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Autore: _Agrifoglio_    09/11/2021    12 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Napoleone-ad-Austerlitz

Prima dell’alba aveva sonnecchiato alcune ore e, sano, lieto, riposato, in quella felice condizione d’animo in cui tutto sembra possibile e tutto riesce, era montato a cavallo e uscito sul campo. Stava immobile, guardando le alture che si scorgevano attraverso la nebbia e, sulla sua faccia fredda, era quella particolare sfumatura di sicura e meritata felicità, quale può apparire nel volto d’un adolescente innamorato e felice. I marescialli stavano dietro di lui e non osavano distrarre la sua attenzione. Egli guardava ora le alture di Pratzen, ora il sole che emergeva nella nebbia.
Quando il sole ne fu emerso interamente e con un fulgore abbagliante spruzzò i suoi raggi sui campi e sulla nebbia, Napoleone (come se aspettasse soltanto questo per dar principio alla battaglia) si tolse un guanto scoprendo una mano bella e bianca, fece col guanto un segno ai marescialli e diede l’ordine di dar inizio all’azione.
 
Lev Nikolaevic Tolstoj, Guerra e pace


 
Il sole di Austerlitz


Il mare di nebbia occultava le truppe che, dalla valle, si preparavano a occupare l’altura. Se si fosse diradata troppo in fretta, l’inganno sarebbe stato svelato e il nemico sarebbe stato messo in allerta. Se si fosse alzata troppo tardi, le operazioni belliche sarebbero state ostacolate, perché non sarebbe stato possibile sincronizzare l’attacco.
Non poteva proseguire verso Olmütz, costringendo i soldati a ulteriori marce che li avrebbero sfiancati. Aveva bisogno di una vittoria decisiva e, per ottenerla, aveva progettato, simulato e ingannato. Si era scelto il campo di battaglia e aveva fatto in modo che il nemico, anziché ritirarsi, guadagnando tempo e ottenendo ulteriori rinforzi, lo attaccasse dove lui aveva deciso di combattere.
Disponeva attualmente di settantaduemila uomini e di centotrentanove cannoni mentre le forze avversarie contavano ottantacinquemila soldati e duecentosettantotto cannoni.
Contro di lui erano schierate le truppe dell’Imperatore Francesco II d’Asburgo Lorena e dello Zar Alessandro I Romanov. Quel millantatore del Conte di Compiègne non era riuscito a procurargli l’alleanza con lo Zar. Non ne aveva avuto il tempo oppure neanche ci aveva provato.
Questa coalizione un po’ rattoppata aveva manifestato i suoi limiti nelle settimane passate, perché i russi, essendo ortodossi, seguivano ancora il calendario giuliano, indietro di dieci giorni rispetto a quello gregoriano, adottato dagli austriaci e da tutto l’occidente. Questa circostanza aveva creato confusione e difetto di sincronizzazione, tanto che le truppe dei due Imperatori non si erano congiunte in tempo e ciò gli aveva permesso di trionfare a Ulma e di umiliare il Generale Mack.
Ora, però, la situazione si era capovolta, perché i due eserciti coalizzati si erano riuniti ed erano numericamente in vantaggio mentre le truppe da lui comandate erano stanche, demoralizzate, lontanissime dai propri confini, in marcia forzata da tre mesi e con un sistema di approvvigionamento in sofferenza.
Nei giorni precedenti, si era affannato a ostentare ai nemici un’esagerata debolezza. Nel corso di alcuni piccoli scontri, l’esercito che comandava aveva avuto la peggio e si era ritirato, dando l’impressione di essere in difficoltà. Successivamente, aveva occupato l’altura di Pratzen con soli cinquantatremila uomini e aveva fatto di tutto per dare nell’occhio. In occasione degli abboccamenti coi delegati degli altri due Imperatori, aveva simulato confusione e incertezza, si era mostrato pauroso ed esitante e aveva accettato di buon grado un armistizio. Aveva, poi, abbandonato la postazione strategica sull’altura di Pratzen e, nel farlo, gli uomini si erano ritirati in modo disordinato, così da confermare la sensazione di essere allo sbando. L’altopiano era stato, quindi, occupato, in men che non si dica, dagli austro – russi che, però, ignoravano che il grosso delle truppe avversarie si trovava ancora lì, nella valle ai piedi delle alture, nascosto dalla nebbia che, da due settimane, ricopriva la zona. Bernadotte, poi, stava marciando verso di loro, in modo da portare rinforzi e da ridurre considerevolmente lo svantaggio numerico. Da ultimo, aveva deliberatamente indebolito il suo fianco destro.
Malgrado il Generale russo Kutuzov si fosse mostrato prudente e propenso a ricondurre le truppe nei Carpazi, alcuni ufficiali più giovani erano caduti nel tranello e avevano convinto il titubante Zar ad attaccare. Alessandro I, ventiquattrenne e sprovveduto, aveva condiviso il superficiale ardimento dei coetanei, provenienti dall’aristocrazia di San Pietroburgo e aveva schernito, davanti alle truppe, il sessantenne Generale Kutuzov e altri ufficiali dello Stato Maggiore, creando confusione e incertezza nei ranghi.
Dello stesso avviso di attaccare, si erano mostrati gli austriaci.
La trappola era, quindi, scattata e Napoleone si era posizionato al centro di essa, pronto a dilaniare le sue prede.
Il campo di battaglia era dominato, al centro, dall’altopiano di Pratzen mentre, a nord, c’erano le colline di Santon e di Žuráň, dove Bonaparte aveva posto il suo quartier generale. A ovest dell’altopiano di Pratzen, scorreva il torrente Goldbach, su cui si affacciavano i villaggi di Sokolnice e di Telnice mentre, a sud, c’erano degli stagni ghiacciati e alcuni terreni paludosi che chiudevano la zona, tagliando ogni via di fuga.
