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Autore: holls    18/11/2021    7 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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10. Intuizioni

 

Il leader dei Wit Matrix frequenta qualcuno?

Risale a più di una settimana fa la foto che vede William Clide, leader dei Wit Matrix, in compagnia di un misterioso ragazzo tatuato.

William, già noto per le sue frequentazioni con personaggi di spicco (prima con Angelica Priest, nota attrice, fino al 1998; poi con Carter Wallace, fino all’aprile di quest’anno), sembra ora interessato a qualcuno lontano dai riflettori.

Non si sa nulla, infatti, del ragazzo che William ha incontrato tra il 25 e il 26 luglio, in piena notte, davanti alla discoteca Webster Hall (logo nel riquadro a destra), tra la 3rd e la 11th.

L’unico dettaglio immortalato è il singolare tatuaggio sul dorso della mano destra; il misterioso ragazzo aveva un cappuccio che gli nascondeva il volto, atteggiamento forse dovuto alla popolarità di quello che potrebbe essere il suo ragazzo.

I due sembravano piuttosto intimi e confabulavano tra loro, forse su come nascondere la neonata relazione. Ci sono stati diversi contatti tra i due, ma nessuna effusione – non ancora!

Sarà una storia importante oppure una delle tante avventure a cui William ci ha ormai abituati?

 

 

Se la storia tra i due fosse importante era l’ultimo dei miei pensieri. Il solo vedere quel tatuaggio mi aveva fatto fiondare sul giornale e, non appena avevo visto il piccolo logo nel riquadro a destra, che ritraeva un animale con le corna, non avevo esitato un attimo a comprarlo. Il logo era identico in tutto e per tutto a quello che avevo ritrovato a casa di Michael e apparteneva a una chiacchierata discoteca di Manhattan.

Il particolare che mi aveva colpito più di tutti, però, era stato quel tatuaggio. Non impiegai molto a ricordare che era la stessa fantasia che avevo visto al ragazzo coinvolto in una rissa la sera del concerto. In effetti, tutto filava: il ragazzo era al concerto dei Wit Matrix, probabilmente per incontrare il leader della band. Non la reputai una grande scelta quella di organizzare un incontro segreto in pubblico, ma poteva anche darsi che volessero puntare sul fattore affollamento, nella speranza di passare inosservati.

Il ragazzo, comunque, aveva la tessera del Webster Hall, la stessa che probabilmente aveva Michael.

Sentii come se i fili della matassa si stessero lentamente districando, lasciandomi la possibilità di intravedere il nucleo della faccenda. Purtroppo ero ancora lontano dallo scoprire dove era finito Michael e perché fosse scappato, ma quella discoteca rappresentava un indizio piuttosto importante.

La metro si fermò alla fermata nei pressi dell’Empire State Building, poi riprese la sua corsa e mi sballottò ancora una volta, ora a destra, ora a sinistra. Il lunedì era arrivato troppo presto e io desideravo solo un posto a sedere, piuttosto che quella maniglia traballante, per fare pace con quei pensieri che mi avevano svegliato nel cuore della notte, ancora prima dell’sms di mia madre che mi chiedeva come stavo e com’era andato il fine settimana.

Inizialmente avevo preso la macchina, per andare a lavoro. Avevo guidato per un paio di metri, ma per poco non avevo rischiato di investire un’anziana signora sulle strisce pedonali; così avevo parcheggiato di nuovo l’auto ed ero rimasto a fissare il vuoto per una manciata di minuti.

No, non era vero: ero rimasto imbambolato perché ero tornato in un’altra dimensione, quella del sogno che mi aveva fatto svegliare col cuore che batteva a mille e c’ero tornato anche in quel preciso momento, sulla metro.

Nel sogno c’era Oliver. Io ero chiuso in bagno e lo sentivo battere i pugni sulla porta, mentre mi implorava di uscire.

Nel bagno, però, non ero solo. E non mi ci ero nemmeno rinchiuso.

Era Oliver che era stato chiuso fuori.

Ed era Nathan che era lì dentro con me.

Era Nathan che cingeva il mio corpo con le sue mani, mentre le sue dita mi sfioravano la pelle al margine della camicia, che portavo fuori dai pantaloni.

