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Autore: Ciuscream    08/11/2021    4 recensioni
Nell’arcipelago di Pentidad, vi è una leggenda: quando i protetti di Oyàla e Seruh si incontreranno, uno dei due dovrà sconfiggere l’altro e mettere fine alla guerra secolare che i due Dei conducono lontano da occhi mortali. Izar è soltanto una ragazza come tante, nell’Isola degli Stracci; non sa cosa la Dea, il destino o chiunque tessa le trame della sua sorte, abbia in serbo per lei. E, soprattutto, cosa possa fare per cambiare le carte in tavola.
“Quando il fuoco ed il vento incontreranno le spade e la morte, ci sarà una sola corona, un solo regno, un solo Dio.”
Genere: Fantasy, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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CAPITOLO V. FUGA – parte terza
 
La stanza puzzava di umanità in eccesso, di umori, sudori e umidità. Izar stava stretta in quei pochi centimetri di spazio che si era ritagliata; vista la corporatura, era riuscita ad insinuarsi in un anfratto che le permetteva di avere la schiena appoggiata al muro, così da poter posare la testa all’indietro e tentare – almeno – di chiudere per qualche istante gli occhi. Era abituata a condividere la stanza con altre persone; fin da bambina aveva dormito con i cugini – maschi e femmine, più grandi e più piccoli. Ma tutte quelle persone, quegli occhi spaventati, quei respiri pesanti, quell’odore acre di urina e cibo avariato, le dava la nausea e un senso di costrizione all’altezza del petto. Sua madre riposava poco lontano; era stata meno fortunata, stava dormendo praticamente seduta, retta dalla schiena di altri due sconosciuti e della donna con il neonato che aveva intravisto appena arrivata. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato, dal loro ingresso: i minuti le sembravano infinitamente lunghi e sfiancanti e, nonostante la stanchezza della giornata trascorsa, il suo corpo non aveva intenzione di arrendersi: era teso e all’erta come non mai. Una leggera tachicardia segnava il ritmo del suo tempo, sbattendo contro lo sterno quel suo personale tormento, che sentiva come uno dei tanti, lì, in mezzo a quel gregge di disperazione tutta uguale e tutta diversa.
Il pane duro che le aveva porto una guardia al suo arrivo le era rimasto incastrato fra i denti e il cattivo sapore del grano le sporcava ancora la lingua; quelle gocce d’acqua che le erano state concesse erano riuscite appena a bagnarle le labbra secche e scivolarle lungo la gola arida, evitando che il cibo la grattasse con i suoi angoli irregolari.
Non sapeva dire come stesse e mai, prima di quella volta, se l’era chiesto con così tanta insistenza. Era stanca, stanca tanto da non riuscire a dormire, stanca di una stanchezza che nemmeno il sonno – ne era sicura – avrebbe potuto lavare via. Non avrebbe mai pensato, nemmeno nelle fantasie più vivide che aveva spennellato con Gabre, che tutto quello che era successo nelle ultime ventiquattro ore, sarebbe potuto capitare a lei. Aveva osservato la vita delle donne del villaggio, l’aveva detestata ed invidiata, al tempo stesso. Avevano la tranquilla stabilità della normalità, del succedersi delle cose tutte uguali; le aveva sempre dato un senso di capogiro e un senso, invece, di fermezza, quel destino. Aveva iniziato ad elaborarlo presto, aveva iniziato a prendere confidenza con quella che era la vita che le era stata destinata alla nascita; ci era venuta a patti. Non aveva smesso di sognare, però: avevano poco pane, poca acqua pulita e pochi vestiti. Di sogni, invece, abbondavano; non ne erano mai diventati saturi, perché si sogna meglio, si osa di più, quando si è certi che ogni fantasia non sarà mai avverata. Ma adesso quelle fantasie sembravano un ricordo lontanissimo e vacuo, come se – a dividerla dalla pignatta e dai giochi – non fosse poco più di un giorno ma secoli densissimi.
