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Autore: Helen_Rose    13/11/2021    1 recensioni
Ritrovarsi può essere difficile, quando i problemi aumentano e la distanza emotiva anche.
Ma, come si suol dire, quando c'è l'amore -e ci sono due figli che, volontariamente o involontariamente, ti ricordano di lui/lei in senso buono- tutto si può superare.
Ho avuto un'ispirazione un po' strana per le mie corde, dato che ho già sofferto abbastanza per l'angst on screen -in quello che tutti chiamano canon, ma in realtà è una parodia, cit. komova_va - . Spero possa piacervi ugualmente.
Questa fanfiction, naturalmente, è dedicata a tutti/e i/le fan #IRocco...
Ma proprio oggi, non posso esimermi dal fare una dedica alla mia chicchina di riso arborio, IRoccoPerSempre.
Sappi che, a dispetto di quel che dico normalmente, se mai dovessimo divorziare, ti farei pagare gli alimenti cari arrabbiati; sono infinitamente meno orgogliosa di #IeneNostra, #fatememagnà #machemefrega #machememporta
Ora che avete avuto tutti un assaggio della mia serietà, vi lascio alla lettura, se vi fa piacere.
Alla prossima!
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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“Diana Bice Amato, non ti permettere mai più di parlare di tua madre in questo modo, ci siamo capiti?!”.
Cala il gelo nella stanza.
Diego era tentato di attivarsi in prima persona per difendere la madre dalle ingiuste accuse di Diana, ma decide di tacere; pur essendo il fratello maggiore e, in quanto tale, sentendosi intitolato dalla natura ad essere un po’ il vice-padre della sorellina, ha il buonsenso di riconoscere quando l’intervenire gli farebbe fare solamente la figura del saputello, nonché del cocco dei genitori, dunque evita di aggiungere il carico da 90. 
Ci ha pensato il padre a rimettere in riga quella preadolescente indisciplinata, altroché. Come ogni ragazzina che si rispetti, si trova in quella fase della vita in cui vede Irene come una nemica, tutt’altro che un’alleata. Nelle madri si ripongono sempre aspettative altissime, persino impossibili da soddisfare; e stavolta, ai suoi occhi, l’ha fatta grossa.
Nella testa di Rocco rimbombano ancora le parole ingiuste e ingiuriose della figlia.
“Quella lì! Ha lasciato te, e anche noi! Passare qui tre giorni a settimana significa abbandonare i figli, non diciamo cavolate! Una madre non fa questo, e neanche una moglie! La odio, non la voglio vedere mai più! Quella puttana!”.
Che l’abbia sentito dire ai genitori di una compagna di scuola, o da una vicina pettegola, poco importa; di certo, non può aver sentito simili giudizi da Agnese: per quanto gli albori del rapporto con la nuora siano stati tutt’altro che privi di scontri, l’ha inglobata da tempo immemore come ottava figlia -comprese le altre due nuore, il genero e Rocco- e soffre immensamente per questa separazione tra Irene e il nipote.
Dapprima, è stato certamente il senso di giustizia innato in una persona che ha fatto squadra nella genitorialità fino al giorno prima, a spingerlo a smontare le recriminazioni di Diana sul nascere, imponendo silenzio assoluto con uno sguardo: “Vostra madre non ha abbandonato proprio nessuno. Anche io trascorro qui solo tre giorni a settimana, e per il resto del tempo abito dai nonni; così come la mamma sta da zia Roberta, zio Marcello, Vittoria e Andrea. Il fatto che sia stata lei la prima ad andarsene non significa proprio niente; è stata una decisione presa di comune accordo. Ci siamo separati, questa è la verità; ma se proprio dovete prendervela con qualcuno, allora dovete farlo con tutti e due, perché non è giusto che sia vostra madre a pagare”.
Chissà perché ha un po’ perso l’abitudine di accentuare il dialetto, se è furioso. Vorrebbe continuare la predica, ma viene interrotto dal figlio, piccato e offesissimo: “Quando avrò capito come facciate a usare quel plurale con tutta questa naturalezza, forse vivrò già fuori da questa casa. Ma se Diana spara idiozie, perché mi devi tirare in mezzo, scusa? Sono un po’ troppo cresciuto per prendermela selettivamente, no?”.      L’impertinenza di Diego va scusata, dal momento che il suo discorso non fa una piega; i genitori tendono molto a catalogare i figli. Rocco sospira e annuisce, in segno di resa.