Io non portavo mai la camicia fuori dai pantaloni. Era anche vero che io non baciavo mai Nathan.

Mi sembrò di sentire di nuovo le sue labbra sulle mie, la sua lingua che me le leccava, la stessa con cui leccava gelati. Avvertii un leggero sapore di tabacco sulle labbra, ma sapevo che era soltanto la mia immaginazione. Le strinsi e le assaporai ancora, solo per avere la conferma che esisteva solo nella mia testa.

Il vagone della metro mi ballò davanti agli occhi, ma era solo una curva presa a una velocità sostenuta.

Chiusi gli occhi per un istante e sentii di nuovo il leggero schiocco delle sue labbra nel momento in cui si separavano dalle mie, insieme a un filo di saliva che tentò di tenerci uniti il più possibile, per poi dividerci.

Riaprii gli occhi e davanti a me c’era solo il finestrino della metro che mi mostrava l’oscurità in cui sfrecciava e lì, nascosta tra i riflessi, la mia sagoma imbambolata.

Uno, due, tre battiti.

Era Oliver che tentava di sfondare quella porta, ma sapevo che non ci sarebbe mai riuscito. Non c’era una chiave, forse nemmeno una serratura, ma quello era il mio sogno e sapevo che non l’avrebbe sfondata.

Col respiro affannato, guardavo Nathan negli occhi, quegli stessi occhi che mi avevano osservato attraverso il fumo, in una notte d’agosto fin troppo calda. E dietro quello sguardo vedevo mia madre, muta, fissarmi con aria di rimprovero.

Ancora uno, due, tre battiti: era Oliver.

Davanti a me c’era Nathan, con le sue labbra schiuse e una nuvola di fumo che usciva dalla bocca, che riempiva l’aria e penetrava nelle mie narici. Respirai a pieni polmoni e lo sentii scendere giù per la gola, per poi attecchire con le sue radici dentro di me.

In quel vagone non c’era fumo, ma c’era lo sguardo severo di mia madre, riflesso nel vetro, all’altezza di quelli che riconobbi essere i miei stessi occhi.

La metro cominciò a rallentare. Un sibilo accompagnò la manovra e mossi qualche passo verso l’uscita.

Il ricordo di quel sogno cominciò a scomparire. Mi forzai a farlo. Non ci sarebbe stato più nessun sogno, nessun… bacio. Avrei rivisto Nathan solo se strettamente necessario.

Le porte si aprirono e, di fronte a me, lessi il nome della fermata.

Ero arrivato al ponte di Brooklyn.

 

Varcai il metal-detector con un’innaturale attenzione. Avevo contato gli scalini della metro, il numero di macchine rosse, avevo scandagliato tutti gli scontrini, prima di estrarre il badge e timbrare al mio arrivo in centrale. Azioni quotidiane a cui, però, dedicavo un’attenzione di più.

Salutai i colleghi e, per ognuno di loro, ripetei nella mente nome, cognome e ruolo. Il mio giochetto ebbe fine quando arrivai in un ufficio, dove, grazie a Dio, trovai Ashton, che mi venne subito incontro.

«Cercavo proprio te!»

Io gli sorrisi, dopodiché posai la rivista scandalistica sulla scrivania; me l’ero portata dietro per mostrargliela.

«Ciao anche a te. Dimmi tutto.»

«Dobbiamo fare il punto della situazione, credo che ce ne sia bisogno.»

Io annuii: avevo molte cose da raccontargli.

«Ah, com’è andata alla festa? Trovato qualcosa?»

«No, niente.»

«E con Nathan?»

Nathan alla festa. Nathan sul divano. Nathan nel sogno.

«Potremmo non parlare di lui in questo momento, grazie?»

Ashton si lasciò cadere sulla sedia e, sul suo viso, spuntò un sorriso malizioso.

«Perché? Lui mi ha detto che si è divertito e che ha pure dormito da te.»

Gli scoccai un’occhiata che bastò a cancellargli quel sorriso dalla faccia.

«Non dovevamo parlare delle indagini? O mi sono perso qualcosa?»

Alzò le mani in segno di resa.

«Va bene, va bene. Agli ordini, capo.»

