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Autore: _uccia_    25/11/2021    1 recensioni
Lui vive secondo un codice, il codice Vory. Nel mondo malavitoso russo esiste una gerarchia e delle tradizioni. Lei sarà lo strumento che lo farà ascendere al potere.
Lui è un sicario chiamato il Siberiano, lei una principessa della 'Ndrangheta italiana.
Quello che non sanno è che il loro destino è inesorabilmente intrecciato e che non avranno scrupolo a sfruttare la posizione l'un dell'altra per raggiungere la sommità della scalata al potere.
Perché più forte della loro ambizione, può essere solo il desiderio carnale e possessivo che pare bruciarli interamente.
Due personaggi che per quanto diversi si ritroveranno a dover lavorare di squadra, in un ambiente cupo e pericoloso diviso tra Stati Uniti, Honduras e la fredda Russia.
Genere: Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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                                                                                                             ---------------VITTORIA-----------------

 
Si guardò allo specchio mentre si infilava le scarpe con il tacco alto comprate appositamente da Babushka per l'occasione.
La governante le aveva acconciato i capelli a dovere, lasciandoglieli sciolti in lunghe onde castane che le arrivavano fino al fondoschiena.
L'aveva truccata optando per un unico colore: il nero. Ombretto nero e il rossetto effetto Mat, anch'esso nero.
L'abito che era corsa a comprare, dopo averle preso le opportune misure, sembrava esserle stato cucito addosso. Vittoria ne riconobbe l'ottima fattura.
Era un tubino nero molto fasciante sui fianchi che le faceva risaltare il fondo schiena e aveva una vertiginosa scollatura sul davanti.
Persino lei stessa continuava a fissarsi le tette dal riflesso allo specchio. Dubitava che Volkov sarebbe riuscito a guardarla negli occhi per più di un secondo, prima di calare di nuovo con l'attenzione.
Si chiese che razza di idea di era fatta Babushka sulla serata, sembrava che dovesse sedurlo non semplicemente conoscerlo.
"Sono felice che tu abbia cambiato idea, sei bellissima". Si rallegrò Babushka dietro di lei, battendo le mani.
"Beh, non c'é altra scelta no?". Sospirò Vittoria continuando a fissarsi la scollatura. "Ci sono troppe cose di cui parlare e di cui voglio sapere. Dio mi è testimone, se ci fosse un altro modo per ottenere informazioni io...".
Già, lei cosa?
Aveva bisogno di quel confronto, aveva bisogno di conoscere il nemico.
Sentendosi le braccia stupidamente flosce e senza utilizzo pratico ai lati del corpo, si avviò fuori dalla camera da letto e poi giù per le scale.
Non aveva nemmeno una borsetta da reggere, non aveva portafogli o telefonino perciò non era stata prevista nell'outfit.
Tutto confiscato.
Babushka la seguiva rimanendo in dietro di qualche passo, le reggeva una pesante pelliccia nera lucida. Enorme, esagerata da matrona russa.
Considerando quanto poco era vestita, una simile copertura le avrebbe fatto comodo una volta che avesse messo piede all'esterno.
In salotto, Vasilj Volkov era seduto sul divano. Le dava le spalle e teneva le braccia spalancate sul schienale del sofà.
La caviglia destra appoggiata sul ginocchio sinistro. Una postura disinvolta mentre stava guardando il notiziario della sera.
In quel momento stava andando in onda la replica del servizio fatto alla signora in lacrime in cerca dell'uomo nella foto.
Vittoria si schiarì la gola e raddrizzò la schiena in attesa.
Volkov non si alzò subito, voltò prima semplicemente il capo abbassando un braccio.
Praticamente le fece una scansione completa, dalla sommità della testa fino alle scarpe vertiginose.
Vittoria sostenne l'esame senza alcun problema, non era la prima volta che un uomo la guardava in quel modo.
"Troppo elegante? Posso cambiarmi, se preferisci". Provò ad azzardare lei.
Lui trovò il telecomando senza staccarle gli occhi di dosso, spense la TV e si alzò.
"Va bene". Le disse tetramente. "Molto... bene". Aggiunse poi con voce greve.
Per la serata si era cambiato, optando per una più elegante camicia bianca accostata a giacca e pantaloni abbinati in grigio graffite scuro.
Era davvero di bel aspetto, un look raffinato ed elegante che cozzavano irrimediabilmente con il suo cupo viso e la cicatrice al labbro superiore.
