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Autore: SibillaCubana    09/11/2021    1 recensioni
Shaggamàdhr è l'avere occhi per vedere gli spiriti. È il poter cogliere l'energia tremenda delle pianure dell'Oltrevita, ma anche il conoscere ciò che solca la terra.
L'unica parola che ci hanno tramandato gli sciamani di Ur è una parola di potere.

Il Velo scherma la mente dei mortali che si affacciano sull’aldilà, tutelandola da dèi imperscrutabili.
Uno scudo, però, è forte quanto la volontà del guerriero che lo impugna.
Genere: Dark, Fantasy, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al Contest "Ombre Trasparenti" di 6Misaki e al Contest “Volete storiarmi?” di milla4, indetti sul forum di EFP.
Nome (EFP e forum): SibillaCubana (EFP)/ La Sibilla Cubana (Forum)
Titolo della storia: Shaggamàdhr
Prompt e fiore scelto: Chaos - Non ti scordar di me
Genere: Dark Fantasy 




Canto e sogno nel mio povero modo

sopra la terra,

io, che sbarcherò ancora

sopra la terra.1


 

Era uscito dal mondo degli uomini e si era ritrovato dove governavano loro.

Sebbene il cielo fosse coperto da veli, e lo stesso materiale proteggesse gli occhi del giovane, il sole inondava di luce dorata le distese davanti a lui. Un timore arcano di quei colori caldi lo colse mentre cominciava lentamente a muoversi.

Un passo dopo l’altro, un piede davanti all’altro in quel mondo d’ambra sterminata dove non si poteva che camminare.

Il giovane era abituato al mare caliginoso oltre le terre di Opast, alle spiagge di sabbia scura e alle insenature dove crescevano le canne di palude. Solo quando si univa agli spiriti poteva far riposare lo sguardo su quella strada immensa d’erba, per poi spingerlo fino ai girasoli che ondeggiavano al limite dell’orizzonte. Ogni volta, la geografia di quel luogo cambiava, senza lasciare punti fissi a cui appigliarsi per non perdere il senno.

L’unica certezza era il tramonto, per lui che conosceva le ombre lunghe dello gnomone, le ascese degli astri allo zenit e il leviatano che dormiva al nadir, lontano. Presto il Sole se ne sarebbe andato, il soffio del vento sarebbe diventato gelido come il ricordo di un’amante dimenticata e le costellazioni avrebbero guidato il suo cammino.

Il giovane giunse le mani al petto – nessuno era in vista – e sentì i tacchi sprofondare in quella che non era più la terra secca di una brughiera, ma morbida sabbia. Alzò lo sguardo e con le dita si fece schermo dagli ultimi raggi del primo pianeta, mentre il velo lo riparava dai granelli che altrimenti gli avrebbero graffiato il viso.

Era un deserto, vasto e silenzioso, in confronto al quale la sua figura era minuscola. Non riusciva a distinguere un confine definito, e temette che guardandosi alle spalle avrebbe potuto trovare un luogo diverso da quello da cui proveniva.

Era mosso dalla curiosità, desiderava voltarsi. C’era qualcosa, tuttavia, vicino a lui: una piccola lapide di pietra levigata. Il giovane si chinò e vi appoggiò le dita; un sospiro di vento fece agitare il velo e le sue iridi chiare vennero percorse dalla luce di un ricordo.


Gli aironi dall'ampio volo gridavano, sagome grigie contro il cielo terso. Adriàn li guardava orbitare sopra la palude, con le palpebre socchiuse affinché il sole non gli sconfiggesse gli occhi. Le figure sacre degli uccelli, tuttavia, erano ben impresse nella sua mente, così come quelle dei suoi nemici.

L'Esercito Innumerevole non era nient’altro che una schiera di barbari. Genti che si nutrivano della carne dei volatili e, per navigare, seguivano la costa.

«Budrelàjadart» lo richiamò qualcuno dietro di lui, sovrastando il fischio del vento attraverso le canne.