Due guardie, in fondo alla stanza, giocavano ad un gioco semplice, con dei dadi; il rintocco di questi contro il bicchiere di legno che si passavano, le dava un senso di fastidio a premerle sui timpani. Era un suono ritmico, intervallato dalle loro risate roche e sguaiate, completamente indifferenti alla distesa di corpi che li contornava, al loro sonno o al tentativo di cadere nello stesso. Izar li sentiva parlare: comprendeva le loro parole ma avevano un accento strano e un abbigliamento insolito. Aveva visto una sola volta quelle sottili armature, in occasione di una rivolta dovuta ad una carestia che aveva decimato la popolazione di un villaggio vicino al suo; molte persone avevano protestato, non sapevano di preciso contro chi – gli Dei, il Re – ma era arrivato solo quest’ultimo ad occuparsi di loro. Anzi, aveva mandato le sue guardie e, salve donne e bambini, gli uomini erano stati deportati all’Isola delle Bestie – “è lì, il vostro posto”. Le prime, invece, erano state stuprate, alcune deportate, i secondi risparmiati perché inutili a qualunque fine, anche a quello del piacere misero del sesso. Erano soldati ma avevano pur sempre un limite che nemmeno loro si sognavano di oltrepassare, con gli Dei lì a guardare.
Di lì a poco, un colpo di uno dei due soldati sul piccolo tavolinetto che avevano di fronte rimbombò con potenza di tuono all’interno della stanza; il bicchiere coi dadi e il tavolo si ribaltarono, schiantandosi a terra con violenza. Le guardie si fissarono l’un l’altra in silenzio per un secondo poi scoppiarono in una risata quasi grottesca, carica di vino e sporcata dal ricordo del cibo, mentre molte delle persone che erano riuscite ad addormentarsi spalancarono gli occhi con un sussulto. In particolare, il neonato tra le braccia della donna dalle lunghe trecce corvine prese a divincolarsi: un urlo di sirena esplose dalla piccola bocca, un urlo di fame, di sete e di sonno, che esalava la disperazione antica che solo chi non ha ancora freni può sprigionare. Sua madre lo guardò allarmata; gli posò una mano sulle labbra, ma le grida erano talmente potenti da sfilare oltre le pieghe delle dita e allagare la stanza del loro eco. La guardia all’ingresso si tirò su di scatto; l’arco ai suoi piedi cadde con un gran fracasso e questo lo calciò alla bell’e meglio lontano. Aveva gli occhi spalancati e feroci, diversi da quelli annoiati che Izar aveva visto al suo arrivo. Puntò un dito contro la donna, mentre gli occhi di tutti gli altri altalenavano tra il suo polpastrello e il terrore dipinto sul viso della giovane.
«Dimmi che cazzo ti ho detto! Che dovevi farlo stare zitto o vi avrei buttato fuori tutti e due! Fallo star zitto!»
«S-sì, certo, adesso...» Le parole della madre si percepirono appena, invase dagli strilli del bambino; lei gli poggiò le labbra sulla fronte che, si accorse, scottava di una febbre che sperò non venirgli da dentro, di quelle che ti corrodono in pochi giorni l’anima, di quelle che né erbaliste né preghiere riescono ad assopire. Ma non riuscì nemmeno ad essere preoccupata di quella prospettiva: pregava soltanto che la voce di suo figlio gli si spegnesse in gola. Sapeva che non avrebbe smesso: era stremato dal sonno e dalla fame, come chiunque altro lì dentro, ma non aveva la forza né la capacità di resistere, con quella manciata di giorni di vita che portava sulle spalle. Avrebbe voluto poterglielo dire, avrebbe voluto che potesse capire: lo stava facendo per lui, lo stava portando via, alla ricerca di un futuro diverso da quello secco e polveroso di Nerva, lontano dalle fatiche senza scopo, dai giorni tutti uguali, dall’intervallarsi incessante ed inesauribile di giorni di sforzo e di lotta con la propria stessa esistenza. Glielo doveva perché lei lo aveva messo al mondo e, quindi, lo aveva condannato a quel vivere infame. Glielo doveva e lui adesso doveva stare solo stare zitto.
