Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: JSGilmore    22/11/2021    0 recensioni
Rachele ha sedici anni e due fratelli, Elia e Filippo, che non potrebbero essere più diversi tra loro. Elia è avventuroso, indipendente, un viaggiatore con l'ossessione per il mare, e dopo la morte del padre gli hanno affibbiato il ruolo scomodo di capofamiglia, forse è per questo che ha sempre quel fastidioso atteggiamento paternalistico. Filippo, d'altro canto, è legato visceralmente alla terra ferma, alla sua casa, alla famiglia. Entrambi hanno una passione in comune: Rachele, la sorella, che di sorella sembra aver ben poco. Tutto comincia quando Elia torna a casa dopo tre anni passati in mare a girare il mondo in barca a vela, le cose a casa sono cambiate, Rachele è cresciuta e Filippo è diventato più possessivo nei suoi confronti...Quasi quanto lui.
Qual è il mistero che si cela dietro la loro famiglia? Di quali segreti Rachele sembra essere all'oscuro?
Un'avventura, un segreto, un mistero, un amore impossibile. Sullo sfondo una meravigliosa Isola d’Elba.
"E ricordati di non avere paura del vento, perché muove il mare e lo preserva dal diventare melma".
Escape vi aspetta in questa versione "inedita" con contenuti extra non presenti su Wattpad.
(Crediti: storia Liberamente ispirata a Georgie e Outer Banks)
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


La luna era un grande occhio del cielo, che forava la notte. Il mare era disteso, come se fosse un prato immerso nell’ombra sinuosa di un bosco. Svaniva sotto lo sguardo inquieto del buio. Le barche riposavano e beccheggiavano alla luce dei lampioni. La sabbia emergeva cauta dalla riva, disperdendosi tra i sassi.

Mi appoggiai alla ringhiera. Tutto lo scompenso accumulato quella sera mi crollò addosso. Nonostante un sapore amaro in bocca, mi sentivo meglio: dopo aver vomitato, il mio stomaco si era ripulito. Era stato difficile convincere Filippo a tornare dentro e divertirsi, aveva l’insensata convinzione che fossi conciata un po’ male, il che mi aveva fatta sentire ridicola e demoralizzata e ancora più convinta a voler rimanere sola.

Il mio intento era impressionare la ragazza di Elia, ma, non solo non avevo ricevuto i fischi d’ammirazione sperati, avevo messo persino in imbarazzo mio fratello, completamente sparito dalla circolazione. Il mio solito atteggiamento sobrio avrebbe pagato di più, e, invece, mi era presa quell’improvvisa smania di dare una svolta catastrofica alla serata. Rovinavo sempre tutto.

Una figura scura avanzò verso di me, imperiosa. Mi scostai nervosamente e con gesti ripetuti i capelli dalla visuale, anche se non impedivano di fatto la visuale: Elia mi procurava spesso un bisogno spasmodico di muovermi. Era concentrato sulla chiazza argentata sulla mia spalla pastosa, effetto del riflesso dei lampioni. La sua camicia a righe scollata faceva intravedere le levigate mezzelune dei pettorali. La sua fronte liscia era sovrappopolata da chissà quali pensieri. I suoi occhi scuri e densi sembravano cercare nei miei qualcosa che gli permettesse di mettere in moto l’iter spiacevole di una ramanzina.

Elia, però, sorrise. «Ti sei liberata della tua guardia del corpo, vedo.» Non si era mai riferito a Filippo in quel modo, prima. L’osservazione non aveva nulla di provocatorio, anzi era stata posta in maniera spiritosa. Così spiritosa da risultare gretta, superficiale e irritante.

«Gli ho detto che volevo stare un po’ da sola», spiegai e lui aggrottò la fronte, scettico, perciò il resto fu un confluire inutile di accuse patetiche. «Filippo capisce ciò che mi serve, a differenza del resto del mondo.»

Filippo contro il resto del mondo: un po’ melodrammatico. Elia sembrò soppesare l’idea che il resto del mondo in realtà potesse essere lui, ma liquidò l’ipotesi con un sorriso equivoco. «Scommetto che dici così solo perché sei ubriaca.»