Adriàn si voltò e andò incontro a una folata che gli colpì il collo, facendogli pizzicare la pelle. Davanti a sé trovò l’ennesimo volto senza nome di un uomo più anziano di lui che, eppure, lo trattava con deferenza.

Per la famiglia da cui proveniva, in parte. Ma soprattutto per ciò che nei suoi anni di studio aveva appreso, per quello che chiamavano il suo talento.

L’uomo, dopo un lungo cammino in silenzio, lo guidò attraverso le colonne che fiancheggiavano il Palazzo Ducale – oh, Adriàn, ti ricordi, diceva una voce, ti ricordi quando correvi qui? – e lo condusse all’edificio delle prigioni.

Adriàn percorse con gli occhi le ogive delle finestre, alla ricerca dello spirito che aveva parlato. Indagò le pieghe delle foglie nei capitelli e, con una luce estranea a illuminargli le iridi celesti, anche le pieghe nel tempo. Tuttavia, non riuscì a trovarlo e tornò a concentrarsi sul presente.


Il giovane fece tesoro del ricordo.

Se perdi le tue memorie mentre sei nel Sogno, fa’ in modo di recuperarle, gli diceva una voce. Si voltò, allora, e vide che lo cingeva – davanti e dietro, a sinistra e a destra – solo la solitudine infinita del deserto.

Decise di camminare verso quelle che, in lontananza, gli sembravano grandi strutture di cui non riusciva a capire la funzione. La sabbia sotto di lui mutava di continuo, facendo sì che le sue scarpe affondassero e, allo stesso tempo, fossero sostenute da solida pietra.

Il suo sguardo offuscato si spostava con cautela, indagava ogni roccia e ogni duna alla ricerca delle anime fuggevoli che compivano il loro trapasso. Tra loro, fantasmi addolorati nella distesa, si sarebbe nascosto colui che stava cercando: lo sentiva, con l’istinto che gli dava lo Shaggamàdhr. Tuttavia, non vedeva nulla.

Era calata rapida la notte: il giovane estrasse l’arma che portava con sé, una mazza ferrata, e con un tocco della mano sul ferro lo illuminò di luce bianca. La alzò, come una strana lanterna, e vide qualcos’altro brillare in lontananza, veleggiare sul calmo mare dell’orizzonte.

Erano tante, in quel deserto, le figure evanescenti che vagavano senza una meta. Erano arrivate col morire del giorno, o forse c’erano sempre state?

Per ognuno di quegli spettri, lui sussultava e piegava il braccio, pronto a colpire senza pietà. Anche quando quelli non si trasformavano in mostri, ma con le barbe che toccavano il petto continuavano ad avanzare in una marcia solenne, il giovane indagava i loro lineamenti con lo sguardo. Nessuno di loro sembrava essere l’uomo che cercava.

Era ormai quasi arrivato alle strutture che aveva visto da lontano. Anche se nulla, nel deserto, ostacolava la sua visuale, l’aria non limpida lo costrinse a socchiudere gli occhi come un vecchio monaco che, con un tomo spalancato davanti, rimira una sua opera di gioventù.

Solo quando fu ormai vicino notò che le linee frastagliate che aveva scorto non erano mattoni erosi dal tempo o fragile calcare, ma ossa che un tempo avevano sostenuto materia viva. Uno spettro macilento si fermo proprio a fianco al giovane, guardò quel cadavere antico e innalzò al cielo un suono gutturale, rivolse i palmi verso l’alto come in preghiera e infine si disfece. Lo sguardo offuscato del giovane lo seguì fino all’ultimo istante, poi tornò sulla creatura. C’era una lapide, tanto piccola da non poter essere stata dedicata alla creatura da un suo simile.

Si accovacciò e la sfiorò.