«Ti prego, Joao, ti prego… piano amore, piano, shhh…» Il pianto folle del bambino non accennò a quietarsi nemmeno quando quella piccola nenia gli capitolò sul timpano; sembrava sordo a quella richiesta insistente della madre perché prestava orecchio solo alle morse della fame, del caldo asfissiante, del prurito dato da quella coperta lacera che aveva addosso probabilmente da giorni e che era sporca di ciò che non sapeva ancora trattenere. Sua madre, però, lo supplicò ancora mentre la guardia iniziava a farsi spazio, puntellando i piedi contro i corpi, a creare un sentiero per raggiugerla.
«Per Trunt, fallo star zitto o vi ammazzo! Vi ammazzo adesso!»
Izar fissò con occhi spalancati quella scena, impietrita, immobile di una paura molto più antica di quelle che aveva provato fino a quel momento. Una paura fredda e opprimente – quella che avrebbe scoperto poi essere la paura della morte. Sentiva la donna tremare, la vedeva impercettibilmente sbattere contro sua madre, con le dita a perdersi una contro l’altra in un tintinnio lugubre, mentre provava a portarle ancora al viso del bambino.
«Shhh, ti prego, ti prego…» La donna glielo soffiò ancora addosso, sopra gli strepiti, un attimo prima che la guardia la raggiungesse e allungasse una mano su di lei.
La schiena dell’uomo arrivò a coprirle la visuale. Nella stanza, oltre quel pianto disperato, regnava un silenzio irreale, densissimo, come se tutti quei corpi avessero anche smesso di respirare, nell’attesa di ciò che sarebbe venuto. Un attimo dopo, sentì solo il grido strozzato della donna mescolarsi a quello del bambino che aveva tra le braccia; vide le sue gambe alzarsi in modo innaturale e, con orrore, capì. L’uomo l’aveva afferrata per i capelli, stringendo le dita sporche e tozze contro le trecce crespe della donna e tirandole con forza. L’aveva afferrata con così tanta violenza da farla staccare da terra, facendole perdere l’equilibrio più volte, mentre inciampava sui corpi dei tanti altri avventori.
«Piano, piano, per pietà! Il bambino…» Quel piccolo fagotto di carne e rumore aveva rischiato di scivolare dalle mani della madre parecchie volte, con la coperta cenciosa a coprirlo che si srotolava pericolosamente. La donna continuò a pregare, pregare e gridare del dolore, per tutto quel breve percorso mentre la guardia la trascinava fuori e il neonato non accennava a chetarsi.
«Adesso vi faccio stare zitti io, entrambi. Una volta per tutte!» Se la strascicò dietro per quei pochi passi difficoltosi che separavano entrambi dalla porta. L’uomo la spalancò con un colpo secco della punta del piede e una leggera brezza si levò dal mare, a rinfrescare i visi orripilati che Izar scorse intorno. Si disgustò di quel piccolo piacere che aveva provato, mentre il venticello le solleticava il viso, concomitante a quella scena di una violenza così gratuita, a cui mai aveva dovuto assistere.
Le altre due guardie, nel frattempo, avevano risollevato il piccolo tavolo e adesso fissavano ognuno dei presenti, tutti identicamente rivolti alla porta, le pupille larghe sul legno che andava richiudendosi.
«Fatevi i cazzi vostri, o i prossimi siete voi.»
Gli strilli del bambino sparirono pian piano, come se si stesse allontanando sempre più dalla piccola struttura; a contrario, quelli della madre si facevano via via più alti e disperati, spezzando l’aria di parole laceranti e confuse. Izar si premette le mani sulle orecchie perché aveva paura che quella disperazione non riuscisse a rimanere confinata nello spazio attorno ma finisse per penetrarle nell’anima, a puntellarla fino all’eternità di quel suono così acuto di dolore. Non sapeva che sarebbe stato davvero così. Per questo pregò Pedira di farla smettere o di farla diventare sorda o di farla sparire e basta da quel luogo di incubo. Non funzionò.