Il mare era cupo e compatto, sarebbe stato bello immergersi nell’ammaliante gravità dell’acqua calda e notturna. La schiuma divorava l’acqua, forse per sfuggire alle alghe sepolte, remote. La solitudine non apparteneva al mare, era altrove, forse nel cielo vuoto. Il mare aveva una voce roca, era fatto di sussulti e strappi. Accoglieva tutto, lo scrutava e poi lo respingeva. Nel cuore aveva il silenzio, aveva i segreti, aveva parole inghiottite. Il mare mi somigliava. «Perché ti sei allontanato dagli altri e sei venuto da me, Elia? Volevo stare sola.»

«Ero preoccupato, sei corsa via senza motivo. Non è da te. Che hai? Come ti senti? Vuoi andartene via?»

Strofinai forte la lingua sul palato asciutto e avvertii un pizzicore alle mucose del naso. Non aveva saputo della figuraccia, per fortuna, però l’improvviso interesse che Elia manifestò nei miei confronti, espresso in termini di ciò che desideravo e di come mi sentivo, mi fece venir voglia di piangere. Cercai di comporre la faccia in un neutro cipiglio di concentrazione, ma l’impressione che gli diedi non fu del tutto positiva. Si accostò a me, turbato. «Ti prego, parlami. Sto male quando mi tieni lontano da te così.»

Più ci pensavo, più lo sentivo: avrei voluto che mi avesse interpellata, prima di decidere di partire, e scoppiai a ridere, perché non ero del tutto priva di spirito. L’arroganza con la quale se n’era andato, e poi era tornato, la sua incapacità di ammettere di aver preso una decisione stupida, o anche solo innegabilmente affrettata, erano piuttosto comiche. Lui lo aveva capito. Doveva averlo capito per forza, che una parte di me era in collera con lui. Ma ero ancora abbastanza lucida da comprendere che se glielo avessi esplicitamente detto, per quanto compassionevole potesse essere il suo atteggiamento nei miei confronti, avremmo provato solo un terribile imbarazzo per una questione ormai andata. «Dov’eri quando sono uscita?»

«Ordinavo da bere al bancone…»

«Comunque, sto bene, non è successo niente.»

«Sicura?», questa volta il suo tono di voce era meno affabile, «Vuoi che ti riporto a casa? Guarda che non ho problemi.»

«E ad Angelica che cosa dirai?»

Era visibilmente sorpreso che glielo stessi chiedendo. «Sinceramente… Chissenefrega di Angelica. Quanto hai bevuto, Rachele?»

Mi resi conto di tremare dalla testa ai piedi. Non ricordavo quanti drink avessi bevuto, ma ricordavo l’umiliazione subita e avvertii il sangue salirmi fino alla faccia. Elia si sporse verso di me, anche lui paonazzo; le sue mani calde mi afferrarono la vita. Scivolai sotto la sua presa, quasi fino a svenire. Avevo gli arti doloranti. Mi prese in braccio e fu come ritrovarsi impigliati in una ragnatela di stelle. Fu tutto meno difficile.

Elia infilò le chiavi nel quadro e mise in moto la macchina, fece scorrere le mani sul volante come se stesse accarezzando il manto di una bestia feroce. I suoi occhi scrutavano veloci la strada. La notte incombeva su di noi come una cupola protettiva. Nell’abitacolo c’era un sensuale odore di dopobarba. Mi rinfrescai la fronte contro il finestrino. «Scusami, non sono abituata a bere.»

Elia esalò qualcosa, poi dissimulò con un colpo di tosse. Studiò la strada nella notte fitta e ingranò la marcia. «Questo lo vedo.»

«Ti ho fatto fare una brutta figura con la tua ragazza, Elia. Scusami.»

Guardò le mie ginocchia rosse e scoperte, meditando. Il suo viso era scarlatto e le ombre gli levigavano il volto cupo. Il suo silenzio mi stava trafiggendo. «Angelica non è la mia ragazza», alzò le sopracciglia, «E perché mai avresti dovuto farmi fare brutta figura, tu? Le hai fatto notare che ha un pessimo gusto in fatto di scarpe?»

