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Autore: Calendula    15/11/2021    0 recensioni
[Kirikù e la strega Karabà]
[Kirikù e la strega Karabà][https://it.m.wikipedia.org/wiki/Kirik%C3%B9_e_la_strega_Karab%C3%A0 ]
Ho sempre amato questo film, recentemente l'ho rivisto e ho pensato di scrivere un po' il punto di vista di Karabà. Sicuramente arriverà qualche altra storia.
-"Strega Karabà! Perché. Sei. Cattiva?"-
-“Perché? Perché non mi resta altro, detestabile Kirikù!”-
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- “Strega Karabà! Perché. Sei. Cattiva?” –

Le parole di quello scricciolo di bambino le erano rimaste incastrate in testa, fastidiose nella loro semplicità. 
Non si era mai chiesta perché era cattiva, era così e basta, cos’altro poteva essere una donna libera e potente se non malvagia? E poi, aveva smesso di fare e farsi domande da molto, molto tempo, da che non era stata più Karabà ed era diventata la Strega. 

Le capitava, a volte, in quelle lunghe e numerose ore di solitudine passate in quella capanna grande e vuota, circondata da feticci inutili e muti, di ricordare quella che era stata prima- ma da ricordare le restava poco, memorie sbiadite e confuse della vita di un’altra. 

Era stata intelligente, ed era stata curiosa, diffidente e vogliosa di essere libera. Era stata ribelle, e innocente di un’innocenza rubata al tempo che vola. Era stata se stessa, e l’avevano punita, era stata forse buona o almeno non crudele, e l’avevano distrutta. Era stata, e adesso non era più… 

Beh, qualcosa almeno le restava: la cattiveria.
Adesso era questo: cattiva, come aveva detto quel marmocchio, malvagia e cannibale, come dicevano gli abitanti del villaggio... Adesso era la potente Karabà!


Lei non amava i bambini- erano rumorosi, e non ragionavano mai per fatti propri, inseguivano la prima cosa colorata che vedevano, non importava quante volte fossero stati avvisati di non farlo… un’autentica disperazione per le loro madri!

E le madri, poi! Le disprezzava. Disprezzava le donne in generale. Mandavano avanti da sole la propria casa, i propri figli scapestrati, l’intero villaggio, i commerci, l’agricoltura… e per cosa? Per disperarsi sulla sorte di un uomo inutile, che mai le aveva aiutate e che non aveva saputo probabilmente neppure amarle per bene. Come avrebbe potuto non disprezzare creature così insulse da farsi deboli per far sentire forte qualcun altro? E se ancora poteva concepire che stravedessero per i figli che avevano partorito a costo della vita, quell’amore cieco per gli uomini le suonava come pura follia.

Lei li detestava, gli uomini. Li detestava tutti, dal primo all’ultimo, dacché cominciavano a comportarsi come se ogni cosa fosse loro dovuta, fino a quando, vecchi e decrepiti, ancora biascicavano ordini e lamentele. 


Era stata colpa loro se la sua ira era caduta sul villaggio, e poi osavano chiederle perché li tormentasse! come se non fosse stato uno di loro a venire da lei la prima volta, con i propri piedi, a sfidarla ritenendo che lei fosse responsabile della morte del suo bestiame- una pecora che lei mai aveva visto e a cui mai si era interessata, e che probabilmente era stata sbranata da un qualche animale selvaggio.  Lo aveva punito, quello stolto che non riusciva a guardare neppure al di là del proprio naso, costringendolo a sorvegliare tutto, giorno e notte. Se lo era meritato.

Da lì, avevano cominciato ad addossarle la colpa di tutto: della pioggia che non veniva o della fonte che si prosciugava, del raccolto scarso e di tutte le loro altre sventure, perfino dell’idiozia dei loro uomini!
E lei, cosa avrebbe dovuto fare? Negare? Spiegare con sottomessa cortesia che no, non aveva alcun interesse a mangiarseli dal primo all’ultimo, e che per le loro sventure avrebbero dovuto prendersela con loro stessi e la loro volubilità, magari col cielo, ma di certo non con lei che, lacerata da una fitta costante e tremenda, aveva ben altro a cui pensare? Non l’avrebbero mai ascoltata, e quindi lei aveva deciso di far pagare loro il pegno. Aveva chiesto oro - senza si può vivere, di nuovo se ne può guadagnare. 

Gli uomini erano venuti a sfidarla di loro sponte, lei non li aveva mai chiamati – l’ultimo, poco più che un ragazzo, probabilmente l’aveva affrontata più per scena che per effettiva speranza di fare qualcosa.  
Lui aveva un cappello magico che le pareva interessante, e sarebbe stata ben lieta di liberarsi di tutti loro con quel semplice scambio -beh, almeno finché non avessero trovato qualcosa di nuovo di cui incolparla- ma si era rivelata una truffa e quindi aveva chiesto altro oro.


Erano venute tre donne a portarlo, la più ricca, la più vecchia capace di camminare e la giovane figlia del saggio della montagna. Si erano inchinate davanti a lei con il volto per terra e la prima aveva incominciato con la sua litania, quando da dietro sua madre era spuntato un bambino minuscolo, che con una sfacciataggine che può appartenere solo agli innocenti, le aveva chiesto il più irrispettoso dei perché. E aveva trasalito lei, davanti a quel bambino che si era presentato a voce chiara con il nome Kirikù, ed era stata talmente sorpresa da non riuscire neppure a fare davvero qualcosa se non minacciare di mangiarselo quando fosse stato più grande. Era strano, dopo tanto tempo, che qualcuno non avesse paura di lei oltre il ragionevole, che qualcuno le chiedesse perché… 


Non riusciva a dormire. Si sentiva stanca, il dolore sempre più intenso e quella domanda odiosa che ormai aveva messo radici nella sua testa. Si tirò in piedi, di malumore più del solito, pronta a fare qualcosa che l’avrebbe fatta odiare e temere ancora di più. 

-“Perché? Perché non mi resta altro, detestabile Kirikù!”-
   
 
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