 

Ashton mi raccontò delle sue indagini sulla cerchia lavorativa di Nathan, ma non emerse molto. Aveva parlato con una collega a cui sembrava molto legato, una certa Molly Daphner. Sembrava una tipa molto allegra e cordiale, ma pareva che non conoscesse nessuno con degli occhi verdi in quel modo. Con gli altri colleghi, Nathan non aveva stretto granché amicizia e non avevano saputo dirgli molto di lui o delle sue frequentazioni.

Dalla festa, avevo intuito invece che i ragazzi che mi aveva presentato erano quelli con cui aveva stretto maggiore amicizia. Mi ricordavo tutti i loro nomi e avevo già fatto richiesta per gli iscritti allo stesso corso di laurea di Nathan. Immaginai che non ci sarebbe voluto molto a trovare qualcuno con gli occhi verde chiaro, se ci fosse stato.

Ad Ashton raccontai nel dettaglio della visita a casa dei Cossner, della scomparsa di Michael e del logo ritrovato nei suoi quaderni; poi passai a raccontare del ragazzo con la mano tatuata che aveva perso quella tessera con lo stesso logo disegnato da Michael. Conclusi aprendo la rivista all’articolo riguardante il leader dei Wit Matrix e gli feci notare la mano tatuata, oltre al logo del locale, che finalmente aveva un nome.

Ashton ascoltò tutto con attenzione, annuendo e chiedendo conferme, ma anche io ero piuttosto pensoso. Più guardavo quell’immagine e più mi sembrava che nascondesse qualche risposta. Il tatuaggio consisteva in un motivo floreale circolare, al cui interno vi era un piccolo nocciolo scuro, di forma allungata. Guardavo e riguardavo quella foto, il logo, ma non riuscivo a trovare l’elemento che poteva darci quella svolta che tanto attendevo; lo sentivo lì, sulla punta della lingua, deciso a non farsi sputare fuori. 

«È qui, in questa foto… Lo so.»

Ripercorsi pixel per pixel quell’immagine sfocata, ma l’illuminazione non arrivò neanche in quel momento.

«Non ti ci ossessionare, dammi retta. Nel momento in cui smetterai di pensarci, verrà da sé.»

Ashton aveva ragione, ma mi resi conto che non volevo smettere di pensarci, non con altri pensieri in agguato.

Il motivo floreale si estendeva fino alla radice delle dita, ma non fu abbastanza per evitare il fotogramma di Nathan che posava le sue labbra sulle mie. Sembrava il pezzo preferito dalla mia fervida immaginazione.

Ashton si alzò e mi fece cenno di seguirlo.

«Vieni a prendere un caffè?»

Buttai un’ultima occhiata a quella foto, certo che nascondesse un segreto. Sperai che in quell’attimo fugace me lo rivelasse, ma non fu così.

Alzai gli occhi verso Ashton.

«Va bene.»

 

Non avevo granché sete. La mia mente era in moto e stava cercando di acciuffare quel dettaglio che mi sfuggiva continuamente. Non potevo dedicare energie ad altre azioni, così rifiutai il caffè che Ash voleva offrirmi.

Lo vidi prendere il suo e osservai la sua palettina mescolare quel liquido caldo.

Caldo.

C’era qualcos’altro che associavo a quell’aggettivo, ma trovavo il caffè di Ash di gran lunga più interessante.

Era l’ora di sbarazzarsi di quei pensieri stupidi che non avevano capo né coda, né motivo di esistere, tantomeno nella mia testa. Forse in quella di Steve o in quella di Harvey, ma non nella mia.

«Sei ancora arrabbiato con me?»

Lo sguardo di Ashton era carico di sincera apprensione. Immaginai che si riferisse alla scenata che avevo fatto quando eravamo entrati nell’argomento ‘festa’.

«No, tranquillo.»

Lui mi sorrise, girò la palettina ancora una volta e poi buttò giù il primo sorso di caffè.

«Spero almeno che la festa sia stata divertente.»

Non erano pensieri miei. Oliver, lui sì che era un pensiero mio. Un pensiero che sembrava diventare sempre più miope…

«Sì, potremmo definirla così. Sai, piena di ragazzini iper-eccitati.»

