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Autore: Lilithan    21/11/2021    0 recensioni
Questo è un resoconto scritto la mattina dopo il primo cocktail e mezzo. Era il 6 febbraio 2018. Ho pensato di condividerlo qui e ora, ad anni di distanza, senza alcun motivo.
Genere: Commedia, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se il vecchio Charles potesse vedermi ora, potrebbe rivoltarsi nella tomba. Oppure mettersi a ridere. Il guaio di noi lettori e aspiranti scrittori, sostanzialmente è questo: pensiamo di capire i grandi geni del passato, di comprenderli; ci sentiamo speciali, non più soli, perché quello che pensiamo e ci affligge è già stato pensato e ha già afflitto altre persone. Sorprendente il nostro spirito di condivisione e solidarietà. Non sono una scrittrice, ma mi piacerebbe esserlo. Purtroppo però, a 19 anni mi ritrovo sul curriculum solo dei temi fantastici da scuola elementare, qualche poesia da scuola media, una storia incompiuta che spero di finire e una vita vuota di esperienze. Forse questa è una delle cose che mi ha sempre attirato di Bukowski: le numerose esperienze e il modo crudo in cui le descriveva. Forse è anche per questo che, alle 10:18 di sabato mattina, mi ritrovo sul letto, con la mia macchina da scrivere digitale, a raccontare la mia prima, e spero ultima, esperienza disastrosa con l’alcol. Ho già detto di aver avuto poche esperienze, questa è la più recente. I miei genitori non sono il tipo di genitori che circolano adesso, mi hanno cresciuto bene, ma senza permettermi di avere, in un certo senso, esperienze sostanziose da normale adolescente di questo millennio. Tutto quello che so su tutto, sostanzialmente, l’ho imparato dai libri. Solo qualche mese fa la mia vita ha subito una svolta.
Stranamente, per i miei genitori non è stato un gran problema iscrivermi in un’università lontana chilometri e chilometri da casa. Figuratevi per me. Regione nuova, zona italiana nuova, vita nuova. Ma l’università non è poi questa gran cosa. Bisogna pagare per farci riempire il cervello di cose che ci permetteranno di farci pagare da altri. Lo trovo un po’ ridicolo, ma non so bene perché. Sarà che sono tutti così falsi in questa vita, e i pochi veri rimasti vengono soffocati per non turbare l’umore generale. Il famoso spirito di condivisione e solidarietà già citato. Fatto sta che, io e un considerevole numero di colleghi ci troviamo nel bel mezzo della nostra prima sessione d’esami. Quale momento migliore per lasciarci andare a qualsiasi sfizio, pur di rinunciare a studiare per un giorno, per poi dannarci di non avere abbastanza tempo. Chissà se lo fate anche voi uomini e donne vissuti. Comunque, proprio ieri sera, invece di essere immersa nello studio della chimica inorganica fino al collo come avrei dovuto, mi trovavo immersa nella visione della seconda stagione di The big bang theory, consapevole che non avrei avuto sensi di colpa, visto che ormai erano passate le sette. La mia coinquilina si avvicina al mio letto, mi fa segno per farmi togliere le cuffie e mi dice se mi va di uscire quella sera con dei colleghi. Come chiunque stia leggendo questa specie di rapporto e abbia un minimo senso del cliché che si rispetti, ho dato subitaneamente la mia disponibilità. D’altronde pensavo, mentre davo la buona notte a mia madre, non sarei rimasta così libera per sempre. E da giorni stavo attaccata a libri e pc, a cercare di riempirmi la testa di nozioni che sicuramente dimenticherò. Uscimmo presto, andammo a casa di un nostro collega e uscimmo nuovamente qualche ora dopo. La mia coinquilina la conosco da anni, abbiamo frequentato insieme medie e liceo, mentre il collega in questione, è stata la prima persona con cui abbiamo fatto amicizia quando siamo arrivate qua. Non lego facilmente alle persone, e ancora meno facilmente ci faccio amicizia. Perciò, da tempo non so dire se loro due mi piacciono o no. Anche perché ho la netta sensazione di non piacergli poi così tanto nemmeno io. Ma non è questo il punto.