“Tornando a te, signorina, la prossima volta in cui ti sento esprimerti con quel linguaggio, veramente ti do una timpulata che ti faccio volare fuori dalla finestra. Non ti devi permettere di dire certe parole A NESSUNO, men che meno agli adulti, e men che meno ancora A TUA MADRE. Non voglio doverlo ripetere mai più. Intesi?”.
Diana ribolle di rabbia. Non sa come sfogarla da oltre un mese; ormai, non sa neanche lei con chi vorrebbe prendersela, esattamente. Tra l’altro, doveva mettercisi pure Nicolò, che non la calcola manco di striscio dopo che erano stati inseparabili per settimane … E Marzia, che dopo sei anni di amicizia, ora preferisce Liliana a lei. Non lo ammetterebbe neppure sotto tortura, ma la persona con cui desidererebbe maggiormente confidarsi è proprio la sua mamma, che sicuramente le avrebbe rifilato il suo classico: “Chi ti ama, ti segua; gli altri, s’arrangino”; un’espressione che esiste da millenni, probabilmente, ma che deve aver coniato un’antenata di Irene Cipriani.   
Sua madre le manca terribilmente; le mancano la sua risata, la sua ironia, il suo pungente sarcasmo e l’insospettabile dolcezza che riserva agli intimi, e a lei in particolar modo: la sua unica figlia femmina, che inizia davvero a somigliarle ogni giorno di più …   D’altronde, l’evidenza parla chiaro: chiudersi a riccio, sparare insulti e fare professioni di orgoglio era un atteggiamento tipico dell’Irene ventenne, e che in certi casi particolarmente critici, tuttora non disdegna … Il suo peggior difetto, che mai avrebbe voluto trasmettere alla figlia. Eppure, eccoli lì, costretti a farci i conti.
Anzi, Rocco è costretto a farli; infatti, la seconda ragione retrostante all’ira funesta che l’ha spinto a stroncare sul nascere la polemica irriverente di Diana, è proprio la furia cieca che lo assale di fronte a questo atteggiamento reiterato della moglie, nonostante si conoscano da ormai vent’anni; di fronte a quella chiusura, a quel muro, a quel blocco. Uno degli innumerevoli motivi che li hanno spinti a separarsi, alternandosi però nella casa dove hanno sempre convissuto, per non scombussolare la routine dei figli: Diego ha 17 anni e Diana quasi 12, ma se il primo si è adattato bene, la seconda … Beh, ecco.
La terza, imprescindibile ragione che, ha scoperto dentro di sé, è stata in realtà quella che ha scatenato in lui questo senso di lealtà nei confronti della moglie, è il principio più banale e antico delle dinamiche tra innamorati: solo lui può parlar male di Irene, ma tutti gli altri non si devono azzardare; neppure i figli, tantomeno ingiustamente.
Se n’è reso conto solamente ora … Ma non è, di per sé, un ottimo motivo per rivalutare i termini di quella separazione che, sì, nasceva da una crescente intolleranza dei difetti reciproci - che in quel periodo particolarmente stressante delle loro vite, parevano accentuati a dismisura - , ma anche dal dubbio che il sentimento tra di loro fosse finito, o se non altro sopito? Ma non lo era. Eccome se non lo era. Non lo è. E non dovranno essere i figli a riunirli. Dovrà essere il loro amore, e basta; e di motivi, a ben pensarci, ce ne sono a dismisura, molti di più rispetto a quelli che li avevano spinti a chiudersi reciprocamente la porta in faccia, in un giorno di ottobre risalente a ormai infinite, intollerabili, troppe settimane prima.
Perché entrambi avevano raggiunto il punto di rottura.
Entrambi erano stremati dalla quotidianità; dal lavoro, dai motivi di stress, dalle responsabilità che non sembravano far altro che aumentare; da un figlio appena uscito dall’adolescenza, pur portandosi ancora dietro degli strascichi, e l’altra preadolescente.
Entrambi erano arrivati a essere intolleranti ai rispettivi difetti, alle rispettive manie.
Entrambi avevano smesso di comunicare con l’altro e avevano iniziato a far affidamento solo su di sé, atteggiamento che è tipicamente indice del momento in cui, nella coppia, si genera una gigantesca crepa che difficilmente può essere riparata.
A onor del vero, quel comportamento era partito da Irene: le situazioni di tensione, molto spesso, tirano fuori il peggio delle persone, riportando a galla delle pecche del carattere su cui si aveva lavorato, spigoli che erano stati smussati, difetti rimarginati.
 
