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Autore: Adeia Di Elferas    16/11/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina sollevò per un istante la penna in aria e rilesse le ultime righe che aveva scritto. Le era sembrato eccessivo, in un primo momento, mandare ben due missive, nell'arco di un mese, a Francesco Gonzaga, ma poi si era detta che un uomo della sua tempra non andava lasciato troppo a briglie sciolte. Ricordargli abbastanza spesso a chi in parte doveva la sua fortuna era un qualcosa che lo avrebbe fatto rigare dritto.

Dopo la lettera mandatagli all'Epifania, in cui si complimentava di nuovo con lui per l'incarico che Firenze gli voleva accordare, adesso, arrivati al 21 gennaio, non le sembrava fuori luogo avanzare qualche piccola pretesa. Dopo essersi raccomandata alla protezione di Francesco, si era raccomandata anche a quella del fratello, Giovanni Gonzaga, che si trovava in Germania.

In particolare, a quest'ultimo chiedeva di raccomandare a sua volta 'tutte le cose mie presso quella maestà imperiale e la Christianissima Regina', intendendo, ovviamente, con quell'ultima allocuzione a sua sorella Bianca Maria, andata tristemente in sposa anni prima all'Imperatore.

Abbastanza soddisfatta della missiva scritta e dei toni usati, la Leonessa stava per apporre la firma in calce, quando qualcuno bussò alla porta della sua camera. Le sembrava strano, dato che non era ancora l'alba e non aspettava né lettere né visite.

“Chi è?” chiese, senza alzarsi dalla scrivania.

“Madonna, sono io.” la voce di Creobola era appena udibile, come se la serva stesse cercando di tenere basso il tono, per non disturbare nessun altro se non la sua signora: “Si tratta di una cosa urgente.”

Lasciando di malavoglia la sedia, la Tigre andò ad aprirle. Quando se la trovò davanti, l'intrigante domestica aveva in mano un messaggio sigillato, ma, invece di porgerglielo subito, lo teneva stretto a sé.

“Che c'è, si può sapere?” chiese allora la Sforza, confusa da quell'atteggiamento.

“Una staffetta è appena arrivata, portando questo e dicendo di doverlo consegnare a messer De Rossi in persona.” spiegò la serva: “Dopo tante parole sono riuscito a convincerlo a darlo a me, affinché lo portassi io al nostro ospite, ma poi ho ricordato il vostro ordine di non disturbarlo mai, quando è in camera sua e così...”

“La staffetta ti ha detto se si tratta di un messaggio che necessita risposta?” chiese Caterina, comprendendo finalmente la ritrosia di Creobola.

“No, ma mi ha detto che può aspettare messer De Rossi, nel caso, dopo aver letto, volesse ripartire subito assieme a lui per le sue terre. Così ha detto.” rimarcò la serva, con serietà.

Intuendo che doveva trattarsi davvero di qualcosa di importante, la Leonessa allungò una mano e, perentoria, ordinò: “Dammi la lettera. La porto io al De Rossi. Gli riferirò le parole della staffetta.”

Dopo una leggerissima incertezza, la domestica obbedì e, mentre lasciava la missiva nella mano della sua signora, volle aggiungere: “Attendo qui la risposta da riportare alla staffetta.”

“Come vuoi.” borbottò Caterina, chiudendosi la porta alle spalle e andando subito verso la stanza di Troilo, benché fosse in abiti da camera, senza nemmeno una vestaglia a ripararla dal freddo ancora notturno di quelle ore antelucane.

Arrivata finalmente alla stanza dell'ospite, però, la Tigre ebbe la tentazione di tornare indietro e lasciare che fosse Creobola a occuparsi di quella consegna. Le ci volle non poca forza di volontà, per bussare e aspettare una risposta.

Anche se sapeva benissimo di trovare anche Bianca, in quella stanza, non aveva alcuna voglia di vederla, anzi, nemmeno di intravederla nel letto dell'emiliano.

Si era aspettata di sentire il De Rossi chiedere chi fosse o, anche, di non ottenere risposta alcuna.