La città, se così si può chiamare un ammasso di palazzi, chiese, ottiche, supermercati e vecchietti, ieri sera sembrava aver preso vita. Non ricordo di aver mai visto così tanti ragazzi giovani nei precedenti mesi di vita da fuorisede. Anche perché quella era la prima sera che uscivamo per divertirci. Il programma prevedeva di incontrare altri colleghi e andare a ballare in discoteca, piano miseramente fallito perché ci siamo ritrovati in tre a non sapere che fare. Decidemmo, come ogni giovane universitario che si rispetti, di bere qualcosa. I miei due amici o quasi presero delle birre, io un cocktail con un nome strano. Ricordo solo che conteneva vodka, ma a me bastava che avesse aroma di fragola. Avevo già bevuto qualche volta altri cocktail, ma solo dal trasferimento. Non mi è mai piaciuto bere niente. Tutto’ora non mi piace neanche la coca cola. Comunque, dopo essermi scolata sto coso, mi accorsi che tutto iniziava a ballare. Non esattamente come fanno vedere nei film, il mondo sembrava muoversi a scatti, come se ci fosse un terremoto, ma a rallentatore. Era la prima volta che un cocktail mi faceva quel tipo di effetto e non sapevo se mi piacesse o meno, ma ridevo comunque. Andammo poi in un altro locale e beccammo il coinquilino del nostro collega, anche lui fuori con una coppia di amici. Prendemmo un altro cocktail. I miei presunti amici mi incitavano a ubriacarmi, visto che non l’avevo mai fatto in vita mia, rassicurandomi sul fatto che si sarebbero presi loro cura di me, rimanendo sobri. Nonostante le mie proteste di persona lucida ma non lucidissima, mi vengono ordinati due cocktail, questa volta col rum, ma sempre alla fragola. Di quei due, riesco a berne solo metà di uno, nonostante la loro disapprovazione. Avrebbero avuto modo di pentirsi.
Era la prima volta che bevevo poco più di un cocktail, anche se poco, ma ieri sera quegl’intrugli sembravano più forti. Quindi mi sono attaccata al braccio della mia coinquilina, incapace di camminare da sola in linea retta. Continuavo a pensare che non volevo più bere niente, anche se avevo bevuto così poco. Forse l’alcol aveva avuto un effetto così immediato per via della mia bassa statura e corporatura, considerando anche la mia poca propensione a bere qualsiasi tipo di bevanda che non fosse acqua naturale. Fatto sta che ho iniziato a dire le cazzate più svariate, soprattutto alla mia coinquilina, soprattutto quando abbiamo sentito che il coinquilino del mio collega si era messo a fare sesso nel bagno di un bar con la ragazza del suo migliore amico, nonostante avesse già lui stesso una ragazza e il suo migliore amico fosse con loro. La tizia comunque, dopo il fattaccio, si è messa a fare avances anche al mio collega, che però ha rifiutato. Certo, non attirerebbe nemmeno me una che scopa nel bagno di un bar. A questo punto ho un po’ un vuoto, una specie di salto temporale, dove dalle sedie di quel bar ci siamo ritrovati un altro bar, stavolta solo io, la mia coinquilina e il nostro collega. Un bar deserto che faceva panini. Ah si ecco, volevo mangiare qualcosa e avevo chiesto un hamburger. Vuoto dissipato. In attesa del panino, sento la vescica scoppiare e vado in bagno con la mia amica o quasi. Riesco a fare pipì in piedi, anche se tutto aveva iniziato a ruotare davvero. Fu solo dopo aver lavato le mani che sentì il primo conato arrivare. Da quel momento si fa tutto un po’ sfocato: ricordo di aver fatto lo schifo in quel bagno, ricordo la mia coinquilina che mi teneva i capelli indietro e mi aiutava a lavarmi un po’ il viso. Tornammo poi al tavolo, dove ci servirono i panini, ma il mio non riuscivo neanche a guardarlo. Altro conato. Corsi fuori dal locale e vomitai quello che rimaneva della mia dignità. Come se non bastasse, un altro tizio ubriaco iniziò a rompere le palle, appena tornammo dentro. Ma poi se ne andò per la sua strada. Devo avergli fatto pena. Anche lui ha fatto pena a me. Ma questo non mi ha impedito di guardarlo male.