Alle sette di mattina del 2 dicembre 1805, le colonne austro – russe cominciarono a scendere dall’altura di Pratzen e a dirigersi verso il fianco destro delle truppe napoleoniche. Non sapevano che la maggior parte dell’esercito nemico era nascosta fra le nebbie, sotto l’altopiano, in attesa di un solo cenno dell’Imperatore per riprenderselo e che la divisione del Generale Davout stava giungendo da Vienna, a tappe forzate, per dare manforte al debole fianco destro.
Lasciato l’effimero tepore dei bivacchi, dove si erano dedicati, forse per l’ultima volta, a radersi e a scrivere brevi lettere ai familiari, i soldati si avventuravano nel gelo pungente del mattino, fra i fitti banchi di nebbia che facevano sembrare alberi i cespugli e burroni e strapiombi i pianori, occultando qualunque cosa si trovasse a oltre dieci passi. Superata quella distanza, sarebbe potuto spuntare fuori indifferentemente un commilitone o un nemico e loro niente avrebbero potuto fare. Fra stonate canzoni, impaurite preghiere e qualche sorso di liquore, le colonne marciavano verso il destino.
Puntando il fianco destro dell’armata napoleonica, le truppe austro – russe si diressero verso il torrente Goldbach e, presso i villaggi di Sokolnice e di Telnice, si svolsero sanguinosi scontri dagli esiti estremamente incerti che costrinsero i coalizzati a far scendere ancora più unità dall’altura di Pratzen e a sguarnire sempre più pericolosamente il centro del loro esercito.
Soltanto la quarta colonna del Generale Kutuzov aveva mantenuto la posizione sull’altura di Pratzen, perché l’alto ufficiale russo, al pari di Napoleone, ne aveva compreso l’importanza strategica. Alla fine, però, lo Zar ordinò alla quarta colonna di scendere e di unirsi alle altre e Kutuzov, già umiliato dallo scherno del Sovrano, abbandonò il comando generale, precipitando le truppe nell’incertezza.
Alle otto del mattino, proprio mentre cominciava la battaglia presso il villaggio di Telnice, la nebbia si diradò e, contemporaneamente, il sole sbucò dalle nubi, rosso come il sangue, mostrando a Napoleone il gran numero di truppe nemiche che scendevano dal Pratzen. Allo stesso tempo, i pochi austro – russi che erano rimasti sull’altopiano e quelli che ne stavano scendendo scorsero nella valle le milizie napoleoniche che non immaginavano così numerose e vicine e inorridirono.
– Guardate bene il sole di Austerlitz! – disse Napoleone ai Marescialli e ai soldati, dal suo quartier generale sullo Žuráň – Ci abbatteremo come un colpo di tuono sui nostri nemici! Non sparate troppo, ma sparate bene! Entro ‘sta sera, sconfiggeremo queste tribù del nord che hanno avuto l’ardire di sfidarci!
Alle nove antimeridiane, dopo essersi accertato, dal suo osservatorio, che il grosso delle truppe nemiche si era riversato sul fianco destro, Bonaparte ordinò al IV Corpo d’Armata, comandato dai Generali Vandamme e Saint Hilaire, di riconquistare il Pratzen e di sbaragliare il centro dell’esercito avversario, ormai irrimediabilmente sguarnito.
Il IV Corpo d’Armata avanzò rapidamente sull’altopiano di Pratzen, spuntando fuori dalla foschia residua e lasciando di sasso lo Zar. La luce rossastra del sole nascente si rifletteva sull’acciaio delle baionette, abbagliando i nemici e accentuando il terrore di quanti si trovavano sulle gelide alture. Resi euforici, ai limiti del fanatismo, dalle arringhe altisonanti di Napoleone e da tre razioni di liquore, i soldati si sentivano pronti a sfidare gli eserciti del mondo intero.
Il Generale Kutuzov non tardò ad accorgersi dell’inganno e fermò i militari che stavano scendendo, facendoli tornare sull’altura e questi corsero su per la collina, urlando come belve. Erano una massa compatta e tumultuosa che atterriva per l’altezza e la prestanza dei suoi uomini che combattevano spesso in modo primitivo, usando moschetti e fucili a mo’ di mazze. Malgrado avessero raggiunto la sommità del Pratzen di corsa, conservavano forza e solidità. La loro carica travolse la prima linea napoleonica che non riuscì a mantenere la posizione. Gli uomini ruppero in ritirata, fuggendo via come lepri e oltrepassando la seconda linea, i cui componenti percossero e insultarono i commilitoni, dando loro dei vigliacchi. Richiamati dai superiori, urlarono: “Vive l’Impereur!”, ma continuarono a fuggire.
La situazione si capovolse presto, quando le milizie russe furono attaccate dalle baionette del Generale Saint Hilaire che sgominò molte unità e catturò diversi pezzi dell’artiglieria nemica.
Il Generale Soult fece portare avanti alcune batterie che inflissero gravi perdite agli austriaci mentre il Generale Vandamme, con feroci cariche di baionetta, mise in rotta i reparti russi e prese come bottino altri cannoni.
Napoleone ordinò, quindi, al I Corpo del Generale Bernadotte di dare manforte all’ala sinistra di Vandamme e trasferì il quartier generale dallo Žuráň alla Cappella di Sant’Antonio sul Pratzen, perché voleva stare al centro della battaglia.
A questo punto, il Granduca Costantino, fratello dello Zar, contrattaccò e Bonaparte gli scagliò contro la cavalleria pesante che fu caricata da quella avversaria, in uno scontro senza quartiere, caotico e disordinato.