Rocco ha stampato in testa, come se fosse ieri, il ricordo della scenata che li spinse a separarsi definitivamente, almeno per il momento: “Tu lo sai cosa significa essere sposati? Avere un CONSORTE. Te lo devo spiegare io a te, che sei istruita, cosa significa la parola CON-SORTE? Significa che, con quella persona, così come ci siamo promessi davanti a Dio, si condividono la buona e la cattiva sorte. INSIEME. Ma se tu fai sempre tutto di testa tua, me lo spieghi che ci stiamo a fare, qua?” le aveva urlato contro, quasi tutto d’un fiato, paonazzo in volto e con le vene del collo che pulsavano.
 
E la cosa peggiore era stata che Irene non aveva saputo fornirgli una risposta.
Non sapeva nulla. Non sapeva se l’amasse ancora, non sapeva cosa fare, non lo sapeva.
Ora, invece, Rocco l’ha capito: dopo aver provato una reale sensazione di mancanza, di assenza sia fisica che “spirituale” di sua moglie, dopo aver avuto un assaggio di come sarebbe stato il resto della sua vita senza di lei, sa con assoluta certezza di non voler proseguire con quella tortura, di non volerlo scoprire mai.
Finalmente, conosce la risposta alla domanda che si era posto per anni, con cadenza più o meno regolare: “Avrò davvero voglia di stare ancora con lei tra 10, 20, 30 anni?”.
Ecco, la risposta è un sonoro, tondo, pieno, fiero, inequivocabile SÌ.
Resta solo da capire se, per Irene, valga altrettanto.
 
A interrompere il flusso dei suoi pensieri è proprio la sua preadolescente ribelle, che sta crescendo a immagine e somiglianza della madre; con buona pace di Rocco che, in più di un’occasione, si è ritrovato a compatire fortemente il suocero, Tommaso Cipriani, che aveva cresciuto la moglie da solo, da quando era rimasto vedovo; per quanto non l’avrebbe MAI ammesso di fronte a Irene, sia per non scatenarne le ire - era Rocco il preferito di Tommaso -, sia per una questione di riguardo verso di lei.
 
Diana sa benissimo di trovarsi in una posizione di difetto; dopo la sfuriata del padre, il fratello l’ha presa da parte e l’ha fatta ragionare. Tuttavia, proprio come sua madre, non è bravissima a chiedere scusa - cosa che, invece, Diego ha preso da Rocco - , quindi l’unico modo che conosce per farsi perdonare è sfoderare la sua migliore espressione angelica e far leva sui punti deboli dei genitori. Nel caso di Rocco, sa che non potrebbe dire di no a quella loro piccola coccola, a quel loro momento speciale.
Si avvicina un po’ timorosa: “Papà? … Mi sbucceresti la mela? … Per favore?” aggiunge, come bonus; solitamente, è già tanto se fa la richiesta usando il condizionale.
Rocco inarca un sopracciglio, severo. “Ormai, dovresti essere abbastanza grande per pelartela da sola; o al massimo, c’è tuo fratello”
“Lo so … E anche la mamma era … È, molto brava a sbucciare la frutta. Ma a me piace quando lo fai tu; fai finta di non ricordarti che sarebbe destinata a me, e ne mangi un pezzo; e dopo che mi sono arrabbiata, togli la parte che hai morso e mi dai il resto”.
Non sia mai che sua madre passi come la classica donna imbranata nei lavori manuali e che levi al padre il privilegio di fornirle una mela completamente pelata, da bravo capofamiglia; la sua famiglia odia gli stereotipi, però ama moltissimo i rituali.
Irene era diventata imbattibile con le torte di mele … Rigorosamente pelate da Rocco; il quale, ovviamente, nel processo se ne faceva sempre fuori almeno tre o quattro.
 