Il Maggior Consiglio aveva deliberato che il corpo del Duca di Opast fosse conservato in una grande cella vuota fino a quando non fossero state rese certe le circostanze della sua morte. Le finestre del piano nobile del Palazzo erano state coperte dai drappi neri che indicavano che il seggio era vacante: l’unica informazione trapelata al di fuori dell’isola.

Una donna, che fino a pochi istanti prima era stata china sul cadavere, alzò lo sguardo verso Adriàn nel momento in cui lui, da solo, attraversò la porta. I loro occhi, entrambi truccati dal bistro, si incrociarono nel silenzio. Poi lei aprì un piccolo baule, posato tra alambicchi e arnesi da speziale, e ne estrasse un velo.

I capelli di Adriàn, adornati da strisce di cuoio, gli ricaddero davanti al viso quando chinò il capo. La donna, con un gesto quasi materno, glieli scostò prima di velarlo. Quando il giovane alzò la testa, vide attraverso una cortina scura i riflessi delle braci che danzavano sulle pareti, poi le rughe attorno alle labbra del medico, che parevano aver intrappolato la luce nascondendola per sempre.

Fu solo quando lei gli posò una mano tra le scapole che lui trovò il coraggio di guardare il corpo del Duca.

«Un uomo tanto potente in vita che la morte ha reso uguale a tutti gli altri» commentò, unendo le mani in grembo. Non c’era mai malizia nelle sue considerazioni sulla fine, soltanto rispetto e una naturale accettazione. Solo così si camminava per la via di Ur.

Il volto del medico – donna che, nonostante tutto, temeva e rispettava gli dei – fu attraversato da un’improvvisa preoccupazione.

«Questo non disturberà il trapasso del suo spirito?»

Adriàn ascoltò l’oscillare delle fiamme nei bracieri, accarezzate da uno spiffero entrato nella cella.

«No» disse. «Posso incontrare la sua anima solo prima che raggiunga l’aldilà. Con ciò che accadrà dopo o durante il passaggio non mi è permesso interferire».

Il corpo del Duca Aren giaceva composto sul tavolo operatorio. Non c’era, sul suo viso dalla pelle flaccida, alcun segno che facesse pensare a una morte non naturale. Un secondo refolo d’aria gli portò alle narici l’odore dolciastro dell’oltretomba, coperto da quello pungente di qualche miscuglio d’erbe.

«Tu sei uno degli ultimi depositari di una grande conoscenza, Adriàn» gli disse la donna dopo un sospiro leggero. «Io mi affido a te. Tutta la Repubblica si affida a te, e possa guidarti il grande Zet che conosce ogni strada».

Pronunciate quelle ultime parole, il medico sfiorò un monile che aveva al collo. Il bagliore dorato nato da quel movimento ne rivelò le forme d’uccello stilizzato.

Adriàn, il respiro accelerato dal timore, si sistemò il lungo velo davanti al volto e ne strinse un lembo in mano. Così protetto, sfiorò con le dita il cadavere.

Sentì le voci degli spiriti ronzargli nelle orecchie, mormorare nella loro lingua sconosciuta e sovrapporsi – alcune gravi, altre acute – in un dialogo immaginario.

Non dimenticarti di me, diceva una, non dimenticare.


Il giovane non solo fece tesoro del ricordo, ma anche imitò ciò che Adriàn aveva fatto: con la mano protetta dal velo che lo avvolgeva, toccò la creatura.

Era lontana dall’umano: sembrava piuttosto una grande ruota, dal diametro di più di due cubiti, o l’anello di una sfera armillare che un colpo avesse staccato di netto dalla base. Colto dalla curiosità, il giovane sfiorò il suo cadavere, si soffermò sulle cavità regolari del suo corpo, dove percepiva la presenza di una cenere sottile.

Poi spostò gli occhi e li vide: decine di corpi d’angeli, perfetti e inconsunti dalla bruttezza della morte, giacevano immobili sul campo di battaglia. Alcune delle loro spade trafiggevano ancora il nemico, dal quale venivano uccisi a loro volta in un quadro eterno.