Come se la mia mente non riuscisse più a proiettarlo bene. Come se stessi cominciando a…

Ashton scoppiò a ridere.

«Sì, sì, immagino la scena. Cosa hai dovuto fare, in qualità di finto fidanzato?»

Non mi ricordavo di avergliene parlato. Con ogni probabilità, lo aveva fatto lui. Ecco, sì: gettarlo nell’anonimato della mia testa sarebbe stato sicuramente d’aiuto.

«Per fortuna, assolutamente niente.»

Ashton ridacchiava ancora e non riuscivo a capire il perché fino in fondo. Limitò le sue risate sempre più, finché non si costrinse a farlo sotto ai baffi.

«Nessun bacetto? Nessuna frase romantica? Nessuna scenata di gelosia, del tipo: ‘Lui è solo mio, mollalo subito!’?»

Buttò giù un altro sorso di caffè, senza degnarmi di uno sguardo. Continuava a trattenere una risatina in procinto di esplodere.

Sicuramente non c’era stato nessun bacio (almeno non nella realtà, suggerì la mia mente, che ringraziai per la puntualizzazione); non c’erano state nemmeno frasi romantiche, ma c’era stata una scena di - finta - gelosia. Che mi aveva suggerito Steve, tra l’altro.

«Ho fatto il minimo indispensabile per non rovinargli la serata.»

Pensai a Steve, a cui forse avevo rivelato troppe cose sul perché della mia presenza a quella festa. Ormai il danno era fatto; potevo solo sperare che il diretto interessato non lo venisse a scoprire.

«Chissà che piega prenderà questa storia...»

Era una situazione grottesca: più cercavo di allontanarmi da certi pensieri, più sembravano rincorrermi. E non era solo lui: era lui in quei contesti.

Ashton cominciò a camminare verso l’ufficio, col bicchierino di caffè ancora in mano. Io lo raggiunsi e camminai al suo fianco.

«Dubito che possa prendere la piega che desideri, visto che Harvey ha fatto il suo ingresso in scena.»

Posò le dita sulla maniglia dell’ufficio e si voltò verso di me, dubbioso.

«E chi cavolo sarebbe? Non me ne ha mai parlato.»

Quell’affermazione mi lasciò sorpreso. Forse non erano ancora entrati nell’argomento, perché mi parve impossibile che non avesse ammorbato l’umanità con le sue prospettive della storia con Harvey. Storia che, già lo sapevo, avrebbe forse preso il volo per schiantarsi al suolo dopo poco, visto che le intenzioni di Harvey erano chiare a tutte tranne che a lui. Non se ne rendeva conto o forse non voleva, ma ero quasi certo che non sarebbe stata una grande storia.

«È il grande amore della sua vita, spuntato da chissà dove.»

Ad Ashton uscì uno sbuffo. Forse il caffè l’aveva caricato di un’eccessiva allegria.

Entrammo di nuovo in ufficio e tornai alla mia postazione. Ash mi seguì a ruota: mi venne dietro e fece per poggiare il caffè sul tavolo, ma il bicchierino gli sgusciò via dalle sue mani e si rovesciò sulla scrivania, lasciando che il caffè si spandesse sul tavolo come una macchia di sangue. Aveva schizzato dappertutto; anche, notai un attimo dopo, sull’immagine che ritraeva il ragazzo tatuato.

«No, che disastro!»

Mi alzai di scatto, sbattendo pure il ginocchio contro lo spigolo della scrivania; uscii di corsa dall’ufficio e mi precipitai in bagno a raffazzonare strappi di carta igienica uno sopra l’altro. Tornai alla scrivania col mio panno improvvisato e cominciai a tamponare gli schizzi sulla foto. La carta assorbì subito le macchie di caffè, ma ce n’era una particolarmente ostica. Se dalle altre si intravedeva ancora l’immagine sottostante, benché più scura, con quella macchia non c’era proprio niente da fare.

Tamponai e tamponai ancora, quando un guizzo risvegliò la mia mente. Tastai la macchia con un dito, per conferma ciò che l’intuito aveva già compreso.

Non era una macchia.

O meglio, non era una macchia di caffè.