Ad ogni modo, come previsto, Diana è riuscita nell’intento di sciogliere Rocco; per meritarsi quel bacio di riappacificazione, però, ha dovuto esplicitamente scusarsi.
“E dì a tuo fratello di sistemare quei vestiti che lascia in giro per tutta la casa!”.
Un disordinato cronico … Proprio come la sua Irene. Sì, ormai ha decisamente oltrepassato quella fase per cui i difetti della consorte, riflessi nei figli, lo facevano imbestialire; ha ricominciato a sorridere di tenerezza, proprio come faceva un tempo.
 
~
 
“Roberta, ti ho già spiegato che è fuori discussione”
“Ma perché?” sbuffa l’amica, spazientita; di questi tempi, è impossibile far ragionare Irene … Perlomeno, più del solito; testarda com’è, ci vuole solo la sua pazienza.
“Perché non mi interessa assolutamente nulla di incontrare Rocco per una questione che non riguardi Diego e Diana; finiremmo per discutere e rinfacciarci di nuovo le stesse identiche cose degli ultimi mesi. Gli dirò che non ho intenzione di vederlo”
“Ma …” prova a controbattere Roberta, disperatamente.
“Ho detto di no. Punto. Chiuso. Fine della discussione. Godiamoci questo tè in santa pace” sentenzia Irene, che dopo essersi sfilata le scarpe da due poveri piedi gonfi e quasi fumanti, per quanto le pesano, si è lavata le mani e ha solo voglia di calore.
“Secondo me, invece, sbagli. So benissimo che si tratta della tua vita, ma qui c’è di mezzo anche quella dei tuoi figli. Se proprio non sei convinta di potergli dare un’altra possibilità, il minimo che tu possa concedergli è di sentire quel che ha da dirti”. Un tempo, Roberta era nota per la sua estrema onestà con le amiche, ma anche per essere molto accomodante, una volta che avevano preso la propria decisione in autonomia. Le sembrava irriguardoso intromettersi troppo; le lasciava sbagliare. Con il tempo, essendosi amaramente pentita di averlo fatto in alcune occasioni, aveva imparato a trasferire parte di quella grinta che tirava fuori con Marcello anche nei rapporti amicali.
Irene, per tutta risposta, sbuffa. Anche lei, però, è migliorata, in diplomazia … Circa. “Senti, Roberta, so che lo dici per me; ma davvero, ho preso la mia decisione, e non c’è nulla che tu possa fare o dire per farmi cambiare idea. Se ci siamo separati, un motivo c’è; non ho mai creduto nelle minestre riscaldate”.
Si interrompono all’udire degli sbuffi e dei versi di esasperazione da parte di Vittoria, nella stanza adiacente: e per provenire da Vittoria, la situazione dev'essere tragica.
Sta tentando invano, da almeno 20 minuti, di insegnare a suo padre a pronunciare: I love you decentemente, da vero Englishman: ma l'unico risultato che riesce a ottenere è forgiare un valido volto -e una valida voce- pubblicitario/a per infinite marche di prodotti per l'igiene personale.
“Ai lav iu”, ripete ostinatamente Marcello.
“Stavolta il tipo di bagnoschiuma prescelto è 'Dove'? Papà, sii serio!”
“Amore mio, ci sto provando; ma io so dirlo solo così”
“Non è assolutamente vero; la mamma mi ha detto che hai avuto un sacco di amiche americane, non scherzare”.
Marcello si volta verso Roberta e inarca il sopracciglio, come per dire: ‘Di nuovo?’.
Roberta si stringe nelle spalle, facendogli l'occhiolino in segno di resa totale.
Fortuna che Vittoria, per certi versi, è di un'ingenuità disarmante; non è per niente sospettosa, il che, a volte, gli risulta preoccupante: sarà veramente sua figlia?