Sgranocchiai di mala voglia qualche patatina e il pane del mio hamburger, mentre il mio collega mi chiese se volevo dell’acqua, ma risposi che mio cugino mi aveva sempre detto di non bere acqua quando avevo la nausea, perché peggiorava solo le cose. Il nominare quasi involontariamente questo mio cugino di secondo o terzo grado, scatenò in me tutta una serie di ricordi. Quando ero piccola infatti, passavo sempre almeno una settimana d’estate insieme a lui e sua moglie. I loro tre figli maschi erano ormai grandi, avevano preso strade diverse, e  all’epoca pensavo che mia cugina avesse sempre desiderato una figlia. Non ricordo molto di quel periodo, solo che ero felice perché mi sentivo libera. Andavo a fare la spesa con lei, mi faceva conoscere le sue amiche, andavo a pesca con mio cugino e lo guardavo mentre puliva i pesci che poi avremmo mangiato. Un sogno circondato dalle ortensie e dagli ibisco che mia cugina amava tanto curare. Erano come dei secondi genitori, o dei nonni supplementari. Ma, come ogni sogno che si rispetti, non poteva durare tanto. Le fu diagnosticato un tumore, credo al fegato, ma la verità era che ero piccola e sapevo che le faccende dei grandi non mi riguardavano, quindi le ignoravo e continuavo a giocare con gli ibisco. Smisi di passare le estati con loro. Qualche anno dopo morì. La cosa peggiore, a parte il fatto che fosse giovane, una persona meravigliosa, dolcissima e onesta più di altre, è stata che, quando ho saputo della sua morte, non ho pianto. Neanche una lacrima. Niente. Non ricordo nemmeno cosa ho provato. Forse qualcosa, forse niente. Ma questa indifferenza che ho manifestato senza motivo sembra perseguitarmi da allora. Non mi ha mai abbandonato. Cos’è che ho sentito? Ho sentito qualcosa? Perché non ho pianto per lei, dopo tutto quello che mi aveva dato, in quegli anni? Perché non ho manifestato in nessun modo la mia sofferenza? Ne ho provata?  Ehi Charles, ti sei mai sentito come una scatola vuota? Hai mai avuto paura di perdere qualcosa o qualcuno? Questa morsa nera, profonda, gelida, ti ha mai afferrato per la gola? Ti ha mai lasciato senza fiato la notte? Perché adesso sono io quella che fa fatica a respirare.
 
Il cervello è un organo proprio curioso e l’inconscio, qualunque cosa sia, lo è ancor di più. Questa massa indistinta di ricordi mi ha assalito in un secondo, mi ha travolto e ha fatto quello che, anni fa, non sono riuscita a fare. Ho iniziato, allora, a piangere come una bambina, mentre continuavo a pensare a mia cugina, al fatto che era morta e io non avevo pianto. Non so cosa pensassero i miei compagni di sventura, ma li sentivo che cercavano di consolarmi mentre inveivo contro la vita. Ho smesso da tempo di credere in Dio, forse non ci ho mai creduto davvero,perché questa vita, non me la spiego, proprio non ci riesco. Ogni spiegazione razionale scivola via, cade da qualche parte e si frantuma, per poi tagliuzzare quello che rimane di noi miseri ammassi di carne. L’unica cosa di cui possiamo essere certi è la carne di cui siamo fatti,  del fatto che prima o poi dovrà sparire e polverizzarsi, insieme a tutto quello che rimane di noi e del nostro travaglio su questa terra. Non siamo niente, solo polvere e ombre, svaniamo nella storia come un alito di vento, senza lasciare un minimo segno del nostro passaggio. Perché dobbiamo vivere se dobbiamo morire? E’ una cosa che non ho mai capito e dubito che riuscirò a capire, perché non l’ha capito nessuno e io non sono di certo il top dell’evoluzione. Ricordo che, ieri sera, ho continuato a piangere, a dirotto; ricordo i singhiozzi e le lacrime e le braccia di quelli che ancora non so se definire amici sorreggermi, mentre mi portavano a casa, dritta a letto. Tra le lacrime, respiravo profondamente l’umidità notturna di questa stupida città. Ma era comunque aria. Aria fredda, pura, gelata, sentivo che mi riempiva i polmoni e mi ricordava che ero viva. L’unica cosa che conta in questa vita/non vita è l’ora, l’adesso, quello che è ora. Quello che è stato è parte di noi, non possiamo cambiarlo, ci perseguiterà finché vivremo, se può chiamarsi vivere camminare sul filo del rasoio, ma d'altronde conosciamo solo questa vita. Quello che sarà, se sarà, non ci è dato saperlo, sarà solo mentre sarà. Esiste solo il presente, la nostra unica posizione, e una freccia che segna solo la direzione.
Avanti.
Per questo che, stamattina, dopo cinque ore scarse di sonno, una doccia calda e veloce, una lavatrice piena ancora da mettere in funzione e in attesa del pranzo ordinato a domicilio, mi sono messa al pc a cercare di svuotare la mente. Ci riesco solo mentre scrivo o mentre leggo. Poi ho pensato che, se voglio lasciare qualcosa di scritto, voglio che sia vero. Scritto male, ma vero. Eppure, caro Charles,  hai vissuto abbastanza da trovare la pace. Sono abbastanza sicura di poterlo fare anch’io. O almeno lo spero.
Vorrei dedicare questo scritto a lei, perché non ho mai pianto come si deve la sua morte e non la piangerò mai abbastanza, ma quello di ieri sera mi sembra un buon inizio.
A te, Francesca.
 
 
   
 
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