Quelle che avevano dichiarato loro guerra erano creature blasfeme: uomini di legno e fango, con arti sbozzati nella pietra. I golem non erano artefatti del popolo di Opast, grande sul mare.

Il giovane affrettò il passo per l’eccitazione quando notò che erano numerosi: ad alcuni mancavano braccia o gambe, altri erano stati mangiati dalla sabbia, ma altri ancora gli infondevano nel petto la speranza.

Inginocchiatosi a terra di fianco al corpo di uno di loro, grande quasi quattro volte il suo, si concentrò sull’energia dello Shaggamàdhr che gli scorreva nelle vene del braccio. Chiuse gli occhi e la vide, la spinse verso le punte delle dita. Il nucleo del golem si illuminò per un istante, versando luce azzurra nella distesa immobile. Poi si spense.

Smarrito, il giovane si spostò, semidisteso, verso qualcosa che gli era sembrato familiare; qualcosa che emergeva dalla sabbia e che lui sfiorò con le dita.


Duna finì di tracciare l’ultima lettera, per quella notte, nella tabella dell’ascensione retta. Una piccola goccia d’inchiostro era scesa incontrollata lungo il pennino, macchiando la pergamena, ma un singhiozzo e il pianto urgente del figlio la spinsero a ignorare quel dettaglio e alzarsi.

Adriàn, che come ogni sera la guardava studiare, osservò la sua schiena che bianca riluceva di perla; ammirò il gioiello che le ricadeva tra le scapole, dritto come il filo del pendolo.

«Arasté, arasté, Rhajœ, arasté» cantilenò Duna, tenendo tra le braccia il bambino che aveva sollevato dalla culla. Da bravo, da bravo.

Adriàn si alzò in piedi e andò verso di lei, che aveva attaccato il piccolo al seno. La avvicinò a sé, accarezzandole con delicatezza le costole, poi abbassò lo sguardo su suo figlio e sorrise.

«Vuoi diventare forte come la mamma?» gli domandò. Lui, come se avesse compreso le parole di suo padre, alzò gli occhi a mandorla e gli rivolse qualche gorgheggio.

«Sarà il più forte di Opast» disse Duna, sorridendo e alzando gli occhi selvaggi su Adriàn. Nelle sue iridi brillavano allo stesso tempo l’indomita fierezza del popolo delle montagne e la cristallina pazienza degli astronomi. «E sarà il più gentile: è tuo figlio».

Il giovane guardò, oltre alla finestra, lo sterminato fiume di stelle che attraversava il firmamento e brillava sui capelli di sua moglie.

«E grazie a te che domini le rotte del cielo» le disse, «lui dominerà quelle del mare».


Adriàn inclinò la testa, incuriosito; il suo lungo velo fu sollevato da un vento che gli avrebbe annodato i capelli, intrecciandovi i granelli di sabbia. I suoi occhi videro la runa sulla fronte della creatura, una corona sul viso tondo come quello di un bambino.

Come diceva il Libro dei Misteri di Ur?

È sottile, per Isedod, il confine tra Io e Morte,

sottile tanto quanto una linea.

Chino sul capo del golem, Adriàn disegnò una tacca con il proprio sangue, dopo essersi morso il dito. Di nuovo il cuore del costrutto si illuminò, e produsse il suono di un grande meccanismo che si avvia.

«Tu sei Morne» disse il giovane, quando il golem aprì i suoi occhi senza intelletto per fissarlo. «Mio figlio l’ho chiamato Rhajœ, che è il pianeta quando porta con sé la sera. Tu sei Morne perché, alla fine del deserto, arriveremo quando farà mattino».

Morne lo guardò: Adriàn aveva il viso liscio e gli occhi azzurri, il labbro inferiore attraversato da una sottile cicatrice, dritta e bianca come i segni che i pastori incidevano sui sassi per contare le greggi. Aveva gli occhi truccati di nero, le guance striate di blu.