L’arrivo di Bernadotte recò sollievo alla cavalleria napoleonica mentre l’artiglieria a cavallo della Guardia attaccò i cavalieri e i fucilieri russi, infliggendo loro gravi perdite. Non più protetta dalla propria cavalleria, la fanteria russa ruppe le linee e iniziò una fuga disordinata, con i cavalieri napoleonici che le galoppavano dietro, in uno sfiancante inseguimento.
In questo caos infernale, i russi ignoravano persino la sorte del loro Zar. Alcuni lo davano per morto, altri giuravano di averlo visto ferito a bordo della propria carrozza, mentre questi, sano e illeso, vagava in stato confusionale per l’altopiano di Pratzen.
I feriti e i morenti furono abbandonati nelle stalle e nelle chiese, raccomandati alla pietà del nemico tramite alcuni cartelli affissi sui portoni mentre il Generale Kutuzov, gravemente ferito, riparò presso un’unità austriaca.
Napoleone sentiva la vittoria a portata di mano, perché, occupando l’altopiano di Pratzen e annientando il centro sguarnito dei nemici, aveva tagliato in due l’esercito avversario, creando i presupposti per un accerchiamento, dato che il Generale Davout stava giungendo da Vienna a dare manforte al fianco destro mentre, a nord, Lannes e Murat combattevano sul Santon contro il Generale Bagration.
A nord, in particolare, il Generale Kellermann, con una finta ritirata, aveva attirato gli Ulani del Granduca Costantino sotto il tiro dei fucilieri napoleonici e il reparto fu annientato.
Il Generale russo Bagration, informato della batosta che le truppe coalizzate stavano subendo a sud, decise di attaccare i corpi di Lannes e di Murat per indurre Bonaparte a spostare parte dell’esercito a nord, alleggerendo la pressione sul Pratzen e sul Goldbach. Fu così che i cavalieri Cosacchi e gli Ussari della Guardia attaccarono con grande foga le truppe napoleoniche che, dopo il primo sconcerto, reagirono falciando i nemici con le loro batterie. I superstiti furono dispersi e finiti dalla fanteria e dalla cavalleria che li braccarono senza pietà.
Il Principe Giovanni I Giuseppe del Liechtenstein caricò la cavalleria leggera di Kellermann con un pesante attacco di Corazzieri, Ussari e Dragoni che costrinse i nemici a cercare rifugio dietro la fanteria. Murat, però, portò dei rinforzi e ne seguì una mischia confusa e accanita.
Alla fine, il V Corpo di Lannes riuscì a mettere in fuga l’abilissimo Generale Bagration.
Anche il fronte del nord vide, quindi, la schiacciante vittoria di Napoleone, ma l’estrema stanchezza delle truppe non rese possibile assecondare i piani originari dell’Imperatore che prevedevano l’inseguimento dei russi, così da sgominarli definitivamente. Essi si rifugiarono nei Carpazi e due Generali del calibro di Kutuzov e Bagration sfuggirono alla cattura.
Scrutando attentamente nel cannocchiale, la cui estremità era appoggiata sulla spalla di uno degli attendenti, Napoleone osservava compiaciuto la sfolgorante vittoria. Con la collina del Santon e l’altopiano di Pratzen assoggettati, decise di concentrarsi su Sokolnice e Telnice dove gli scontri ancora infuriavano. Lasciato Bernadotte a tenere l’altopiano di Pratzen, inviò Vandamme e Saint Hilaire a dare supporto al fianco destro e al Generale Davout.
I nuovi arrivi incalzarono le linee nemiche con una tale violenza che l’esercito coalizzato fu colto dal panico e disperso. Gli uomini ruppero le righe e fuggirono forsennatamente in tutte le direzioni.
– Puntate i cannoni sui fuggiaschi – ordinò Napoleone dalla sua postazione sull’altopiano di Pratzen.
– Ma Maestà, la battaglia è finita! Adesso, non ci sono più nemici, ma uomini! – obiettò uno dei Luogotenenti.
– Volete, per caso, trovarveli di fronte nella prossima battaglia questi uomini? Se vogliamo una pace duratura, il nemico va annientato.
Le batterie napoleoniche iniziarono a cannoneggiare i superstiti, falciandoli in nuvole di fumo, polvere e terrore. Alcuni di questi disgraziati si erano ritirati verso sud, in direzione di Vienna, attraverso gli stagni di Monitz e il lago palustre di Satschan che erano ricoperti da lastre gelate. Sotto l’urto dei proiettili di cannone, il ghiaccio si ruppe e i fuggiaschi annegarono, fra urla disperate e volti contratti in tremendi spasimi di paura e dolore e molti pezzi di artiglieria furono inghiottiti insieme a loro.
Napoleone contemplava le ampie distese che si allungavano intorno all’altopiano di Pratzen, disseminate di cadaveri mutilati, di carcasse di animali e di armi distrutte o abbandonate. A nord, al centro e a sud, la vittoria era netta ed era sua.
– Avete visto? – chiese ai suoi Marescialli – Ve l’avevo detto che il sole di Austerlitz mi sarebbe stato amico. Ci conosciamo bene il sole e io! In serata, perlustrerò personalmente il campo di battaglia. Mandate gli uomini a recuperare i pezzi di artiglieria, le armi e le munizioni abbandonate sul campo e a catturare i cavalli che vagano su di esso. Prestate soccorso ai feriti di entrambi gli schieramenti. Che questi e i prigionieri siano trattati umanamente. Distribuite ai soldati altre tre razioni di liquore. Questa vittoria va celebrata!
Con le braccia conserte e il volto attraversato da un’espressione trionfante, diresse gli occhi color del ghiaccio verso l’orizzonte.
Io sono Napoleone – pensò e tutti gli altri, intorno a lui, scomparvero.
 