Perciò ebbe un piccolo sussulto, quando la porta si aprì di scatto, anche se di poco, e si trovò davanti Troilo, a petto nudo, assonnato e scapigliato. Si impose di non abbassare lo sguardo, ma vide lo stesso che l'uomo si copriva con un lenzuolo probabilmente preso dal letto all'ultimo momento. Quel dettaglio le ricordò le tante volte in cui, a Ravaldino, andava ad aprire la porta al suo castellano, Cesare Feo, in condizioni simili, causando in lui un profondo imbarazzo che solo ora capiva appieno.

“Madonna...” fece l'uomo, confuso, sforzandosi di coprirsi di più.

Caterina, in fretta e senza perdersi in convenevoli, gli porse il messaggio e gli riferì le parole della staffetta. Appena prima di congedarsi, involontariamente, con lo sguardo si spinse appena sopra la spalla di Troilo, e vide davvero Bianca in parte nascosta dalle pesanti coperte del letto dell'emiliano.

“Non volevo disturbare – ci tenne a dire la Tigre, accorgendosi che anche la figlia l'aveva intravista e riconosciuta – ma mi sembrava una cosa urgente e non volevo che altri... Ecco...”

Non trovando altre parole, e avendo davanti il De Rossi, che ne aveva trovate ancor meno di lei, la Sforza concluse quella parentesi con un cenno di commiato e se ne andò in fretta, quasi si fosse scottata.

L'emiliano, richiudendo l'uscio, guardò la lettera e andò a sedersi sul letto. Alle sue spalle, Bianca, che aveva sentito tutto, si stava dando da fare per accendere qualche candela e rendere all'uomo più agevole la lettura.

Troilo la ringraziò tacitamente e ruppe il sigillo, che portava il leone rampante, lo stemma della sua famiglia. Lesse in fretta, in silenzio. Deglutì un paio di volte e poi si voltò verso la Riario che, per rispetto, era rimasta a distanza, evitando di leggere anch'ella standogli alle spalle.

“Mio padre non sta bene.” parafrasò lui, ammorbidendo in parte i toni molto più drammatici usati dalla madre: “Mi chiedono di rientrare in fretta a San Secondo. C'è il rischio che i miei parenti lo scoprano e vogliano approfittarne.”

“Parti subito.” lo incitò la ragazza, mettendo a tacere il dolore straziante che già le corrodeva l'anima all'idea che così, d'improvviso, avrebbe dovuto separarsi da lui chissà per quanto: “Non aspettare. Io non lo farei. Prendi il tuo cavallo e parti.”

L'uomo, che, se lasciato decidere da solo avrebbe temporeggiato come minimo qualche ora, sospinto a quel modo dalla decisione della Riario, annuì. La giovane lo aiutò a raccogliere i suoi pochi bagagli e poi a vestirsi. Lo riempì di raccomandazioni per il viaggio e si accordò con lui per scriversi il meno possibile, in modo da ridurre al minimo il rischio di intercettazioni.

“Passeremo tramite Fortunati – gli fece presente – lui è un canale sicuro per la corrispondenza...”

Alla fine, prima che venisse chiaro, Troilo era pronto. Bianca non lo seguì fino al piano di sotto, preferendo salutarlo nel silenzio di quella che considerava la loro stanza e non più solo la stanza del De Rossi.

Lo baciò più di una volta, sempre più accorata e, alla fine, si obbligò a non baciarlo più, perché sapeva che se avesse insistito ancora un po', tutta la sua finta risolutezza si sarebbe disgregata e lo avrebbe implorato di restare ancora un po', almeno un giorno, almeno mezza giornata, anche solo qualche ora...

“Mi raccomando...” sussurrò lui, stringendole un attimo la mano: “Se ci sono novità, fammelo sapere.”

Bianca sapeva che alludeva alla possibilità che fosse incinta. Ne avevano parlato, in quei giorni, e lei non aveva potuto escluderlo. Era giovane, in salute, eppure quel mese il suo corpo sembrava avere qualcosa di diverso e lei, che di norma aveva sempre avuto tempistiche pressoché perfette, da qualche giorno aspettava invano di sanguinare...

“Se ci sarà qualcosa, te lo farò sapere.” promise, facendo parallelamente una promessa anche a se stessa, ossia che non gli avrebbe detto nulla finché non ne fosse stata sicura senza ombra di dubbio.