Dopo qualche istante, il golem allungò una mano, docile, per permettergli di arrampicarsi e arrivare sino alle sue spalle. Il suo viso era rivolto verso il campo di battaglia, come se volesse tributare un ultimo addio ai compagni caduti.

Quella contemplazione durò solo qualche istante: presto, l’aria immobile del deserto si riempì dei tonfi dei piedi giganteschi di Morne sul terreno. Lenti, ritmici e sicuri. Adriàn, appollaiato sull’incavo del suo collo come un corvo sacro, ammirava la vastità sempre identica del paesaggio. Il velo, alle sue spalle, si sollevava in un dialogo col vento e le labbra erano tirate in un sorriso.

Aveva recuperato i granelli di sé che il Sogno, come faceva con tutti coloro che vi viaggiavano, aveva sparso lontano. Segretamente ostile nonostante le apparenze, il piano si sottraeva, cambiando forma, a chi tentava di conoscerlo.

I passi del golem battevano sulla sabbia. Adriàn sbirciò oltre le ciglia nella speranza di trovare l’uomo che stava cercando. Intravide invece, tra le nubi di polvere, il fantasma di una donna che, finito il proprio tempo, svaniva in centinaia di piccole luci. Quelle salirono verso di lui, come se il suo corpo le attirasse; gli illuminarono il viso e risuonarono con la sua anima.

Ora che non camminava più da solo, Adriàn vedeva all’orizzonte le linee frastagliate dei monti, vestite dei raggi rossi del sole che sorgeva. Le immaginò coperte dal verde delle foreste, dalle pendici alle valli, che erano come il bell’arco della schiena di Duna.

Una piccola casa sorgeva poco distante da lui.

Adriàn scese dal suo strano mezzo di trasporto. Fu Morne stesso a depositarlo a terra, e lui lo ringraziò posandogli i palmi delle mani sul corpo, facendo fluire l’energia fuori da sé e abbassando la testa. Sentì per un istante ruotare l’ingranaggio del suo cuore.

La porta davanti a lui, sfocata come tutto il resto, era pesante e vecchia: nelle spaccature del legno stava crescendo l’umido muschio.

Facendo forza sulle braccia sottili, Adriàn la spinse, anche se ben presto gli fu chiaro che avrebbe dovuto usare il peso del suo intero corpo.

Quando riuscì ad aprirla, entrò nella casa con l’arma illuminata stretta in mano come lanterna. Non c’era nulla, se non il silenzio intrappolato tra le ragnatele agli angoli del soffitto. Se non i graffi sul pavimento polveroso, dove qualcuno aveva trascinato i mobili, se non…

Il giovane trasalì e fece un passo indietro quando vide l’apparizione al centro della stanza. Su una sedia con due grandi ruote, il capo che ciondolava e le mani strette ai braccioli, stava un uomo di statura imponente nonostante l’età.

La sua pelle era bianca e grinzosa, come un lenzuolo appeso ad asciugare, e dove non aveva profonde rughe cadeva, ripiegandosi su se stessa a falde.

Quando Adriàn lo riconobbe, gli rivolse una compita riverenza, lo stomaco che bruciava per non aver capito subito chi aveva davanti, per essersi fatto travolgere dalla paura dell’ignoto.

«Budrelàjadart hhejo» mormorò, a capo chino. «Aren Herentrevaja». Mio signore. Aren del Grande Oceano.

L’uomo soffiò dell’aria dal naso, come se stesse trattenendo una risata, e lo fermò con un cenno della mano.

«Nel Regno delle Ombre» replicò, con voce profonda e ferma, «usiamo solo una lingua».

«Chi sei?» domandò Adriàn. Strinse il pugno sull’arma, e la luce che la pervadeva diventò più intensa, fino a esplodere in scintille che rimasero sospese attorno al metallo. «Perché hai preso le sembianze del Duca?»