Austerlitz

Austerlitz-2

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Austerlitz-4
 
Ospedale da campo nei pressi di Austerlitz, 3 dicembre 1805
 
La battaglia dei tre Imperatori si era rivelata il capolavoro dell’arte bellica di Napoleone.
Le dimensioni della vittoria erano enormi. A fronte di novemila fra morti, feriti e prigionieri della Grande Armée napoleonica, si contavano fra i venticinquemila e i ventisettemila morti e feriti nelle file austro – russe e oltre dodicimila prigionieri, di cui ben otto Generali. I soldati napoleonici avevano catturato centoottanta cannoni, cinquanta stendardi e centocinquanta cassoni portamunizioni e molti altri pezzi d’artiglieria nemici erano andati distrutti. Gli austriaci erano prostrati mentre i russi si stavano ritirando nelle loro steppe e avevano perso qualsiasi velleità di immischiarsi nelle guerre dell’occidente.
Si parlava di innumerevoli promozioni in arrivo oltre a medaglie e a ricompense in denaro per i soldati. Generosi vitalizi sarebbero stati elargiti alle vedove e agli orfani.
La stessa sera del 2 dicembre, Napoleone, in groppa all’arabo grigio Marengo, aveva attraversato il campo di battaglia per rendersi conto della portata della sua vittoria e aveva dato disposizioni in ordine ai feriti di tutti gli schieramenti. Aveva ammirato le belle morti, dato parole di conforto ai feriti, distribuito loro del brandy e aveva anche disposto che fossero accesi dei fuochi vicino a loro per riscaldarli dal gelo, in attesa che arrivassero i soccorsi. Era fiero di sé e convinto di avere eguagliato il successo di Annibale a Canne.
Il giorno dopo, Alain, che ricopriva, ora, il grado di Maggiore, si stava recando presso le baracche dove erano ricoverati i feriti, per comunicare gli ordini dei suoi superiori relativamente alla cura e allo smistamento degli stessi.
Aveva dato prova di fierezza e ardimento, tanto che gli era stato comunicato, in via ufficiosa, che sarebbe stato promosso Colonnello. Come sempre, in battaglia, si sprigionava lo spirito ferino che albergava in lui e che, in gioventù, si era di tanto in tanto affacciato fra una scazzottata, una frase tagliente e colorita e le pose da caporione che assumeva in caserma. Era negli scontri, però, che questo fuoco battagliero esplodeva e raggiungeva la sua massima potenza, pervadendolo interamente e trasformandolo in una perfetta macchina da guerra.
Sull’altura di Pratzen, mentre i russi caricavano come dannati, lui, anziché darsi alla fuga, aveva chiamato a raccolta i pochi uomini del suo battaglione che gli erano rimasti vicini e, col carisma di cui era dotato, li aveva convinti a contrattaccare. Si era, quindi, fiondato, alla testa di quelli, in una nuvola di fumo, fra i lampi degli spari e i rombi dei cannoni e ne era uscito alcuni minuti dopo impugnando uno stendardo nemico che aveva catturato. Il secondo stendardo della giornata, invece, gli era sfuggito per un soffio. Lo aveva visto in mano a un giovane alfiere russo, caduto a terra fulminato da uno sparo e lui si era tuffato a raccoglierlo, ma era stato preceduto da un ufficiale con l’uniforme da Aiutante di Campo che aveva afferrato il vessillo e si era allontanato nella mischia. Pieno di rabbia, aveva imbracciato il fucile e si era lanciato da solo contro quattro soldati austriaci addetti a un cannone. Ne aveva feriti due, altri due li aveva messi in fuga e, alla fine dello scontro, si era impossessato del pezzo di artiglieria.
Nonostante tutto, non riusciva a provare una gioia completa. Il cannoneggiamento finale sulle migliaia di nemici in fuga e l’immagine delle lastre di ghiaccio che si rompevano, divenendo porte di accesso sull’acqua gelida e, quindi, lapidi per i poveretti che cercavano la salvezza attraverso gli stagni lo avevano amareggiato. Il ricordo delle urla, dei volti contratti dal gelo e dal terrore, delle uniformi che si inzuppavano d’acqua e trascinavano a fondo i soldati che si divincolavano e si sbracciavano per contrastare la forza divoratrice dello stagno lo tormentava.