La donna continuò ad implorare e alle sue parole si mischiarono le lacrime; non le vedeva ma poteva immaginarle scendere copiose su quel viso magro e sfinito, segnato nonostante la giovane età. Le parole non erano che mugugni ormai, accrocchi di sillabe incomprensibili che sfociarono, d’improvviso, in un grido più acuto che mai, quello che ad Izar sembrò preannunciare la fine.
Un colpo secco si stagliò contro il muro alla sua destra, facendo sobbalzare di nuovo tutti i presenti. Le urla della donna si chetarono di colpo e la guardia ci mise un po’ più del previsto a rientrare.
 
*
 
I minuti che separarono quel colpo dall’alba furono i più lunghi che Izar avesse sperimentato nella sua breve vita. Tutti all’interno di quella stanza erano rimasti immobili, non avevano più osato pronunciare una sola parola. Anche respirare sembrava essere diventato un lusso ed ogni esalazione era stata misurata e praticamente impercettibile. Nessuno aveva osato fare domande alla guardia, nessuno aveva azzardato di chiedere della sorte del neonato o della ragazza, ognuno troppo occupato a difendere strenuamente la linea sottile della propria esistenza. Questa, seppur misera, era almeno affacciata su un ignoto profondo e scurissimo rischiarato dalla debole luce della speranza.
Izar scoccò un’occhiata rapida alla madre: per lei, non vi era questa consolazione. Ogni attimo trascorso dalla sera precedente era un interrogativo che si accumulava ad un altro e tutte quelle persone intorno a lei le sembravano disperati allo stesso modo, fuggiaschi, magari assassini, come sua madre, magari solo dei poveri sfortunati, come la donna che era appena scomparsa. Non sapeva dove sarebbe finita né perché sua madre l’avesse trascinata in quell’incubo che aveva i tratti crudi e secchi della realtà. Non fece in tempo, però, a ricercare di nuovo il suo sguardo, come molte altre volte aveva fatto senza successo, perché la guardia all’ingresso si risvegliò dal torpore in cui era caduta. Sbatté forte due colpi a terra con il tacco dello stivale e il suono rimbombò con colpo di frusta nel silenzio tetro della stanza. Deboli spiragli di luce filtravano dalle imposte, segno che il sole stava timidamente affacciandosi a illuminare un nuovo giorno impregnato dell’odore acre della paura. I corpi delle persone lì attorno iniziarono a riscuotersi da quell’immobilità che aveva seguito la scena di poco prima. Corpi cenciosi che sbattevano l’un l’altro, mugugnando delle imprecazioni o delle scuse a mezza voce, sibili più che sillabe, pensieri che si erano tramutati in parole solo per metà.
«In piedi, forza! Fate veloci, raccogliete quello che vi siete portati e vedete di non far troppo rumore. Avete dieci minuti»
La guardia parlò ancora e, in mezzo ai mormorii, la sua voce svettò cristallina, nonostante la raucedine, e raggiunse le orecchie di tutti senza sforzo. Il comando era stato chiaro ma nessuno aveva molto altro se non le sue stesse membra, da raccogliere. Le due guardie che prima giocavano stavano ancora stiracchiandosi nell’angolo, risvegliate da un sonno scomodo e da un mal di testa al gusto d’acino. Gettarono in un angolo il piccolo tavolo da gioco e il bicchiere con i dadi cadde a terra, facendoli rotolare entrambi lontano dai loro piedi. Uno capitolò contro il sandalo di Izar, che se ne accorse per caso, mentre risaliva la parete con i palmi delle mani, per trovare l’appoggio stabile che non avevano i piedi, con troppo poco spazio per poter fare pressione. Il dado le mostrò un due malconcio, eroso, bucato alla bell’e meglio sul legno graffiato; sembravano due occhi dallo sguardo perplesso, come a riflettere probabilmente quello che Izar donava loro. Si perse per una manciata di secondi a fissare quei deboli solchi, come se dentro nascondessero un messaggio che non era in grado di interpretare, come le rune che suo padre leggeva sui sassi.