Restammo muti per qualche minuto, e lui tamburellò sul volante, poi ci furono il ticchettio della freccia e gli scatti dei fari abbaglianti. Un ronzio acuto nelle orecchie mi impediva di pensare. «Non volevo, Elia, non volevo vomitare addosso a quel tipo, ma lui mi ha afferrata così forte da farmi male, e… Scusami se ti ho messo a disagio davanti a lei, non volevo.»

«Che ha fatto, scusa?»

«Mi ha…», ora il suo volto si fece livido e severo, si premeva una mano sulla fronte e mi fissava a scatti, in attesa che continuassi a parlare, ma rimasi immobile. Lo sguardo di Elia si incrinò e poi si svuotò, a trapelare fu soltanto una disturbante curiosità. Iniziò a girarmi la testa.

«Rachele, dimmi cosa è successo per favore. Di chi stai parlando?»

«Nulla. Era uno che mi ha palpato, ma è colpa mia, che ho bevuto troppo. Mi dispiace.»

Elia sterzò. Fui scaraventata contro lo sportello dell’auto e battei la testa contro il sedile, la cintura di sicurezza si tese. Fece retromarcia e poi continuò a guidare nel verso opposto. Stavamo tornando al locale. «Cosa stai facendo?», gridai.

«Sto andando a picchiarlo a sangue», accelerò, «Senti, non dirlo più che è colpa tua se uno fa il pezzo di merda, altrimenti tiro giù le madonne!»

«Elia, per favore, riportami a casa, non mi sento bene…»

«Certo che ti riporto a casa, ma prima vado a strangolarlo… Quella testa di cazzo.»

«No! Voglio andare a casa adesso!»

Serrò la mascella e indurì le labbra, ciò che disse non sembrava nemmeno provenire da lui, ma da qualche altoparlante dalla voce robotica. «Rachele, devi imparare a fidarti di me» L’espressione febbrile sul suo volto fu la rivelazione finale di una fragilità che in lui non avevo mai percepito così viva, come se fosse la destinazione ultima di ogni cosa, la fragilità, la debolezza, lo sgretolarsi in pezzi.

«Per una volta», lo supplicai, «Puoi tenere in considerazione quello che provo io?»

Frenò bruscamente e abbassò il finestrino dell’auto, l’aria entrò, in una folata di vento tonificante, satura del profumo balsamico della terra e dei fiori appena sbocciati. I fari si riflettevano sullo sguardo di animali selvatici che mandavano vispi bagliori e illuminavano la notte. I cumuli di terra giacevano teneri e nudi sul ciglio della strada, in prossimità delle erbacce. Elia batté un pugno sul volante. «Cristo!»

Era chino su sé stesso, le mani ancora serrate sul volante e lo sguardo in preda alla paura di rendersi ridicolo, o di agire in maniera stupida e sconsiderata, aggravando quella paura con quella di ammetterlo. Evitava scrupolosamente di guardarmi e io ero lì, ad aspettare che crollasse. «Elia, puoi calmarti un momento, per favore?»

Le sue labbra svogliate si mossero con umile lentezza, con dignità. «Mai stato più calmo di così, Rally.»

Nonostante la sua consueta e impareggiabile faccia da culo, aveva a cuore ciò che gli altri pensavano di lui, e in quanto sua sorella avevo il dovere di fargli notare che fosse ora di superare certi atteggiamenti. «A me pare che tu sia un po’ fuori di testa.»

Rise, in modo un po’ goffo, colmo di un’ironia che non riuscii a decifrare, inclinò le labbra e gli spuntò una tenera fossetta sulla guancia. Mi guardò. Si sporse verso di me. Il suo sorriso era affettuoso e solidale, come un docile rimprovero. «Dici?»

Aveva la misteriosa abilità di rendermi condiscendente, o perlomeno ingenua e sentimentale, era capace di distruggere ogni mia certezza. Non ero più sicura di essere io quella che aveva il controllo. Non ero più sicura di aver capito cosa stesse accadendo. «Sì», dissi, più per testardaggine che per reale convinzione, «Devi darti una regolata.»

Rise, e nonostante fosse un suono roco appena udibile, fu eccessivo per quella circostanza, quasi sprezzante. Il suo respiro sulle guance mi scaldò il viso. «D’accordo, dai, torniamocene a casa.»