Napoleone era un genio militare, capace di ribaltare situazioni di considerevole svantaggio e di creare dal nulla vittorie come quella, capolavori di strategia militare più che semplici battaglie. Aveva a cuore le sorti dei feriti e dei prigionieri e nutriva un sincero rispetto per chi dimostrava coraggio in battaglia. Ogni tanto, tuttavia, qualcosa in lui deragliava, degenerando in manifestazioni di eccessiva freddezza e disumanità. Ne aveva dato prova in Egitto, in Siria, a Pavia, sul lago di Viverone e tutte le volte in cui si era accanito contro chi lo aveva deluso o contrastato. Era capace di premiare i suoi soldati e di elevarli ai massimi livelli, ma da loro pretendeva l’anima e li spremeva fino allo stremo. Più di una volta, lo sguardo freddo e il volto inflessibile dell’Imperatore lo avevano terrorizzato, malgrado lui non fosse un’educanda.
Immerso in questi pensieri, giunse sulla soglia dell’ospedale da campo, al cui ingresso sostavano alcuni soldati intenti a commentare la battaglia del giorno prima. Attraverso la porta, passava un via vai continuo di barelle provenienti dai posti di medicazione e di feretri destinati alle fosse comuni. Un forte odore di laudano saturava gli ambienti interni, pervasi dai gemiti dei feriti e dalle urla acute di chi stava subendo un’amputazione. Meno forti, ma ugualmente strazianti erano i lamenti di coloro ai quali i medici stavano scandagliando le ferite, prima che perdessero i sensi.
Desideroso di tornare al più presto all’accampamento e di sottrarsi a quei miasmi di sofferenza e di morte, Alain si affrettò a domandare chi fosse il responsabile della struttura cui riferire gli ordini. Adempiuto finalmente l’incarico, si diresse verso l’uscita, quando lo sguardo gli cadde sui lineamenti di un giovane ufficiale russo, nei quali riconobbe le sembianze dell’Aiutante di Campo che, il giorno prima, gli aveva soffiato il vessillo. D’istinto, gli si avvicinò, desideroso di manifestargli il suo apprezzamento per l’ardire dimostrato.
L’uomo aveva gli occhi chiusi, ma, accortosi che qualcuno gli si stava avvicinando, li aprì e, sebbene avesse la febbre alta, distinse bene Alain e ne udì nitidamente le parole di saluto. Aveva circa vent’anni in meno del francese, i capelli scuri e i tratti aristocratici e regolari.
– Vengo a complimentarmi con Voi, Signore – disse Alain, sperando che l’altro comprendesse il francese – Vi ho visto ieri, sull’altura di Pratzen e non ho potuto fare a meno di ammirare il Vostro eroismo, quando avete raccolto la bandiera dalle mani dell’alfiere caduto. Sono il Maggiore Alain de Soisson della divisione del Generale de Saint Hilaire.
– Vi ringrazio, Maggiore de Soisson – rispose l’altro con voce debole, ma chiara e in un perfetto francese, unica lingua utilizzata nei salotti dell’aristocrazia russa – Sono il Principe Andrej Bolkonskij, Aiutante di Campo del Generale Kutuzov.
– E’ un onore fare la Vostra conoscenza, Principe. Siete un uomo coraggioso e, infatti, avete lo stesso nome del mio migliore amico che di coraggio ne ha da vendere! Devo confessarVi che avrei voluto prenderla io quella bandiera, come bottino di guerra, ma Voi siete stato più lesto!