“Ricordati che ti amo.” concluse lui, già sulla porta.

“Ti amo anche io.” fece eco lei: “Mi raccomando: stai attento. E sappi che pregherò per tuo padre.”

Commosso da quella chiosa, l'uomo chinò il capo e, senza aggiungere altro, prese il borsone da viaggio e uscì dalla stanza, lasciandosi alle spalle il tepore di una notte non ancora finita, e una giovane donna affranta.

 

“E così manderanno davvero Tommaso Soderini – spiegò Jacopo Salviati, facendosi servire un'altra mestolata di zuppa di pasta – come avevano deciso alla Vigilia...”

Quando, un paio di settimane prima, si era trattato di scegliere chi inviare a Ferrara a porgere gli auguri e i doni di nozze alla figlia del papa,la Signoria aveva deciso di mandare il nipote di Pier Soderini, ossia il figlio del fratello Paolantonio, morto un paio d'anni addietro. In realtà alcuni avrebbero preferito non spendere nemmeno un centesimo, per la sorella del temibile Valentino, ma il Gonfaloniere di Giustizia, nonché anche tutte le fronde che parteggiavano per il Popolano, fecero sì che alla fine anche i più polemici accettassero un'ingente spesa per rendere omaggio alla Borja.

“Spero tu ti sia mostrato felice di questa scelta.” commentò Lucrezia, sicura che fosse così.

Quel giorno nevicava ancora e Firenze era come addormentata. La Medici aveva fatto pranzare presto tutti i figli, e aveva controllato che la balia avesse particolare cura della piccola Elena, di un anno e mezzo circa, che quel giorno non era del suo solito umore, aveva mangiato poco, e continuava a frignare.

Aveva atteso con pazienza il marito che, trattenuto al palazzo della Signoria, era rincasato a pomeriggio inoltrato, e molto affamato. Felice che Lucrezia l'avesse atteso, si era messo a tavola con lei e da allora aveva alternato una cucchiaiata di cibo a un breve resoconto di quanto si era detto e fatto quel giorno alla Signoria.

“Sì, sì...” fece subito Jacopo, per rassicurare la moglie, dopo aver sorbito un po' di vino: “Mi sono detto molto favorevole, altroché... Anche se... Andare a spendere ottocento ducati per dei drappi d'oro e d'argento per la figlia del papa... Ebbene, mi urta abbastanza.”

“Non li devi certo sborsare tu, quei soldi...” scherzò la Medici, guardandolo, mentre l'uomo si infervorava, arrossendo per l'impeto che metteva nelle sue parole.

“E invece sì! Anche se non direttamente... Tutta la popolazione pagherà quei drappi! E per la considerazione che hanno quei valenciani di noi, scommetto che quei drappi, d'oro, d'argento e pagati ottocento ducati, non li userà mai nessuno!” disse, piccato, mentre il vino gli faceva bruciare la gola e gli scioglieva la lingua: “Tutta una questione di vanità e lusso inutile che...”

“Basta.” lo zittì Lucrezia, più seria: “Non siamo più ai tempi del frate – lo redarguì, ricordando, con solo mezza frase, i giorni bui in cui Savonarola aveva guidato Firenze verso il baratro – e la Borja è una giovane sposa, figlia e moglie di uomini potenti. La Repubblica fa bene a ingraziarsela, anche se si stanno spendendo ottocento ducati.”

A quelle parole, Jacopo parve sgonfiarsi. Abbassando lo sguardo e inclinando la testa un po' di lato, per qualche minuto si concentrò solo sul piatto ormai quasi vuoto che aveva davanti.

“E così dici che faccio bene a sostenere l'elezione di Pier Soderini come Gonfaloniere a vita, giusto?” chiese il Salviati, dopo un po'.

L'uomo sapeva benissimo che Lucrezia era la prima a cui quel sostegno ai Soderini pesava abbastanza. Lo sorprendeva, quindi, sentirla caldeggiare una volta di più quella posizione. Da un lato le dava ragione, si trattava di qualcosa di conveniente, almeno nell'immediato, tuttavia...