La carta, in quel punto, era perfettamente asciutta. Allontanai lo sguardo per avere una visione d’insieme dell’intera immagine e una risata sommessa non poté fare a meno di uscire.

«Si è rovinata parecchio?»

Alzai gli occhi verso di lui, con un sorriso vittorioso sulle labbra.

«Non è una macchia, Ash. È una voglia!», mi avvicinai verso di lui. «È una voglia!»

Aggrottò la fronte, poi mi mise le mani sulle spalle.

«Ok, va tutto bene. Spiegami questa faccenda della voglia.»

Mi liberai della sua presa e alzai gli occhi al cielo.

«Michael ha una voglia sulla mano destra. Michael è scomparso. Al concerto dei Wit Matrix mi sono scontrato con un ragazzo con un tatuaggio identico a quello della foto, che circonda una voglia! Capisci?»

«Abbastanza, sì.»

«Michael sta scappando da qualcuno, Ash! Ha nascosto la voglia con un tatuaggio per non farsi riconoscere!»

Finalmente, il suo viso si illuminò. Tentava di dire qualcosa, ma era troppo sorpreso.

Michael Cossner si stava nascondendo da qualcuno, con ogni probabilità qualcuno di pericoloso. La voglia sulla mano avrebbe ricondotto a lui in meno di un minuto e così l’aveva nascosta con un tatuaggio.

«Un momento. Chi ti dice che sia proprio lui? Una voglia su una mano non è un tratto comune, ma potrebbe comunque esistere un’altra persona con questa caratteristica.»

«Nessuno me lo dice, Ash. Possiamo però fare un tentativo e interrogare il leader dei Wit Matrix, che ne dici? Se il ragazzo nella foto è Michael, deve sicuramente saperne qualcosa.»

Non stavo più nella pelle. Fremevo dalla voglia di incontrare il capo della band per fargli qualche domanda. Se Michael si stava davvero nascondendo, però, non sarebbe stato facile cavargli qualche informazione. Dovevo trovare la messinscena perfetta.

Ci informammo subito sui prossimi concerti dei Wit Matrix, ma, sfortunatamente, sarebbero tornati a Manhattan solo nel fine settimana: erano in tournée.

«Potremmo sempre andare al locale, mentre aspettiamo sabato. Forse è un’idea migliore, rispetto all’inseguire il gruppo in giro per il mondo.»

L’idea di Ash era sensata. Saremmo potuti andare la sera stessa, in modo da ottimizzare i tempi. Quanto fremevo!

Ash approvò subito la mia idea e fissammo per le 21:30 di mercoledì, in occasione della serata universitaria. Gli intimai di presentarsi lui stesso, senza quei giochetti che ultimamente gli piacevano tanto. Mi aveva dato buca al concerto dei Wit Matrix e mi aveva spinto ad andare a quella festa universitaria.

«Guarda che se non ti vedo arrivare vengo a cercarti a casa. E sì, è una minaccia.»

Ashton ridacchiò e mi assicurò che sarebbe venuto.

Senza accorgermene, tirai un sospiro di sollievo.

Sarebbe stato molto strano andarci con lui, dopo che, con il sorriso sulle labbra, gli avevo detto addio.

 

 

 

Angolo autrice

Dite la verità, non vi aspettavate un capitolo così corto, eh? :P E insomma, Alan comincia a immaginare cose che gli scombussolano un po’ l’esistenza, ma inizia anche a mettere insieme i tasselli dell’indagine.

Intanto la revisione procede a gonfie vele, sono al capitolo 23. Devo dire che a parte togliere qualche virgola e sistemare un po’ l’organicità della trama non ho fatto molto altro, tranne che per il maledetto capitolo 17 che mi ha fatto vedere i sorci verdi con una scena che ho aggiunto. Ma il risultato mi piace tantissimo, non vedo l’ora di farvelo leggere!

Ringrazio ancora una volta tutte le persone che stanno seguendo questa storia, siete la mia forza <3 Come ricompensa posso dirvi che nel prossimo capitolo si comincia a scorgere un po’ del rating arancione u.u Ma ora mi tappo la bocca e non dico nient’altro, sennò parto con gli spoiler XD

 

Alla prossima,

holls

 

 

 

   
 
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