– La gloria militare e la vanità mondana, da ieri, per me, non sono più nulla – rispose, con un velo di tristezza, il Principe Andrej – Prima, sognavo anch’io di conquistare la gloria, di distinguermi in battaglia e il Vostro Imperatore era il mio eroe. Ieri, però, sono stato ferito e sono caduto supino sulla distesa gelida dell’altura di Pratzen… e ho visto il cielo, alto, immenso, infinito, con nuvole grigie che lo attraversavano… Mi sono state subito chiare la vanità della grandezza, la vanità della vita e la vanità ancora più grande della morte… Tutto ciò che posso comprendere è vano, esiste soltanto la grandezza di qualcosa che mi è incomprensibile…
– Avete perso molto sangue e siete in preda al languore – commentò Alain, da sempre poco avvezzo ai discorsi filosofici.  
– Ho perso molto sangue, è vero, ma non è soltanto questo… – rispose l’altro le cui precarie condizioni lo inducevano a lasciarsi andare a inusitate confidenze con un estraneo che, quasi sicuramente, non avrebbe più incontrato – Ho visto anche Napoleone, sapete? La prima volta ieri sera, quando ancora giacevo sul campo di battaglia e la seconda qualche ora dopo, allorché i soccorritori mi schierarono in prima fila fra i prigionieri ed egli ci passò in rassegna… Quanto mi parve piccolo, miserabile e insignificante di fronte a quel cielo così solenne, sublime, giusto e buono… Quanto mi sono apparsi meschini gli interessi che lo occupavano, quanto mi è sembrato infimo il mio eroe, quanto mi sono parse inutili la piccola vanità e l’effimera gioia che provava per quella vittoria… Lui, così felice del suo momentaneo trionfo e delle sciagure altrui non era nulla di fronte a quel cielo così profondo e vasto…
– Cercate di riposare e di rimetterVi in forze, adesso – mormorò Alain, a disagio di fronte a discorsi che non riusciva pienamente a capire, ma che umiliavano l’Imperatore che doveva continuare a essere il suo eroe.
– Maggiore de Soisson, posso chiederVi una cortesia?
– Dite pure, Principe.
– Mentre ero trasportato qui in barella, qualcuno mi sottrasse una medaglietta d’oro con un’immagine sacra che mia sorella mi appese al collo, prima che partissi per la guerra. Potreste farmela riavere, per favore?
– Farò il possibile, Principe.
Alain si allontanò da lui e tornò dal responsabile dell’ospedale da campo. Gli parlò della medaglietta d’oro e dell’opportunità che essa fosse restituita al proprietario anche in considerazione della benevolenza con cui l’Imperatore aveva trattato i prigionieri.
Mentre aspettava, gli tornarono in mente le parole di quel Principe russo e non poté fare a meno di riconoscere che esse avevano un fondamento di verità. La gloria che Napoleone inseguiva e le vittorie di cui egli si vantava erano passeggere. Anche lui, prima o poi, sarebbe caduto. Nel frattempo, però, avrebbe ridotto l’intera Europa un immenso campo di battaglia, cosparso di ossa umane e animali. Si chiese, come aveva fatto in Egitto, in Siria, a Pavia e sul lago di Viverone, se ne valeva la pena. Il Principe Andrej era stanco (per Dio, tutti gli uomini che portavano quel nome dovevano fargli quell’effetto e indurlo a profonde riflessioni?!), ma anche lui era stanco. Forse, erano tutti stanchi…
Trascorsi dieci minuti, la medaglietta d’oro fu ritrovata.
– Ho trovato la Vostra medaglietta, Principe – disse Alain mentre agganciava la catenina d’oro al collo dell’infermo – Tenetela da conto, così potrete dire a Vostra sorella di averne avuto cura come del più prezioso dei tesori – aggiunse, poi, con tono scherzoso per dissipare la tensione.
– E’ così, infatti – rispose il Principe Andrej, con aria grave – Vi ringrazio di tutto, Maggiore de Soisson.
Alain chinò il capo in segno di saluto e si accomiatò da lui, tornando all’accampamento con uno stato d’animo più cupo e tormentato di quello che aveva avuto all’andata.
La mattina successiva, Larrey, il medico di Napoleone, visitò il ferito.
C’est un sujet nerveux et bilieux. Il n’en rechappera pas.
Il Principe Andrej, con gli altri feriti senza speranza di guarigione, fu abbandonato alle cure degli abitanti.
 