La donna annuì, sicura di sé: “Certo, facendo quadrato con tuo cugino Alamanno.” poi, allungando una mano verso quella del marito e stringendola, concluse: “Se tutto va come speriamo, nel giro di un anno o due, questa mossa ti permetterà di avere qualche incarico veramente degno di te e la nostra famiglia potrà fare grandi cose.”

Jacopo appoggiò il cucchiaio sul tavolo e poi, guardando di traverso la donna, strinse un po' le palpebre e chiese: “Hai intenzione di incontrare a breve Caterina Sforza?”

Quella domanda, arrivata in modo abbastanza improvviso, fece accigliare Lucrezia, che, faticando a trovare un nesso diretto con quello che stavano dicendo fino a poco prima, rispose, cauta: “Non lo so... Perché?”

Jacopo, che ricordava benissimo l'entusiasmo della Medici, non solo per la Tigre di Forlì, ma anche, anzi, forse soprattutto per il piccolo Giovanni, aveva fatto un collegamento mentale molto particolare, ma per il momento preferiva non esporlo apertamente, per paura che Lucrezia, punta sul vivo dell'orgoglio che nutriva indefesso per la sua famiglia d'origine, la prendesse nel verso sbagliato.

Così, prendendo le cose molto alla larga, rispose: “Niente... Mi piacerebbe... Ecco, vorrei avere un suo parere sulla situazione di Firenze, e su quella italiana in generale. Ha dovuto piegare la testa al Valentino, ma direi comunque che la sua vita parla per lei: ha governato, ha combattuto, ha comandato da sola su un esercito di uomini... Credo che potrebbe avere delle idee utili anche per noi.”

La Medici non avrebbe voluto ammetterlo nemmeno con se stessa, dato che lei per prima la stimava immensamente, ma quegli elogi da parte del marito verso la Leonessa di Romagna l'avevano un po' indispettita. Ritirando le mani con cui teneva quella del Salviati, si fece più piccata e sollevò le sopracciglia.

“Non ti basta tua moglie?” chiese, retorica: “Non sono forse abbastanza addentro alla grande politica per darti un consiglio valido su come agire?”

L'uomo, preso dal panico, ben intuendo la punta di gelosia che impregnava la voce di Lucrezia, si affrettò a riparare, finendo solo per fare peggio: “Tu sei la donna più intelligente che conosco. Lei, però, ha avuto modo di fare esperienze che a te mancano...”

La Medici fece uno sguardo truce, e Jacopo capì di aver fatto un rattoppo che era peggio del buco, ma quando provò ad aggiungere qualcosa, la donna lo sorprese con una risata.

“Non te ne faccio una colpa, se subisci anche tu il fascino della Tigre di Forlì, anche se non la conosci nemmeno.” gli sussurrò, guardandolo negli occhi e divertendosi, nel vederlo tanto impacciato, più simile a un ragazzino di quindici anni che a un uomo di quaranta, quale era: “E comunque capisco quello che dici. Lei ha fatto cose che per una donna qui a Firenze non sono nemmeno immaginabili...”

Il rammarico era vivo negli accenti di Lucrezia, ma il marito preferì non provare a raddolcirla, temendo di fare come poco prima e finire solo a peggiorare la situazione.

“La incontrerò, magari con il pretesto di parlarle ancora del Gonzaga, dato che ormai ha avuto l'incarico dalla Signoria...” concesse la donna, prendendo il calice e facendo un sospiro: “Ma prima devo sentire il parere di Fortunati. La Leonessa di Romagna non è qualcuno di facile, con cui avere a che fare. Non vorrei risultarle troppo invadente...”

“Sono sicuro che tu sai come fare.” la incoraggiò Jacopo e poi, ancora teso per tutto quello che gli frullava per la mente, disse di non aver più fame e si scusò con la moglie, dicendo che avrebbe riposato una mezz'ora, prima di tornare ai suoi impegni.

La Medici non si oppose al desiderio del marito di restare un po' da solo. Lo lasciò andare, e, intanto, finì di pranzare con calma. Appena ebbe finito, evitando di andare a disturbare il Salviati, andò dalla piccola Maria, che stava riposando nella sala dei giochi, accanto a una nutrice stremata.