“Dai, vediamo se in presenza della mamma ti viene più spontaneo dirlo”. Le sue amiche non facevano che ripeterle quanto fosse fortunata ad avere due genitori così affettuosi e innamorati dopo 20 anni, laddove i loro a malapena si davano la buonanotte prima di andare a dormire, in tempi diversi, e neppure nello stesso letto.
A Vittoria non dispiaceva, anzi, vederli così uniti la rasserenava - anche perché il fatto che fosse indiscutibilmente la cocca del padre non era un mistero per nessuno, e non le toglieva assolutamente nulla a livello di attenzioni, neanche da parte di Roberta - ; Andrea, ovviamente, si schifava.
Entrambi erano dispiaciuti per zia Irene e zio Rocco, sempre stati anch'essi unitissimi; ma nonna Agnese sosteneva che fosse una crisi passeggera, e nella maggioranza dei casi, aveva ragione.

Marcello accoglie prontamente il suggerimento: si gira verso la moglie e, senza cambiare di un millimetro la pronuncia e l'inflessione, proferisce: “Ai lav iu”. Persone pulitissime, indubbiamente.
“Sei senza speranza!” sentenzia Vittoria, fintamente piagnucolosa, inconsolabile.
Eppure, Roberta, che tuttora quando può approfondisce la conoscenza dell'inglese, anche facendosi aiutare dalla figlia, proprio non riesce a non fare un sorrisetto compiaciuto e a scoppiare a ridere, beata; sarà perché non ha sbagliato una formula fondamentale di Ingegneria, o perché sa che Marcello ha appreso, appunto, nozioni molto più complicate per aiutarla nello studio, e questo contrasto la fa sorridere; o perché lo sta davvero facendo apposta per mandare in esaurimento nervoso la figlia, che consola prontamente con una tempesta di baci a cui non può sottrarsi.

Inutile specificare che Irene torna immediatamente a quel pomeriggio in cui insegnò pazientemente a Rocco a cantare Ain't no mountain high enough - con risultati strepitosi, va detto - ; e a tutte le volte in cui lei gli ha insegnato termini in milanese, o viceversa lui a lei in siciliano, e l'espressione di entrambi di fronte a certi abomini di pronuncia del proprio dialetto non era quella che avrebbero avuto di fronte a qualunque altra persona li avesse proferiti, bensì quella di Roberta, identica.
Laddove non poterono le argomentazioni dell'amica, potè l'incontrastabile supremazia del ricordo. Irene non poteva rinunciare a tutto ciò che lei e Rocco erano stati, a ciò che avevano costruito: ciò che aveva provato sentendo riaffiorare i ricordi non era qualcosa di nostalgico, ancorato nel passato, ma di vivo, tangibile, vicino.
E se i ricordi sono così vividi e suscitano certe sensazioni, non saranno mai morti.