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Al Maggior Generale Sir Arthur Wellesley
 
Dublino, 4 dicembre 1805
 
Mio carissimo Arthur,
Vi sono profondamente grata di volermi rinnovare la Vostra proposta di matrimonio, dichiarandomi che i Vostri sentimenti sono immutati. Sono commossa e il mio cuore è colmo di gioia, perché anche i miei sentimenti sono quelli del primo giorno in cui Vi ho incontrato.
Tuttavia, insisto affinché noi ci incontriamo prima della cerimonia nuziale. Undici anni sono passati dalla Vostra partenza per l’India e dall’ultima volta che ci siamo visti. Il mio aspetto è cambiato, non sono più la ragazza di un tempo e non sarei onesta se prendessi con Voi un così grande impegno senza che prima mi abbiate rivista.
Con tutto il mio affetto.
 
Kitty

Catherine-Pakenham
 
All’Honourable Catherine Pakenham
 
Londra, 14 dicembre 1805
 
Cara Kitty,
sono ammirato dalla Vostra onestà e nobiltà d’animo. Le Vostre preoccupazioni Vi fanno onore e, tuttavia, io Vi ho dato la mia parola che, al mio ritorno in Inghilterra, se la mia situazione fosse mutata al punto da rendermi degno di Voi, Vi avrei sposata e così intendo fare. Una promessa è una promessa e io desidero onorarla.
Vi porgo i miei omaggi.
 
Arthur
Duca-di-Wellington
 
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Versailles, Palazzo Jarjayes, dicembre 1805
 
A Palazzo Jarjayes, fervevano i preparativi e tutto era in subbuglio, perché, dopo il ritorno da Roma, Honoré avrebbe assunto l’incarico di Capitano delle Guardie Reali che, un tempo, era stato della madre. Sotto gli occhi orgogliosi dei genitori e del nonno, il ragazzo provava la sua uniforme bianca e si esercitava a tirare di scherma e a sparare, in attesa che il grande giorno arrivasse.
Le novità non erano finite.
La Regina aveva chiesto ad Antigone di diventare dama di compagnia, sicura che, con il suo spirito vivace e arguto, la ragazza avrebbe ravvivato l’ambiente di corte. Oscar sperava, in cuor suo, che la figlia sarebbe maturata e che avrebbe svolto i suoi compiti con giudizio e serietà o, perlomeno, senza combinare troppi guai. La confortava sapere che la madre, prima di congedarsi per vecchiaia, avrebbe affiancato la nipote nel suo nuovo incarico.
Antigone avrebbe intrapreso quell’avventura insieme a Élisabeth Clotilde de Girodel, la bambina che Maria Antonietta aveva avuto dal suo matrimonio morganatico col Conte di Fersen e che era stata cresciuta dai coniugi de Girodel, dopo che Madame Henriette Lutgarde aveva simulato una gravidanza, affiancando la Sovrana nei mesi di allontanamento dalla reggia.
La Regina era entusiasta e non vedeva l’ora che la ragazza giungesse a corte. L’aveva affidata in fasce alla nuova famiglia col cuore colmo di dolore, ma già da allora aveva deciso che, quando fosse stata abbastanza grande, l’avrebbe chiamata a corte come sua dama e, ora, il momento era arrivato. Al settimo cielo dalla gioia, Maria Antonietta pregustava il momento in cui i tre figli che le erano rimasti sarebbero finalmente stati tutti riuniti sotto lo stesso tetto. Aveva avuto molte occasioni di incontrare Élisabeth Clotilde, dato che i genitori “adottivi” di lei erano una dama di compagnia e un Generale delle Guardie Reali, ma, ora, le cose sarebbero state diverse e migliori.
La nomina di Élisabeth Clotilde a dama di compagnia rese felicissimi anche la diretta interessata e Honoré. Fra i due giovani, infatti, c’era, da tempo, un’intesa segreta – tanto segreta che era stata notata da tutti – e il servizio di entrambi alla reggia avrebbe aumentato le loro occasioni d’incontro.
Anche il giovane Grégoire Henri de Girodel provava un sincero sentimento per Antigone, ma la ragazza, pur essendogli estremamente affezionata, lo considerava un amico, molto buono e affidabile, ma non abbastanza interessante per un’indole avventurosa come quella di lei.
In tutto questo susseguirsi di nomine, anche Bernadette aveva avuto la sua parte. Il Re l’aveva, infatti, scelta come lettrice. Ne era rimasto favorevolmente impressionato durante il viaggio di ritorno in Francia, trovava la presenza della ragazza benefica e la voce di lei gentile e rilassante e, siccome la stanchezza che lo prostrava e la fragilità dei nervi gli impedivano di leggere troppo a lungo, aveva accolto con entusiasmo la proposta di Oscar di dare l’impiego a Bernadette.
Oscar aveva decantato la dolcezza e l’onestà della ragazza, sottolineando come ci fossero già state delle donne borghesi a ricoprire quel ruolo. Le sembrava giusto che la figlia di Rosalie, pur non potendo aspirare a diventare dama di compagnia, avesse anche lei la sua occasione.
Pure Maria Antonietta si era mostrata favorevole, perché ricordava le affettuose e solerti cure che Rosalie le aveva prestato al Petit Trianon, durante la gravidanza segreta di quattordici anni prima.
– Vi ringrazio di tutto cuore, Madame Oscar, per l’aiuto che avete dato a Bernadette! Oh! Oh!
Un giorno di dicembre, nel giardino d’inverno di Palazzo Jarjayes, Rosalie ringraziava Oscar mentre questa sorseggiava del the all’arancia insieme ad André.
– Vi sono debitrice come sempre, Madame Oscar! Bernadette avrà un buon compenso e potrà frequentare l’ambiente di corte!
– Non ringraziarmi, Rosalie – rispose Oscar, sorridendo – L’ho fatto di cuore. Bernadette è una cara ragazza e se lo merita.
– Rosalie, prendi il the insieme a noi! – si inserì André.
– Oh, no, davvero, non è necessario!
– Non fare complimenti! – la incalzò Oscar – Moreau, portate un’altra tazza e un’altra sedia – aggiunse, poi, rivolta al valletto che li stava servendo.
– Grazie ancora, Madame Oscar! Per quanto riguarda l’altra faccenda, Bernard non mi ha mai parlato di un tesoro dei giacobini, mi dispiace. E’ un argomento così particolare che me ne sarei sicuramente ricordata. Vedete, lui non parlava con me di politica e sapeva bene che io non approvavo gli assalti ai castelli, le estorsioni, i ricatti, le rapine…
Oscar disse a Rosalie di non preoccuparsi e mascherò bene la sua delusione. Pensava che nessuno meglio dell’ex cavaliere nero avrebbe potuto sovrintendere la raccolta e la custodia di un tesoro destinato a servire la causa rivoluzionaria e proveniente da spoliazioni e finanziamenti esteri mirati a sovvertire il loro ordine costituito. Avrebbe dovuto seguire un’altra pista, ma, al momento, non sapeva quale.
 