Elia evitò per tutto il tragitto buche e solchi, viaggiammo spediti tra le stradine sconnesse dell’isola, io mi feci piccola, rannicchiata contro la portiera, voltata a osservare luci e ombre che si susseguivano lungo la strada. Le gomme dell’auto sterzarono sul vialetto di ghiaia. Un lampione che attirava farfalline notturne era l’unico faro in un cielo nero, un cielo la cui oscurità saliva e saliva in eterno, in mezzo a centinaia e migliaia di stelle.

Elia si diresse in cucina, versò dell’acqua in due bicchieri, con cautela, per evitare di svegliare la mamma, e me ne porse uno, con un sorriso tirato. Si appoggiò al mobiletto di panna, lo sguardo sfiduciato che aveva in macchina era scomparso. Sollevò le sopracciglia, un atto di tracotante mascolinità, un elogio a sé stesso, forse, e alla propria abilità di rimettersi in sesto in tempi sorprendentemente rapidi. Quel buco all’orecchio non ce l’aveva, quando era partito. «Se ti faccio una domanda», disse, «Puoi rispondermi con sincerità?»

«Tu falla e basta.»

Sul suo viso pensieroso si impose un sorriso scrupoloso e l’audacia con la quale pronunciò le prossime parole lo fecero arrossire, perché, nonostante ormai il mondo fosse diventato il suo campo di elezione, parlare con me, con sua sorella, era ancora una di quelle cose che sembravano metterlo a disagio. «Sei arrabbiata con me?»

La risposta a quella domanda era uno sdegnoso e seccato sì. O almeno, avrebbe dovuto esserlo. L’onestà con la quale si era espresso, però, mi fece sussultare. Quel modo sincero di porsi, quasi violento, con quello sguardo che voleva entrarmi fin dentro la testa, mi aveva appena messa in una situazione imperdonabilmente scomoda, il genere di situazione che, a pensarci bene, sembrava divertirlo parecchio.

Non dissi nulla.

«Lele…»

«Non è come pensi.»

«Allora spiegami com’è», disse e si avvicinò a me, le sue labbra sospese sopra la mia fronte, «Per favore, gabbianella

Mi venne in mente il porto, il giorno in cui la sua barca aveva attraccato, scintillante, nelle nuvole così dense e bianche da sembrare schiuma. Quel timone lucente. Il sole era tornato con lui, così bruciante e doloroso, così apocalittico. Quando Elia se n’era andato aveva portato via con sé ogni cosa, era stato come vivere in un posto di tenebre e nulla, poi il nulla si era solidificato, era diventato un nocciolo duro di entità analizzabili che avevano la stessa origine nel dolore. Le cose in cui credevo erano molto più precarie di quanto avessi mai immaginato.

«Sono stata male», ammisi, «Quando te ne sei andato, sono stata male. Insomma, ero in pensiero per i soliti motivi. Non sapere dov’eri o con chi, cose così. Avresti anche potuto rispondere a qualche mio messaggio, avresti potuto nominarmi nelle tue cartoline del cavolo, ma non l’hai fatto.»

Il ritmo dei suoi respiri si fece irregolare. Posò la mano calda sul mio fianco e in quel momento realizzai che l’istinto di piangere sarei riuscita a controllarlo solo rimanendo in silenzio. «Mi dispiace molto», disse, «Non sono andato via per farti stare male, credimi. Pensavo che l’avresti sopportato, visto che c’era Filippo qui con te.»

«Perché te ne sei andato? Qual è la ragione?» Mi prese in braccio, mi strappò da terra con la stessa delicatezza con la quale si raccoglie un fiore e mi aggrappai al suo petto, alla sua camicia a righe, stordita, e allora lo vidi uomo, non più il ragazzino diciottenne che era scappato di casa, con le tasche bucate e un sorriso da pezzente; vidi l’uomo che stava diventando: l’aria da arrogantello era scomparsa, ora scoppiava di salute e carisma. «Vieni con me», disse dirigendosi nella sua stanza e mi baciò la testa, «devo dirti una cosa.»