La bambina, di due anni e mezzo, sognava beata al caldo, coperta fino al mento, ignara della gelida tempesta che imperversava fuori dal palazzo. Mentre la osservava, la madre si trovò a pensare alla Sforza, a come doveva sentirsi, nel tenere nascosto il suo figlio più piccolo chissà in quale convento, vedendolo solo di rado... Pensò a come dovesse essere stato penoso, per lei, restare prigioniera per oltre un anno senza sapere se l'avrebbe mai rivisto...

D'improvviso, guardando di sfuggita i giocattoli dei suoi altri figli, rimasti sparsi per terra lì vicino, Lucrezia si rese conto di sapere cosa avrebbe dovuto portare in dono alla Tigre di Forlì, se fosse riuscita a vederla presto. Con un sorriso che le increspava le labbra, lasciata Maria ai suoi sogni, la Medici lasciò la stanza dei giochi e andò a cercare uno dei servi più anziani della casa.

Quando lo trovò, conoscendone la bravure nell'intagliare il legno, gli chiese: “Riuscireste a farmi una spada di legno dolce? Per un bambino di quasi quattro anni...”

“Per... Il piccolo Battista..?” domandò il domestico, calcolando che quel figlio della sua signora aveva all'incirca tre anni e mezzo.

La Medici trattenne una breve risata, valutando come, per il momento, Battista prediligesse giocattoli molto meno bellicosi, delle spade di legno, ma preferì non mettere a parte il servo dei suoi ragionamenti, così gli disse solo: “Saresti in grado di farlo?”

L'uomo annuì e chiese solo: “Per quando volete che sia pronta, mia signora?”

 

“Certo che mi fa piacere vederti – disse Caterina, versando un po' di vino a Scipione Riario – ma avrei creduto che sarebbe venuto qui Fortunati, per mettermi a parte delle tante novità di cui hai detto che devi parlarmi.”

L'uomo sollevò un sopracciglio, quasi divertito dall'atteggiamento risentito della Tigre. In realtà lui stesso si era stupito quando, la mattina precedente, il piovano si era presentato da lui, a Firenze, e lo aveva pregato di riferire minuziosamente una miriade di cose alla donna. Quando gli aveva chiesto perché non intendesse andare direttamente lui alla villa di Castello, Francesco aveva svicolato, arrossendo come un ragazzino, e dicendo che per il momento preferiva così.

“Non so dire il perché – fece Scipione, ricordando proprio l'espressione imbarazzata di Fortunati e ricollegandola in modo semplice alla malcelata insofferenza della Leonessa – ma, qualsiasi cosa l'abbia tenuto lontano da qui, credo sarà la stessa cosa che lo porterà a tornaci.”

Caterina gli lanciò una lunga occhiata, incapace di dire se il figlio naturale del suo defunto marito Girolamo sapesse più di quanto non volesse dire o se stesse solo tirando a indovinare. Alla fine sospirò e gli chiese di dire quello che doveva e basta.

Mentre fuori cadeva fitta la neve, la Sforza e il Riario se ne stavano nella saletta più appartata della villa, davanti a una caraffa di vino caldo speziato.

Scipione le parlò diffusamente delle mosse che Gian Giacomo da Trivulzio aveva fatto al nord, sul lago di Como. Le spiegò di come il luogotenente dei francesi – 'se così ancor lo si può chiamare', aggiunse, alludendo alla sua abitudine, ormai, a non attendere gli ordini del re, ma a fare di testa propria – avesse armato una flottiglia di barche sul lago, collocando un presidio di fanti guasconi a Tre Pievi, bloccando, di fatto, qualsiasi passaggio ai nemici.

La milanese apprezzò di poter discutere con il Riario di quella mossa strategica. Anche se non era un grande esperto, l'uomo era un interlocutore vivace e intelligente. Caterina non ricordava nemmeno quando era stata l'ultima volta che aveva potuto discutere a quel modo con qualcuno di questioni militari.

“Tornando a noi...” fece dopo un po' Scipione, versandosi autonomamente dell'altro vino: “Il nostro buon piovano mi ha chiesto di farvi presente che l'attuale Gonfaloniere di Giustizia potrebbe diventare Gonfaloniere a vita e potrebbe ricevere la nomina a breve.”

