendo cresciuta in una rocca in cui sua madre non si era mai fatta grossi problemi nell'appartarsi ovunque con l'uomo che preferiva al momento – la ragazza annuì subito, aggiungendo: “Però dovremo stare attenti...”

“Credevo fossimo d'accordo entrambi, a provare ad avere un figlio già ora...” ribatté lui, fingendo di non capire, ma, intanto, andando alla porta, per serrarla al meglio.

“Se concepissimo un figlio in una biblioteca, poi ci toccherebbe chiamarlo Aristotele... O Seneca...” scherzò Bianca, alzandosi dal divanetto, mentre il De Rossi tornava verso di lei con lo sguardo acceso di desiderio.

“Od Ovidio...” scherzò lui, ma poi, quando le si trovò di nuovo accanto, cominciando a sfiorarle i fianchi e a cercarne le labbra con le proprie, chiese, molto serio: “Tu come lo vorresti chiamare, un figlio?”

“Tu?” domandò lei, quasi sulla difensiva, accettando, però, il tocco delle sue mani e il fervore crescente dei suoi baci.

Fermandosi solo un istante, l'uomo fece un sospiro silenzioso e abbassando gli occhi color ambra, rispose: “Se fosse un maschio, vorrei chiamarlo Pier Maria.”

La Riario conosceva la storia di Pier Maria il Grande e anche di come avesse sempre penalizzato il figlio, ossia il padre di Troilo. Le sembrava un controsenso...

“Voglio far tornare grande il nome dei De Rossi. Per farlo, voglio che sparisca ogni ombra.” fu la breve e criptica spiegazione dell'uomo, che era tornato a farsi troppo distratto dalle grazie della sua donna, per esprimersi come si doveva.

“Allora sono d'accordo.” sorrise lei, facendosi appunto mentale di chiedere di nuovo a Troilo il motivo di quella scelta, quando fossero stati più presenti a loro stessi.

“E se fosse femmina? Che nome ti piacerebbe?” chiese lui, cominciando già ad armeggiare con le sue sottane, facendola indietreggiare fino al muro, per trovarvi un sostegno e poterla finalmente amare come chiedeva.

“Mi piacerebbe Costanza.” rispose lei, di getto, senza avere né la voglia né la lucidità per spiegare il perché di quella sicurezza nel rispondere.

Affondando il volto nel collo di lei, l'emiliano domandò, stupito: “Non Caterina?”

“No.” il diniego di Bianca fu così fermo e irrevocabile, che Troilo pensò fosse meglio non insistere, non in quel momento, almeno.

“Dunque se sarà maschio sarà Pier Maria – riassunse, con il fiato già corto, le mani che si intrecciavano in quella che ormai considerava come una moglie a tutti gli effetti – e se sarà femmina, sarà Costanza.”

La Riario annuì e, sorridendo felice come se l'aver scelto un nome fosse già il primo passo per avere tra le braccia un neonato, tornò a baciare il suo Troilo, senza farsi altre domande, senza nemmeno temere che qualcuno davvero li trovasse lì a quel modo, avviluppati come le spire di due serpenti, rossi in viso e con il respiro tronco, intenti ad amarsi con la frenesia di chi aveva la consapevolezza che quei giorni di pace presto sarebbero finiti e che tutto sarebbe diventato più complicato, non per colpa loro, ma per colpa del mondo che li circondava e che con le sue dure regole altro non avrebbe fatto, se non metterli in difficoltà.

   
 
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