Cascammo sul letto e la sua mano si attorcigliò delicatamente attorno al mio polso. Più cresceva, più la somiglianza con nostro padre si faceva impressionante: aveva gli stessi occhi, la stessa scucchia e la stessa stazza ingombrante, lo stesso coraggio, la stessa ossessione per il mare. Abbracciai il morbido cuscino di piume. «Tu me lo ricordi così tanto», dissi, «Ti manca, a volte?»

L’ombra di soddisfazione agli angoli della bocca svanì. «Certo, però era inevitabile che andasse a finire così. Non si possono addomesticare i lupi di mare come lui.»

Scomparso nel Mediterraneo, disperso, morto, perduto per sempre, non c’era niente da fare. «Lupi di mare come lui, ma anche come te. Cosa pensi gli sia accaduto?»

«Non lo so. Aveva a che fare con la gente più feroce a cui dio avesse concesso di navigare i mari, così raccontava lui. Il problema è che raccontava tante cazzate.»

Elia e papà avevano un rapporto conflittuale, si capivano il tempo necessario per fumare un sigaro. Mio fratello non approvava quella sua smania di portare alla luce ciò che giaceva nei fondali tenebrosi dell’oceano. Ogni cosa, secondo Elia, apparteneva a un luogo ed era da ignobili causare squilibri nell’universo. «Ricordi quello che il vecchio diceva sempre?»

Elia tentò. «Il mare è come una madre: da lei nasci, e se da lei non scappi, muori?»

«No, non questa. L’altra.»

Si illuminò. «Ricordati di volare sempre più in alto…»

«Io sarò con te, quando ci riuscirai», conclusi.

«Vuoi sapere ciò che penso su papà?», mi lasciò il polso e seguì le cuciture del mio vestito con il polpastrello, i suoi occhi cupi erano concentrati sulla stoffa azzurro sbiadito, «Che gli piaceva raccontare le storie, tutto qui.»

«Dicevo sul serio, prima», gli ricordai, «Perché sei scappato da noi?»

«Qui cominciava ad andarmi tutto stretto, i posti, le persone…», sorrise rammaricato, «Non sono mica Filippo, io. Sono un ragazzo incasinato. Non ho una gran vita, oltre la barca. Faccio tante cose ma non costruirei la mia vita attorno a nessuna di queste. Però evitare obiettivi specifici mi ha permesso anche di non avere limitazioni», ridacchiò, «Ho fatto della libertà la mia fedelissima amante.»

Le confuse, sfilacciate ed eccitanti sfumature del suo carattere, quello stesso carattere che l’aveva indotto a starsene sdraiato e trasognato lì sul letto con me in quel momento, e in un futuro chissà dove, all’improvviso si cristallizzarono in un insieme solido e attraente. Presto, se ne sarebbe andato via di nuovo. Se avessi avuto la forza per sperarlo, se non avessi sentito ogni giorno l’estenuante sofferenza che quel pensiero mi procurava, gli avrei detto di continuare a viaggiare, di non fermarsi, di non affaticarsi per tutta la vita sulla storia della nostra famiglia. C’erano ancora troppi bei tramonti da godersi, non c’era tempo per rimanere fermi, per farci invadere dalla stessa flemma che aveva invaso nostra madre. «Hai intenzione di restare, oppure…?»

Qualcosa lo scosse, forse il senso di colpa, o la presa di coscienza che non eravamo più bambini. Non eravamo più quei bambini che si rincorrevano nei vigneti, nei vecchi casali abbandonati, che il pomeriggio scappavano al maneggio, che correvano nelle forteste; adesso quelle foreste andate bruciate le guardavamo, con la consapevolezza di non aver imparato a fare niente, se non a piangere e aspettare, con la consapevolezza che era troppo tardi anche per i ricordi. Elia, in quel momento, era perso. «Non me ne vado, se non vuoi.»

«Me lo prometti?»

«Sì», disse e mi sfiorò la guancia con il pollice, «Mi sento responsabile di tutto quello che ti accade, e mi sento anche una merda, per stasera. Scommetto che non ho una buona influenza, su te e Filippo.»

«Non ha senso, questo. Tu sei la parte migliore della nostra famiglia, la nostra colonna. Non pensarla mai, una cosa del gnere.»