“Immagino sia sempre lo stesso Gonfaloniere davanti a cui io avevo picchiato un pugno sul tavolo avvertendo che Firenze avrebbe fatto una brutta fine se non si fosse svegliata per tempo, vero?” la domanda della Leonessa non pretendeva una reale risposta, ma il Riario disse comunque che sì, si trattava proprio di Pier Soderini.

La Sforza fece una smorfia e poi, sistemandosi meglio sulla sedia imbottita, sollevò lo sguardo e fece uno sbuffo. Richiamarle alle memoria lo sconsiderato viaggio solitario che aveva fatto da Forlì e Firenze alla vigilia dell'invasione dei francesi l'aveva portata a ripensare a tante altre cose che avrebbe voluto non rispolverare mai più.

“Dubito – ammise – che quell'uomo abbia una grande simpatia nei miei confronti.”

“I Salviati, però stanno facendo la loro parte per ingraziarselo – le fece sapere Scipione – e, già che parliamo di loro, Fortunati mi ha chiesto di domandarvi quando sareste disposta a incontrare Madonna Salviati.”

“Quando Fortunati sarà disposto a fare quello che gli ho chiesto nella mia ultima lettera, a cui non ha mai risposto.” ribatté Caterina, alludendo alla richiesta di avere una cella in convento e di poter vedere Giovannino più spesso.

Scipione annuì, come a dire che prendeva nota della cosa, per poterla riferire fedelmente al piovano.

“A proposito di farsi degli amici – riprese lui, massaggiandosi un ginocchio, pensoso – Fortunati vorrebbe anche che voi faceste qualcosa per attirarvi le simpatie di un certo Benetto Balear Riario, che di recente ha fatto aggiungere anche il cognome Sforza alla sua firma, vantandosi proprio di essere tuo lontano parente.”

Caterina, non ricordando di aver mai sentito quel nome, si fece spiegare in che modo fosse imparentato con lei o, almeno, con i suoi figli più grandi. La spiegazione fu di fatto abbastanza fumosa, dato che Scipione ne sapeva poco più di lei.

“Tuttavia, secondo Fortunati, siccome questo tizio è molto vicino a gente che conta, in Francia, potrebbe tornarvi utile. Pare che sia rimasto molto impressionato dalla vostra storia e si vanti di esservi parente proprio per ammantarsi di un po' di quel valore militare che avete dimostrato contro il Valentino.” concluse Scipione, convinto che se il piovano teneva tanto a quella cosa, voleva dire che andava fatta e basta.

“Si vanta della parentela con me coi francesi? Come un lupo che andasse a vantarsi della lana che indossa in mezzo agli agnelli...” commentò secca Caterina: “Si vede proprio che è un Riario fatto e finito...”

A quelle parole, l'uomo che le stava davanti smise per un istante di bere, poi, quando la Tigre si accorse della propria mancanza di tatto, e si affrettò a scusarsi, dicendo che la sua valutazione era da riferirsi ad altri Riario, non certo a lui, Scipione agitò una mano in aria e la tranquillizzò: “So bene che uomo era mio padre Girolamo... Capisco che il vostro giudizio per il cognome che porto sia sempre severo.”

La donna si schiarì la voce un paio di volte, evitando lo sguardo dell'altro, ma trovandolo, come sempre, di rara gentilezza e intelligenza. Dove molti altri si sarebbero adombrati o arrabbiati, lui aveva cercato di mediare e minimizzare.

“In ogni caso...” fece dopo un po' la Sforza: “Che cosa dovrei fare per questo Riario sedicente Sforza?”

“Delle camicie.” rispose il Riario, riportando la richiesta di Fortunati.

“Delle camicie?” tutto la Leonessa si era aspettata di sentire, tranne quello.

“Sì, è una cosa che le nobildonne fanno... Regalare camicie...” si schermì Scipione, rendendosi conto davvero solo in quel momento di quanto quella richiesta sembrasse fuori luogo, se fatta a una donna come la Tigre di Forlì, che sarebbe stata forse più incline a regalare spade e corazze, che non camicie...

“Io non so cucire una camicia.” tagliò corto la milanese: “Non ho nemmeno i soldi per farle fare da altri... Non sono una sarta, per Dio!”