La distrasse soltanto la voce di sua madre, il cui tono, dopo così tanto silenzio, le donò una sensazione di allagante tepore al centro del petto che, per un attimo, acquietò ogni ansia e spense ogni timore.
«Preparati, stiamo per andare.» Le snocciolò, con le dita a stringere con leggera pressione il piccolo polso della figlia.
Izar le si avvicinò piano, mentre, ad ogni passo, qualcuno le si aggrappava alle vesti per mettersi in piedi. Alcuni, quelli più in difficoltà, erano afferrati e sollevati di peso direttamente dalle due guardie che si facevano spazio verso la porta.
«Dove, mamma?»
«Tra poco saprai. Fidati di me» Il tono era perentorio e supplichevole al contempo, macchiato da un dispiacere così sfacciato da venire in superficie tra le lettere e non poter essere nascosto nemmeno dietro la diga delle labbra. Izar non ribatté ulteriormente ma, ammetterlo anche a sé stessa le provocava fastidio, non si fidava di lei né di quelle persone che le stavano attorno. Le sembravano tanto diverse da lei e tanto diverse da suo padre, lontano, probabilmente impegnato nel cercarla per condannare la sua stessa figlia, quella che aveva speso la vita ad indirizzare, ad istruire.
Un brivido le contorse la bocca dello stomaco.
Le guardie che erano in fondo alla sala iniziarono a spintonare i corpi sparpagliati per cercare di creare una sottospecie di fila, pungolando i più all’altezza degli stinchi con calci e colpi con l’arco; la gente si spostava a fatica, trascinando piccoli passi, quelli concessi dalla stanchezza imperante e dallo spazio più che esiguo. La guardia all'ingresso, nel frattempo, aprì la porta, affacciandosi giusto con il naso ed osservando con movimenti rapidi la radura allagata di sole. Dopo qualche secondo, fece cenno agli altri due di farsi avanti. Questi spezzarono la fila appena creata per farsi spazio, spintonando qua e là, e mentre si allontanavano, la madre di Izar la trascinò in fondo alla fila, posizionandosi per ultima e tenendo la figlia stretta di fronte a sé.
«Mettiamoci qua, saremo meno schiacciate»
Izar si limitò ad annuire.
 
*
Sfilarono fuori dalla stanza in un silenzio cupo e, allo stesso, fibrillante; anche le guardie sembravano aver poca voglia di parlare, biascicando ordini poco chiari e mimandoli, perlopiù, con gesti ampi delle braccia. L’aria del primo mattino era piacevole e frizzante: il mare poco lontano faceva salire una brezza leggera ed era sporcato dalle sfumature rosate che Izar aveva visto spesso ma che riflesse sull’acqua creavano giochi cangianti e mutevoli, a lei inediti. Se ne stupì, una volta svoltato l’angolo e trovatasi di fronte alla grande distesa piatta dell’acqua. Sua madre richiamò la sua attenzione poggiandole una mano dietro la schiena e, come per un riflesso incondizionato, il viso di Gabre, le sue piccole cicatrici ad allagargli il viso, comparvero di fronte agli occhi di Izar come un lampo improvviso. Mancò un battito, per un istante soltanto. Sognò di essere al villaggio: lì, il sole che non aveva lo schermo della foresta alle sue spalle, doveva già allagare la piazza ed i campi, quella che un tempo era la sua casa e la casa dell’amico. Non solo: avrebbe invaso presto le imposte di Santiago, quel dolore che, alla luce, sarebbe divento più reale. Si immaginò le sue bruciature, quelle che doveva aver lasciato la scia del fuoco lungo le sue gambe. Non osò pensare oltre, non osò pensare suo padre scavare nel piccolo cimitero un posto per lui. Non osò. Si limitò a tremare appena.
«Tutto bene?»