Mi prese il volto tra le mani e mi guardò per qualche istante, mi sfiorò il sopracciglio per una brevissima frazione di secondo, come se scottasse, poi mi portò al suo petto e mi abbracciò. Provai un malessere irrequieto, esausto, che somigliava a un bisogno feroce di stargli vicino. «Cazzo, Rachele, non merito che mi vuoi bene così.»

«Non sparire più, Elia, ti prego.»

«Te lo giuro, non me ne vado da qui senza di te.»

Un rumore improvviso, le chiavi dentro la toppa della serratura erano scattanti e impazienti. Elia si irrigidì, si voltò a fissare la porta chiusa della stanza e mi coprì i capelli con le mani, come nel tentativo di nascondermi sotto di sé. Non servì a rendermi invisibile quando Filippo spalancò la porta della stanza con una foga, con una pudica sorpresa, che in un primo momento sembrò portarlo allo sbaraglio. «Rachele?» esclamò, «Che ci fai qui?»

Elia si alzò e si avvicinò a nostro fratello, ma Filippo continuava a fissarmi: un misto di sensi di colpa e nausea si impossessò di me. Da quando Elia se n’era andato, vigeva una tacita regola, che nessuno aveva mai avuto il coraggio di pronunciare, ma che era chiara a tutti: il confine delle camere non bisognava oltrepassarlo mai.

«Dai su, esci dalla mia stanza» disse Elia con voce roca e stanca indicando il buio del corridoio. Gli occhi freddi di Filippo erano puntati su di me e sul mio vestito stropicciato. Il suo viso assumeva a mano a mano un’espressione di crescente e ironico disgusto.

«Filippo», lo richiamò Elia, «Esci da questa stanza, subito»

Mio fratello aveva un’espressione acuta e sorda, spaventosa. «Glielo hai detto? Per questo è qui?»

«Esci immediatamente» disse Elia e, nello sforzo di rimanere calmo, il suo tono di voce assunse un risvolto autoritario e paternalistico, «Non lo ripeterò un’altra volta, e vai a dormire»

«Dimmi solo se glielo hai detto oppure no.»

Elia e Filippo erano uno di fronte all’altro, entrambi visibilmente umiliati, incapaci di mettere fine a quel teatrino, da cui mi stavano tagliando fuori, senza porsi il benché minimo problema. «Dirmi che cosa?» chiesi.

Elia alzò le spalle e folgorò Filippo: «Ti ha appena risposto. Ora vattene.»

Filippo rimaneva immobile, un pezzo di legno sul ciglio della porta, i capelli luminosi e biondi ora erano incrostati dal sudore, gli occhi scavati e profondi come due tunnel. Volevo strillare, fare una scenata, piangere. Solo così mi avrebbero ascoltata, considerata. Si ricordavano di me solo quando era troppo tardi. Elia gli si avvicinò di più. «Senti, qual è il tuo problema? Pensi davvero che le farei qualcosa di male?»

«Vuoi davvero sapere ciò che penso?»

«Sì, sarebbe proprio il caso», sottolineò Elia, «visto che apri la mia stanza come se niente fosse, senza rispetto.»

«Ah, io non ho rispetto? Io? Sul serio, Elia?», sbuffò indignato, posò gli occhi su di me e mi indicò, «Dovresti lasciarla in pace, da quando sei tornato Rachele non è più una ragazza, è un mucchio di stracci di cui tu, suo fratello, ne disponi come ti pare e piace. Da quando sei tornato, è triste.»

Crollò vertiginosamente il silenzio. Filippo ci provava da sempre a capirmi, e alle volte ci andava davvero vicino. Quella volta, però, non sapeva proprio di cosa stesse parlando. Non era Elia, ero io: da tutta la vita ero triste. Mi alzai dal letto e mi assicurai di colpire entrambi con una spallata di protesta e disapprovazione. «Grazie a tutti e due», dissi prima di lasciare la stanza, «Per parlare di me come se io non fossi presente.»


Note.
Grazie per essere arrivati fino a qui. Grazie a chi ha aggiunto la storia tra le preferite\seguite. Questo è uno dei capitoli che preferisco, ci terrei tanto a sapere cosa ne pensate!
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: JSGilmore