Accorgendosi del suo turbamento, Roberta la richiama all'ordine per sottrarla allo sguardo indagatore della figlia: “Dai, Irene, vieni di là; dobbiamo finire il nostro tè”.
Appena sedutasi al tavolo della cucina, Irene scoppia a piangere. Roberta rimane di sasso: in tanti anni, le volte in cui sono capitati questi sfoghi da parte dell'amica si contano sulle dita di una mano soltanto. “Scusami... È che penso sia stata davvero una pessima idea venire qui. Non siete la famiglia del Mulino Bianco, ma vi ci avvicinate parecchio” sdrammatizza Iei stessa, prendendo un fazzolettino di carta per ripulirsi il viso dal trucco colato.
“Non credere, sai” replica Roberta, accennando un mezzo sorriso.
“Ma dai, non ci credo” ribatte l'altra. Le sono sempre stati riferiti screzi di minima portata, e poi conosce bene i suoi amici.
“Certo; perché sembriamo così complici - e lo siamo, beninteso - , che se provassi a descrivere Marcello come possidente difetti relazionali, cadreste tutti dal pero e mi dareste della pazza squinternata, dato che a momenti potrebbe prendere accordi per erigere una statua in mio onore.
Ma tutta questa premura è dannosa, fidati di chi la vive in prima persona; pensa di potermi tenere sotto una teca di cristallo alla veneranda età di 40 anni, non capendo che l'unico risultato che ottiene è quello farmi imbestialire: sono la moglie, non la figlia o una poverina da proteggere”
“Effettivamente, queste dinamiche non mi suonano nuove... Ma ne ha più combinate di grosse come per la faccenda del Mantovano?” bisbiglia Irene, comprensiva.
“Sarà successo tre o quattro anni fa: aveva iniziato a tornare a casa sempre dopo le 22, sostenendo che avessero troppi ordini e che fossero lui e Salvo a occuparsi degli straordinari, per evitare rogne burocratiche con i dipendenti. Passavano i giorni, poi le settimane; era sempre più distante, quasi non si ricordava più di avere una famiglia; era stanco, svogliato, questo quando c'era”
“Sì, mi pare di ricordare che me ne avessi parlato, all'epoca” conferma Irene.
“Morale, un giorno ero da Salvo e Sofia e, parlando con Sofia, le chiesi se non fosse possibile assumere qualcun altro, perché la situazione era davvero insostenibile; Salvo ci aveva sentite dall'altra stanza e, protettivo com'è nei confronti di Marcello, mi piombò addosso come un falco, spiegandomi il perché e il per come non potessi essere accontentata, ovvero che erano in difficoltà economiche in quel periodo, toccava arrangiarsi; poi si bloccò, si rese conto di aver appena causato la terza guerra mondiale, si scusò e si ritirò di buon ordine”. Roberta scuote la testa.
Irene non riesce a trattenere le risate.
“Appena rimise piede dentro casa, quella sera, a Marcello toccò un'alzata da terra che tuttora si ricorda" racconta Roberta, con una tale, pacata enfasi quasi da non sembrare la co-protagonista di tale aneddoto, bensì una semplice narratrice. “Gli tenni il muso per giorni”
“E poi?” incalza Irene, ormai piegata in due dal ridere, senza più un contegno. Può solo immaginare la faccia della sua amica.
“Poi, una settimana dopo, mi riferì un ammanco in cassa di 5000 lire”.
È la fine. Irene è costretta a uscire dalla cucina e a rifugiarsi in bagno; ora, il trucco le sta colando per lacrime dovute al riso.

~
Uno, due, tre, quattro.
La campana delle otto di sera fa i suoi rintocchi, e Rocco sta praticamente passeggiando in circolo al ritmo di quei rintocchi, nell’attesa di Irene.
Cinque, sei, sette, otto.
È arrivato con un anticipo di venti minuti, ma naturalmente, non si aspettava che lei facesse altrettanto. Spera solo che non sia troppo in ritardo, però; l’attesa lo sta consumando lentamente. Cosa gliel’ha fatto fare, di arrivare prima? L’ansia, ecco cosa.
 