“Magari Bianca potrebbe...” provò a suggerire Scipione, appoggiando il calice quasi vuoto, per accarezzarsi le brache: “Queste me le ha fatte avere lei. Le ha ottenute con vecchia stoffa trovata qui alla villa. Cuciti senza nemmeno prendermi le misure, eppure mi stanno una meraviglia!”

Come a dimostrare quanto detto, il giovane si alzò e, girando su se stesso, mise in mostra le gambe forti e lunghe, messe effettivamente in risalto dalle brache confezionate dalla sorellastra.

“Ci devo pensare.” disse a quel punto, nervosa, Caterina.

Non era più tanto l'imposizione velata che le voleva fare Fortunati, quanto più il vedere quello che considerava alla stregua di un figlioccio a quel modo. Scipione era un bell'uomo, lo era ancora di più, forse, ora che la furia della guerra e la paura della morte avevano lasciato il posto in lui alla prospettiva di una nuova vita lì a Firenze. Aveva un bel viso, un buon carattere, era coraggioso e intelligente. Eppure il fisico longilineo, la curva del mento, la linea del naso... Tante cose le ricordavano il suo primo marito e con lui anche Ottaviano e, le costava ammetterlo, per certi versi anche un po' l'aspetto di Galeazzo che, seppur molto mitigato dai tratti sforzeschi, manteneva una netta componente paterna nel fisico e nella forma del viso.

“Pensateci.” convenne Scipione, a cui era sfuggito quel fine lavorio di mente e si era convinto che l'indisponenza di quella che considerava una sorta di madre adottiva fosse legata solo alla sua naturale insofferenza verso i compiti imposti da terzi: “Ma sappiate – soggiunse, con un breve sorriso – che al nostro piovano farà piacere se seguirete il suo consiglio. Se vorrete farlo mi ha detto di chiedervi di farglielo sapere, in modo che vi comunichi i dettagli dell'affare.”

Caterina fece un cenno con il capo e poi, alzandosi per prima, lasciò intendere al Riario che, per quanto la riguardava, il discorso poteva per il momento chiudersi lì.

“Se posso – fece Scipione, ravviandosi i capelli scuri – vorrei vedere i miei fratelli, prima di tornare in città.”

“Puoi anche fermarti per pranzo, se vuoi.” lo invitò la Tigre, in realtà ben felice di poterlo avere lì ancora qualche ora e, magari, discutere di nuovo di guerra e armi assieme.

“Non voglio dare disturbo...” si schermì lui, ma dal sorriso in cui si aprì, la Leonessa comprese che il Riario aveva già deciso di accettare.

“Vado a dire in cucina che avremo un commensale in più.” ribatté e poi, dandogli un colpetto sulla spalla, non riuscendo a sciogliersi in un gesto più affettuoso, gli fece presente: “Se vuoi so che Galeazzo è nel salone. Credo stia facendo qualche esercizio con Bernardino.”

“Va bene, grazie. Saluterò loro per primi, allora.” fece Scipione, chinando poi il capo, a mo' di momentaneo saluto.

Lasciatolo andare, la Tigre si incamminò con lentezza verso le cucine, pensando a tutto quello che le aveva detto il Riario. Apprezzava, in realtà, l'impegno con cui Fortunati si stava cimentando nel cercarle nuove alleanze e amicizie, nell'ottica di stabilizzare la sua posizione e poter riprendere con sé Giovannino, finalmente al sicuro. Sapeva anche che, proprio in ragione di tanto impegno, anche lei avrebbe dovuto dimostrarne, accettando di vedere presto Lucrezia Salviati e anche preparando le camicie per quel tal Benedetto...

“Bianca...” fece, ancora soprappensiero, incrociando la figlia appena fuori dalle cucine: “C'è Scipione, più tardi penso che vorrà salutarti... E ti ringrazia per le brache che gli avevi fatto...”

La ragazza, felice di sapere che il fratellastro era alla villa, esclamò subito: “Mi fa piacere che gli stiano! Le avevo preparate senza avere delle misure precise... Ho usato le brache di Galeazzo per farmi un'idea...”