La voce di sua madre la ridestò da quel pensiero, facendola tornare bruscamente alla realtà. Non c’era il villaggio, non c’erano visi amici: c’erano paia e paia di occhi spalancati, alcuni arrossati dalla brezza, altri lucidi per paura, stanchezza o febbre. Ognuno aveva scritto sulle pupille un desiderio diverso, un destino diverso; solo lei si sentiva di non averne idea, di essere a navigare in un mare molto più burrascoso di quello che adesso si trovava di fronte. Prese un lungo respiro e mise l’ultimo passo dietro la lunga fila che adesso si avvicinava alla riva.
Un’imbarcazione piuttosto fatiscente e non troppo grande increspava il pelo dell’acqua lì vicino e un uomo, al di sopra, armeggiava con grandi matasse di funi, piegato oltre il parapetto.
«Dobbiamo salire lì sopra?» Izar guardò, con un rimpallo veloce, la nave, la madre e gli altri avventori, con le pupille che man mano si allargavano rapide. «Non ci staremo mai tutti»
Sua madre scosse debolmente il capo: la guardò bene per la prima volta dal giorno precedente. La luce dell’alba le cadeva sul viso che adesso le sembrava stremato: aveva occhiaie profonde e severi solchi ai lati degli occhi, come se quelle poche ore le avessero rubato molti giorni di vita. L’avevano sempre scambiata per sua sorella, perché né il sole né la dura vita del villaggio avevano sciupato la sua bellezza fanciullesca. Ma, adesso, di fronte a quel viso stanco, anche Izar si sentiva fremere e sentiva che, se non avesse retto lei l’urto, non ce l’avrebbe mai fatta da sola. Se quello che stavano facendo avesse spezzato sua madre, lei sarebbe rimasta un germoglio scosso dai venti, perso in balia di questi.
Non ebbe tempo di pensare oltre; la fila si era quasi esaurita di fronte a loro e sciami di cenci, di facce finite e mani callose, sfilò prima dentro l’acqua, fino alla fune che pendeva oltre la nave. Alcuni fecero più fatica di altri a risalire, con il corpo debole e la corda muschiosa, quei pochi centimetri di spazio. L’uomo che aveva intravisto prima si era fatto più vicino ed aiutava senza grazia le persone ad issarsi, scaricandoli a mo’ di sacchi di sale alla sua destra, una volta scavalcato il parapetto.
«Muovetevi, per Trunt! Muovetevi!» La voce era spezzata così come il suo viso; adesso Izar poteva vederlo con chiarezza. Lo avrebbe definito il viso di un giovane vecchio: si vedeva che doveva essere non più che un ragazzino ma aveva perso l’occhio sinistro e la pelle era rotta e cotta dal sale e dal sole. Non aveva abiti cenciosi come i suoi o quelli della gente che li circondava: aveva una camiciola pulita, seppur bagnata in più punti, e dei pantaloni di un tessuto spesso e che, a lei, sembrava estremamente morbido, ben lontano da grattare la pelle come quello che toccava a loro.

I corpi intorno al ragazzo iniziarono ad aumentare e lo spazio, sulla barcarola, si face sempre più esiguo. Izar, se fino a quel momento aveva temuto di partire per quella direzione ignota, adesso si sentì mancare l’aria all’idea di essere lasciata a terra, braccata da mostri invisibili e paure indicibili, che non osava nemmeno figurarsi nella testa. L’Isola delle Bestie era ancora più macabra, lì dentro.
La guardia le fece uno sbrigativo cenno di venire avanti.
«Forza, ragazzina. Non abbiamo tutto il giorno!»
La madre, da dietro, le diede una piccola spinta; lei allungò la mano alle sue spalle, per aggrapparle piano la veste, quasi a costringerla a seguirla mentre metteva i primi passi nell’acqua fresca del mattino. Si fissò per un istante i piedi: l’acqua le rimandò il suo riflesso scaruffato, con quell’abito da notte che si era dimenticata di indossare e che la fece avvampare alla base del collo.
«Allora? Ti muovi?»