********
 
Nella serra adiacente, Bernadette stava raccogliendo delle rose bianche da sistemare in camera di Oscar. A un tratto, la ragazza sentì un soffio gelido e, temendo che un colpo di vento avesse aperto la porta e che il freddo avrebbe danneggiato le piante, si voltò verso l’ingresso. Grande fu lo stupore della fanciulla quando vide la snella figura del Tenente de Ligne varcare la soglia e richiudere dietro di sé la porta di vetro.
– Oh, siete Voi, Tenente! – esclamò la giovane mentre il cestino di vimini che reggeva fra le mani tremava leggermente – Non sapevo che Vi interessassero le rose!
– Mi interessano poco, infatti, a meno che non siano in mano a un’altra rosa – rispose il diciottenne, elargendole uno dei suoi sorrisi più affascinanti che gli rischiarò il bel volto e gli fece brillare gli occhi.
– Non dovete dire queste cose, Tenente! – protestò lei, avvampando come una torcia – Non sta bene…
– E perché non dovrebbe stare bene, se è la verità?
Lei rimase senza parole e lui si avvicinò e le prese il cestino di mano, affiancandola mentre coglieva gli ultimi fiori.
– Ho saputo che siete stata nominata lettrice del Re. Questo significa che ci vedremo spesso, dato che, fra i vari incarichi del mio reggimento, c’è anche quello di pattugliare la reggia.
Bernadette restò muta, arrossendo ancora di più, ma a quel silenzio supplì lui, con un torrente di frasi brillanti e di motteggi allegri con i quali raccontava le disavventure al tavolo da gioco di un cortigiano, le prodezze amatorie di un altro, la disinvoltura di una dama, la gelosia del marito di lei e tanti altri aneddoti divertenti per chiunque tranne che per il malcapitato di turno che ne diventava oggetto, narrati con parole ricche di spirito e della consistenza del vetro soffiato: il cannoneggiamento delle leziosità, l’unica arte bellica nella quale si sarebbe distinto il giovane de Ligne, come severamente diceva il Generale de Jarjayes, quando gli capitava di commentare l’indole e le attitudini del nipote.
Le camminava accanto e spesso le sfiorava un gomito, la veste o una mano. D’un trattò, allungò tre dita sui riccioli neri di lei e ne portò via il petalo di una rosa che vi era rimasto impigliato.
Bernadette lo guardò trasognata, non potendo evitare di pensare che quel giovane così gentile e simpatico era molto bello ed elegante anche più bello ed elegante di Monsieur Honoré e di Monsieur Grégoire Henri de Girodel.

Austrelitz-3







Il Principe Andrej Bolkonskij è un personaggio del romanzo “Guerra e pace” di Lev Nikolaevic Tolstoj. Le riflessioni sul cielo seguite al ferimento nel corso della battaglia di Austerlitz e la parte riguardante la medaglietta rubata provengono da lì, con la differenza che, nel romanzo, la medaglietta è restituita spontaneamente dopo che i soldati si accorgono della benevolenza con la quale Napoleone tratta i prigionieri.
Da “Guerra e pace”, provengono l’idea della nebbia che fa apparire alberi i cespugli, etc. e la frase: “– C’est un sujet nerveux et bilieux. Il n’en rechappera pas.
Il Principe Andrej, con gli altri feriti senza speranza di guarigione, fu abbandonato alle cure degli abitanti”.
La frase: “Ci conosciamo bene il sole e io” proviene dalla miniserie televisiva: “Napoléon”.
La battaglia del lago di Viverone, da me narrata nel sessantaseiesimo capitolo, intitolato: “Sulle orme di Annibale”, non è mai stata combattuta da Napoleone, ma è una mia rivisitazione della battaglia del lago Trasimeno che, il 21 giugno 217 A.C., nel corso della seconda guerra punica, vide contrapporti il Console romano Gaio Flaminio Nepote e il Generale cartaginese Annibale Barca.
La nascita di Élisabeth Clotilde de Girodel è stata da me raccontata nel quarantunesimo capitolo, intitolato: “Il matrimonio segreto”.
Come al solito, grazie a chi vorrà leggere e recensire.
   
 
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