Quel dettaglio andava a confermare l'impressione avuta poco prima da Caterina, ossia che il figlio e Scipione avessero fisici abbastanza sovrapponibili.

“Adesso sto andando in cucina per dire che si ferma a mangiare per pranzo.” avvisò la Tigre e poi, guardando in modo intenso la figlia, le chiese: “Stai bene?”

Da quando, qualche giorno prima, Troilo era partito in tutta fretta, senza che nessuno – a parte probabilmente proprio Bianca – ne sapesse il motivo, la Riario si era fatta più solitaria, e, anche se si mostrava affabile e sorridente come sempre, la Sforza aveva colto in lei, costantemente, una certa inquietudine. Anche in quel momento, malgrado il sorriso e i toni distesi, i suoi occhi blu erano distanti, le sue mani, nervose, si stringevano di continuo l'una all'altra e sulla sua fronte si creava una sottilissima ruga, molto simile a quella che attraversava anche il volto di Caterina, quando era in apprensione per qualcosa.

“Sto bene.” rispose Bianca, e poi, dopo una breve esitazione, disse solo: “È solo che... cominciavo ad abituarmi ad averlo sempre qui con me.”

Quel genere di confidenza colpì molto la Leonessa. Non si era aspettata che sua figlia le parlasse in modo tanto franco dei suoi sentimenti. Immaginava che, dopo settimane passate assieme, in modo molto più intimo e protetto di come avrebbero potuto fare in condizioni più ordinarie due innamorati come lei e Troilo, la solitudine fosse molto difficile da sopportare. Lei stessa, quando aveva dovuto dividersi anche solo da uno dei suoi amanti prediletti per brevi periodi, a volte si era trovata del tutto spiazzata e persa.

“Hai già avuto sue notizie?” chiese la milanese, giusto per farsi vedere interessata, ma non volendo apparire invadente.

La Riario scosse il capo: “No, è partito da poco, in fondo... Siamo d'accordo che mi farà sapere qualcosa solo se necessario. Preferiamo non scambiarci troppo lettere, non si sa mai.”

“Hai ragione. Sei prudente.” convenne Caterina: “Ma sei sicura di stare bene?”

Vedeva la figlia più pallida del solito e aveva occhiaie che di norma non aveva. Anche se in parte avrebbe potuto scusare tutto pensando che forse passava parte delle sue notti insonne, vederla tanto abbattuta le insinuava anche altri dubbi.

“Sì, sto bene.” sussurrò di nuovo Bianca: “Ora... Ora vado da Scipione. Ho voglia di vederlo... E voglio anche vedere come gli stanno le brache.”

“Ah, a proposito...” la fermò la madre, cogliendo la palla al balzo: “Sai cucire delle camicie?”

Accigliandosi, la Riario rispose: “Non ho mai provato a farne una da cima a fondo da sola, ma... Sì, penso che potrei riuscirci. Perché? Ve ne serve qualcuna?” domandò, chiedendosi se forse la madre volesse tornare per qualche strano motivo a indossare abiti maschili.

“Dobbiamo cucirne qualcuna per un nostro parente, che non sapevamo di avere.” le rispose, sibillina la madre: “Dimmi tu quando hai tempo. Ti darò una mano. Anche se con ago, filo e stoffa non me la sono mai cavata bene...”

“Volentieri. Per me anche oggi...” accettò subito Bianca, che, in fondo, esattamente come i suoi fratelli, anelava a passare del tempo tranquillo con la madre.

“Meglio domani, allora.” ribatté Caterina: “Lasciamo che Scipione torni in città, prima di metterci all'opera.”

“A domani allora.” sorrise la Riario e poi, con un velo di timore, soggiunse: “Così magari... Ecco, magari mentre cuciremo, potremmo anche parlare un po'...”

“Di tutto quello che vuoi.” accettò la Sforza, il sorriso che un po' le si spegneva, mentre la figlia ringraziava e si allontanava.

Il modo in cui Bianca aveva aggiunto quella proposta apparentemente innocente aveva messo uno strano brivido addosso alla Tigre. Forse, pensò, i suoi sospetti sull'inquietudine profonda che agitava la ragazza non erano del tutto infondati...

   
 
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