Si siede su una delle panchine della piazzetta; uno dei loro luoghi preferiti per passeggiare, chiacchierare. Un ricordo dolcissimo è legato al periodo in cui Irene aveva litigato con il padre e non sapeva dove trasferirsi, prima di approdare a casa ragazze. Rocco aveva coperto con mirabolanti scuse e trucchi la sua permanenza in magazzino -si era persino procurato dei ratti per creare una finta emergenza che giustificasse il disordine perenne lasciato da quel disastro di donna; non fosse che avevano rischiato che procedessero con la derattizzazione per davvero - ; le aveva pagato qualche notte in pensione, per poi trovarle un posto in convento, con somma gioia di quella che, allora, era solamente un’amica… Non avrebbe mai ammesso neppure a sé stesso che colei che lo considerava un signore, laddove lui era convinto che ogni abitante di Milano – Irene su tutti – lo reputasse uno zotico, fosse l’unica donna capace di vederlo veramente per com’era, per come sarebbe diventato; non perché le interessasse di convincere chissà chi del fatto che stesse frequentando – foss’anche come amico – una persona valida; ma unicamente perché aveva a cuore il suo interesse, gli voleva bene e sminuirsi non lo portava ad altro che auto-indursi un meccanismo peggiorativo della propria persona.
 
Ricordava perfettamente anche la risposta di Irene, in quella notte invernale in cui, per la prima volta, aveva davvero visto e compreso la sua anima fragile : “E nessuno mi ha mai trattata come stai facendo tu adesso”. Da vero signore, per l’appunto.
Un atteggiamento che non gli si poteva certo attribuire, negli ultimi tempi.
L’aveva data per scontata. Aveva smesso di guardarla come, senza neppure accorgersene, aveva fatto in quell’occasione, e per tantissimi di quegli anni insieme.
 
Solo che, notando finalmente il suo incedere deciso, svelto e al contempo elegante, indice di quella sicurezza innata che l’aveva rapito e sconvolto fin da subito, la domanda su come la stia guardando ora, complici anche le ondate di ricordi che lo stanno assalendo in questi giorni, trova immediatamente una risposta: come uno che si chiede quale uomo sano di mente potrebbe perdere interesse in una donna così.
 
Irene si avvicina e gli sorride, un po’ sulle sue a dire il vero.
“Ciao”
“Ciao”.
Urge che sia uno dei due a rompere il ghiaccio, altrimenti quest’incontro potrebbe prendere una piega imbarazzante che neanche due adolescenti al primo amore.
“Sei stato tu a chiedermi di vederci, quindi… Ti ascolto”.
Fosse facile. Nei giorni precedenti aveva tentato di ripercorrere nella propria testa i ragionamenti da riproporre ad Irene, cercando di renderli ordinati, sensati, omogenei; scrivere una specie di discorso no, non era una buona idea: sarebbe risultato sterile, e la scrittura non era un ambito che gli appartenesse particolarmente. Era talmente teso alla sola idea di chiedere a Irene di potersi incontrare, che l’aveva evitata per giorni, mandando sempre i magazzinieri – suoi sottoposti – in galleria al posto suo, e pregando che la capocommessa – ovverosia, sua moglie – facesse altrettanto con le veneri; roba che neanche i primi giorni dopo la separazione l’avevano visto sul posto di lavoro, dove, così come coi figli, avevano cercato di mantenere civiltà e cordialità.
 
“Forse non c’è un modo più giusto di un altro per dirlo… Quindi, ci provo e basta: mi manchi, Irè”. Pausa. Lei, dal canto suo, cerca di trattenere un sorriso enorme: solo lui l’aveva sempre chiamata così, e si era sentita persa senza quel soprannome; quelle piccolezze che formano la tua quotidianità, il tuo mondo affettivo, le tue certezze.
“Mi manchi tutto il giorno, tutti i giorni; anche se al lavoro ci incrociamo, anche se ci dobbiamo vedere per il bene di Diego e Diana. Me lo sono chiesto, sai; se mi mancava solo il ricordo di noi, e non tu, non la Irene di questo periodo, di oggi. Però, secondo me quelli di questo periodo non siamo proprio stati noi… O meglio, una parte del nostro modo di essere e di fare che non ci piace, che andrebbe accantonata”. Non sa come portare avanti il discorso, ma fa un ultimo, disperato tentativo. “Secondo me, non è finita tra noi due. Secondo me, separarsi è stato uno sbaglio”.
 