«Ah» ribatté il suo interlocutore con gli occhi fissi sulle sue dita, sorridendo e trascinando per lunghi secondi quella vocale. «Ecco in cosa ripone la speranza il popolo di Opast».

L’uomo poi tacque, il volto immobile in una smorfia gioiosa e la bocca obliqua come un taglio d’accetta sul mento. Spinse con le mani sulle ruote e portò la sedia al di sotto di un buco circolare nel soffitto, per poi guardare in alto. Venne illuminato dalla luce misteriosa e distante delle stelle.

«Ah, colui che amava la forza selvaggia che domina gli uomini, tanto da venirne sopraffatto lui stesso… Ricordo ancora come la chiamava…» cominciò a dire con espressione sognante, lo sguardo rivolto al cielo nudo sopra di sé. «Shaggamàdhr. Shaggamàdhr è l'avere gli occhi per vedere gli spiriti. È il poter cogliere l'energia tremenda delle pianure dell'Oltrevita, ma anche il conoscere ciò che solca la terra. L'unica parola che ci hanno tramandato gli sciamani di Ur è una parola di potere».

«Chi sei?» domandò di nuovo Adriàn.

«Chi vuoi che io sia?»

Colui che mi darà le risposte, pensò il giovane, indugiando con la mente in luoghi proibiti, che avrebbero potuto fare strazio del suo intelletto.

Ricordò i monoliti nel deserto, che qualche pensiero antico e insondabile aveva voluto levigati e regolari, invincibili al vento. Pensò al silenzio degli angeli. E poi a Duna, che guardava il cielo senza rendersi conto che le stelle erano solo diamanti cuciti a un velo. 

Forse vorrei che fossi qualcuno che conosceva Ur, o addirittura Ur tu stesso, poiché gli uomini lo hanno dimenticato.

A queste cose Adriàn pensava quando disse:

«Il Duca Aren».

«E a che domanda vuoi che risponda?»

Vorrei che mi dicessi cosa c’è dietro al velo.

«Come sei morto?»

Il vecchio inclinò la testa.

«Mi hanno avvelenato» ribatté. «Gli stessi a cui il tuo – il nostro – popolo fa guerra».

Adriàn sentì il rumore della pioggia provenire dall’esterno. Il deserto che Morne aveva attraversato, però, sembrava non godere dell’acqua da moltissimo tempo, e nessuna goccia cadeva attraverso l’apertura nel soffitto. Anzi, quando alzò gli occhi, il giovane vide come sempre le enigmatiche stelle.

«Ma tu non sei venuto per questo» gli disse la voce dell’uomo, lontana, sovrastando a malapena lo scroscio.

«Ti sbagli».

L’uomo rise.

«Ah, gli dei sono invidiosi» commentò, «e ci sentono bene, molto bene, anche sin quaggiù. Poni la tua domanda, Adriàn di Opast».


Di tutto ciò che lui è stato, ricordiamo solo due lettere.

Grande il suo potere, come la montagna Ves’hra.

Nascosti i suoi discepoli, come le cicale sui tronchi.

Alto il suo orgoglio, come lo stormo impetuoso d’uccelli.


«Cosa c’è, oltre al velo?» chiese Adriàn.

La sua stessa voce gli tornò alle orecchie più volte, prima come un’eco distorta, poi sempre più roca, finché non capì che era quella del vecchio.

«Cosa c’è, oltre al velo?» gli chiedeva.

«Gli dei» rispose Adriàn, con sicurezza.

«Gli dei!» ripeté l’uomo, per poi esplodere in una risata roca. Uno schizzo di saliva superò la fessura tra i suoi denti e gli uscì dalle labbra. Lui, chiudendosi nelle spalle come un bambino, si passò il polso sulla bocca nel tentativo di ricomporsi.

«Perché non cominci con il togliere il tuo?» gli chiese.