Izar annuì velocemente e sua madre le sciolse la stretta dei polpastrelli contro la stoffa, lasciandola proseguire da sola. Non si chiese il perché, intenta com’era ad addentrarsi dentro l’acqua in cui sprofondava sempre più velocemente. In pochissimi passi, il freddo del mare le lambiva il seno acerbo. Si voltò indietro ad osservare la madre che, ancora oltre il limitare della riva, la fissava con uno sguardo che trasudava qualcosa che non aveva la forza di riconoscere. Urlò, mentre le dita andavano ad aggrappare la corda e paia e paia di mani la aiutavano ad issarsi.
«Mamma, sbrigati!»
Sua madre continuò a fissarla mentre piano sfilava oltre il legno, andandosi a perdere tra le decine di altri corpi, precipitandoci sopra senza grazia. Izar non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, mentre tentava di mettersi in piedi, schiacciando e spingendo, per raggiungere il lato della barca rivolto verso la foresta e la casa diroccata che aveva appena lasciato.
«Mamma! Cosa stai aspettando?»
Nella voce, un tono di allerta e terrore sembrava allagarla sempre di più mentre i decibel frizionavano l’aria con potenza di lama. Gridava; gridò e gridò ancora. Le sillabe sporcate di una paura senza nome.
«Mamma! Sbrigati, sbrigati! C'è ancora posto!» Mentì, non ce n'era; ma non poteva figurarsi l'idea che non la raggiungesse, non riusciva a comprendere il perché non si fosse ancora immersa.
La guardia rimasta sulla riva piazzò l’arco davanti alla donna, sbarrandole la strada.
«Te lo ripeto, donna. Se vuoi imbarcarti, sono altre due monete.»
Izar non poté cogliere quelle parole: vide solo sua madre scuotere appena il capo mentre la guardia alzava il braccio armato con un colpo. Era evidentemente un segnale, perché il ragazzo cominciò a tirare su le corde e a buttarle alla bell'e meglio su legno e corpi. Izar si aggrappò al suo avambraccio con veemenza, imbiancandosi le nocche di forza e terrore, scuotendolo per farlo fermare.
«Cosa fai? Mia madre!» allungò una mano verso di lei, indicandogli la riva.
«Mia madre deve salire! Mamma! MAMMA!» Strattonò ancora per le braccia il ragazzo, che la respinse via con un colpo brusco del gomito, piantandolo con violenza in mezzo alle sue costole, tanto da mozzargli il fiato e fargli morire ogni parola sulle labbra.
«E stai ferma!» 
Gocce di sale diverse da quelle del mare le salirono all’orlo delle ciglia, mentre il petto doleva troppo per implorare sua madre ancora. Questa era ancora sulla riva, le mani conserte in una preghiera muta, a cui Izar e gli dei erano sordi. Aveva gli occhi chiusi ma copiose lacrime le rigavano le guance secche e smunte, illuminate dai primi riflessi del mattino che ne disegnavano la traiettoria  fiume riunito all'altezza del mento.
Izar si aggrappò al legno con tutte le sue forze, mentre il fuoco le infiammava le costole e le toglieva il respiro. Continuò a fissare sua madre mentre diventava un punto sempre più piccolo, una sfumatura di dolore lontana, a confondersi con le onde di quel mare piatto. Il petto non era più scosso da grida ma da singhiozzi violentissimi, che tossivano fuori tutta la sua paura, la sua rabbia e il suo sgomento. L'aveva ingannata, l'aveva lasciata andare, l'aveva lasciata sola. Non sapeva dov'era diretta, non aveva il coraggio di chiederlo nemmeno a sé stessa. Le fiamme che poche ore prima avvolgevano Santiago adesso se le sentiva vibrare dentro, se le sentiva crescere oltre le pieghe delle impronte digitali. 

Non seppe mai che, ad ondeggiare sotto di lei e sotto di loro, nel mare profondissimo dell’ignoto e del suo tormento, c'era il corpo di una giovane donna dalle trecce corvine, con una freccia conficcata in mezzo agli occhi.
   
 
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