Irene, compiaciuta perché, in fondo, era quello che voleva, tenta di mantenere un’aria impassibile, per spaventarlo un po’. “Secondo me, invece, abbiamo fatto bene”.
Rocco deglutisce, sudando freddo. “Ah”.
“Sì… Parlare con Roberta mi ha fatto riflettere”.
Adora i loro amici, ma se alcuni paragoni scherzosi con la perfezione della loro coppia normalmente lo fanno sorridere veramente, in questa situazione delicata, essere paragonati al matrimonio di Mr e Mrs Andati In Terapia Di Coppia A Monte – come ama soprannominarli, con grande divertimento degli stessi – lo destabilizza un po’.
“Lei, nella sua famiglia del Mulino Bianco?” replica, acido. Irene sorride; sa che l’acidità non è realmente intenzionale, e l’humor sarcastico è qualcosa che hanno sempre condiviso e ha sempre garantito un ottimo intrattenimento degli ospiti.
Si decide a liberarlo dalla sofferenza. “Mi ha raccontato di alcuni episodi in cui Marcello ha omesso cose importanti; non riguardo al loro rapporto e ad aspetti che non gli andassero bene, ma si trattava comunque di informazioni che, in un qualche modo, si riflettevano su tutta la famiglia. Agiva spesso così per non farla preoccupare; ora, finalmente, ha capito di dover abbandonare questa pessima abitudine”.
“Bene, anche loro hanno difetti, mi fa piacere… Ma non capisco” fa lui, perplesso.
“Il loro rapporto è migliorato perché Roberta si è sgolata nel ribadire cosa non andasse. Anche noi abbiamo smesso di raccontarci le cose l’un l’altra… Ma perché mancava l’interesse reciproco; è così, purtroppo. Quello che voglio dire, però, è che, così come loro, abbiamo avuto il coraggio di affrontare il problema; secondo me, separarci ci ha fatto davvero bene, per riorganizzare le nostre priorità, per avere un assaggio di solitudine, per capire… Perlomeno, a me è servito”
“Sì, messa su questo piano, pure a me” si affretta a precisare Rocco. Meno male che c’era lei, che era diventata bravissima a tradurre in parole le proprie emozioni, compensando così i suoi neuroni mancanti – recriminazione che si faceva da solo - .
 
“E soprattutto, il fatto che siamo stati onesti con noi stessi e tra di noi ci ha impedito di nascondere la testa sotto la sabbia come fanno tante, troppe coppie sposate; si adagiano sull’abitudine, sulla routine, ma soprattutto sull’ipocrisia. Mi conosci… Non avrei mai potuto recitare la parte della mogliettina adorante senza crederci veramente”
“Anche perché adorante, Irè, non lo sei stata mai, proprio” accenna una presa in giro, lui, sperando che il gesto distensivo venga colto.
Ha centrato l’obiettivo. “Beh, mi avresti mai voluta devota e priva di personalità?”
“No, e anche se non lo dico spesso, è questo che amo di te”.
Era vero, non lo diceva spesso; ma si era sempre premurato di farglielo capire. Sentirglielo dire aveva tutto un altro effetto… Ma era ciò di cui Irene aveva bisogno.
Non si sarebbe mai sbilanciata in un Ti amo  in simili circostanze; tuttavia…
“Se vuoi riprovarci, per me va bene”. Sintetica, telegrafica, cristallina.
“Se lo voglio? Certo… Certo che lo voglio, Irè”. Non sa che altro aggiungere; gli viene solo da sorridere come un deficiente. Ciò che più desidererebbe è un bacio… Ma sono due adulti con prole, maturi, responsabili, e conviene fare un passo alla volta.
“Posso abbracciarti?” chiede, quindi.
Normalmente, l’avrebbe preso in giro, allontanato, fingendo di non gradire; ma anche lei si sente fragile, provata da quella situazione protrattasi troppo a lungo. Ne ha bisogno, senza troppi fronzoli né sceneggiate. “Certo”.
Ed è in quella stretta, in quella morsa delicata, in quel profumo così familiare, la cui assenza aveva pesato per troppo tempo su di loro, che ritrovano un senso a tutto.
   
 
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