Quelle parole sacrileghe colpirono Adriàn come una stilettata. Non lo avrebbe fatto, perché il monito dei suoi maestri gli risuonava nelle orecchie, crudo come la luce di un pomeriggio di fine estate.

Quando lo Shaggamàdhr ti concederà il suo favore, tu copriti il viso.

Eppure gli stessi spiriti dei morti a cui si era affidato lo stavano spingendo, in una torma confusa, verso l’ignoto. Lo stavano trascinando verso ciò a cui non doveva pensare.

«Io ho una bella vista, da qui».

Furono le ultime parole che il giovane gli sentì pronunciare. Poi, la cortina scura che lo offuscava cominciò a salire, prima svelando i bagliori che le ruote della sua sedia inviavano, restituendo la luce degli astri; poi il suo corpo ormai decomposto, l’angolo innaturale del suo collo, il suo capo reclinato verso il cielo.

La mano di Adriàn, con uno spasmo, scattò verso il velo, nel tentativo di afferrarlo, ma quello ormai giaceva a terra e lui aveva visto.

Delle grosse spine di vetro azzurro uscirono dal corpo del vecchio e gli trafissero la pelle ormai sottile. Gli schizzi di sangue nero, a contatto con l’aria di quel luogo, si trasformarono in piccoli fiori. Erano blu, come la luce che filtrava dal foro nel soffitto.

Come l’infinito in cui aveva guardato.

Non mi dimenticare.

Immersa in un mare luminoso, sopra al corpo che era ormai un cumulo di fiori, aggrappata all’oculo, stava la creatura. Un suo braccio nodoso anelava al cielo senza poterlo raggiungere e il suo capo, gravato dal peso di un palco di corna, era del tutto avvolto nella stessa stoffa che copriva il firmamento. Dalla sua bocca invisibile proveniva un continuo lamento di dolore: non era che una grottesca mummia che imitava gli dei, coloro che si trovano sempre oltre.

La follia si impadronì del respiro di Adriàn, gli esplose tra le costole e gli strinse, come il morso di un lupo, il cuore.

Fu allora che, attraverso gli occhi sgranati, vide un fiore: lento, volteggiava verso il pavimento. Tra tutto quell’azzurro, proprio al centro, c’era una corona d’oro.

Era come il Sole, quello che ogni giorno Duna con devozione osservava. Quello il cui arco nel cielo diventava un numero tracciato sulla pergamena.


«Lo sai, amore mio, quelli che sono venuti prima di noi pensavano che fosse l’occhio di un dio. Lo guardavano per qualche istante, e poi i loro occhi bruciavano: sì, doveva essere un dio, che osservava e non poteva essere osservato. Chissà, se riuscissimo a scrutarlo, cosa ci rivelerebbe».

Adriàn guardò fuori dalla finestra e non provò nemmeno a sostenere con lo sguardo l’astro splendido che li sovrastava.

«Niente» rispose. «Gli dei non vogliono che ci avviciniamo a loro».


Forse, cominciando quella battaglia, Adriàn sarebbe stato subito bruciato dal potere della creatura.

O forse, con il potere dello Shaggamàdhr che straripava dentro sé, avrebbe potuto domarla, come gli eroi delle leggende avevano fatto con serpi grandi quanto la reggia del Duca.

Allora sarebbe stato portato in trionfo, lo avrebbero eletto Duca dell’isola e avrebbe da quel momento in poi governato con saggezza la sua gente.

Tutti quegli scenari, però, non avevano significato davanti al prato sterminato di fiori blu che chiamavano il suo nome.

Adriàn si mosse e suscitò un vento di guerra, strinse il pugno e illuminò la sua arma con scintille potenti.

«Adesso io vedo» disse, con il viso rivolto verso il suo maestro.

Il ruggito di rabbia e dolore della creatura squarciò l’aria immobile, la sua testa con uno schiocco cominciò a muoversi.

«Ti vedo, Ur».



 

1Canto dello sciamano (Chippewa), da Canti degli indiani d’America.

   
 
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