I corti capelli biondo scuro erano stati pettinati tutti dritti e ordinati.
La sua espressione era criticamente seria, come se fosse più adatto a guidare un battaglione piuttosto che trascinarsi in quella casetta solo per prenderla e portarla fuori a cena.
Lei sostenne il suo sguardo, quasi sfidandolo ad abbassare il suo a favore delle tette.
"Sembri diverso". Lo sfidò. "Vestito in abiti civili".
"Umpf", sbuffò annoiato lui. "Leviamo pensiero, Babushka vesti lei. Ora andiamo".
La piccola anziana si fece avanti con la pesante pelliccia.
"Posso indossarla da sola, grazie Babushka". Le sorrise Vittoria gentilmente.
Il pellicciotto era davvero caldo e morbido.
Meraviglioso.
Volkov si infilò il soprabito e Vittoria lo seguì con lo sguardo mentre usciva all'esterno di buona lena, come se non gliene importasse un accidente se cenava con lui oppure no.
Se lei stessa non avesse avuto ripensamenti, si sarebbe offesa.
Era stato lui a invitarla, dunque perché adesso che si era preparata lui aveva la luna storta?
Era tentata di girare sui tacchi e tornarsene in camera, invece lo seguì perché quella era un'ottima occasione per infastidirlo.
L'uomo la precedette alla grossa auto sportiva parcheggiata davanti casa, a capo chino e passo lungo come una star in fuga dai paparazzi.
Aveva una andatura maestosa, si muoveva in un modo a dir poco superbo.
Ogni volta che il tallone toccava terra con forza, le spalle si spostavano leggermente per controbilanciare la spinta delle gambe.
Lo vide darsi uno strattone ai baveri del costoso cappotto, per distenderselo meglio, e fu come se stessero girando una pubblicità a rallentatore di un profumo da uomo.
La voce di suo padre le risuonò ancora nella mente.
"E' come una malattia. Se ti tocca, non c'é cura".
Salì in macchina senza nemmeno prendersi la briga di aprirle lo sportello, come altrimenti si conveniva a un gentleman.
Lei alzò gli occhi al cielo e provvide da sola.
Il viaggio in macchina fu silenzioso e imbarazzante, a un certo punto Volkov ebbe la santissima idea di accendere la radio. Solo per riprendere ad ascoltare quello che sembrava il notiziario.
Per lo meno, non erano costretti a parlare.
Vittoria si disse che era impossibile tentare di conciliare tante contraddizioni.
Voleva essere sincera, almeno a sé stessa.
Quell'uomo la attirava tanto quanto la respingeva.
Con tutti quei contorcimenti mentali che si stava facendo, stava solo cercando di leggere il proprio destino nelle foglie di tè.
Doveva fidarsi del suo istinto e andare 'a braccio'. In quel momento sentiva che era stata la decisione giusta ad accettare il suo invito ad uscire.
Quando si accodarono alle auto in fila verso il centro città, il cuore della ragazza si fece più controllato.
La stava portando in un posto frequentato da molti testimoni, in una zona lussuosa illuminata dalle prime decorazioni natalizie affisse nelle vetrine delle boutique.
La notte giungeva presto in quella terra del nord e in inverno. L'atmosfera natalizia cominciava a farsi percepire.
San Pietroburgo a Natale doveva essere meravigliosa, Vittoria desiderava tanto vederla agghindata a festa.
Giunsero davanti a un enorme hotel a cinque stelle, con concierge all'ingresso e addetto alle pulizie in cravatta che passava l'aspirapolvere nell'atrio.
Tutto risplendeva di marmo bianco e cristalleria.
Volkov scese lasciando il motore acceso e consegnò le chiavi elettroniche al parcheggiatore, quindi Vittoria si affrettò a uscire prima che l'addetto partisse con ancora lei in auto.
Volkov sembrava davvero incazzato per un qualche ignoto motivo. Tanto da attenderla sui primi gradini che portavano all'atrio dell'hotel, tenendo la mascella contratta.
Proprio il soggetto ideale per un appuntamento galante, pensò Vittoria. Un killer con l'equivalente civile dello stress da traffico.
Si avvicinò con cautela e lui le fece cenno di precederla dal concierge.
"Buonasera", salutò sorprendentemente in italiano l'omino al bancone. Per poi continuare in russo e perdere ogni forma di comprensione da parte di Vittoria.
"Volkov... ceniamo". Si presentò il suo accompagnatore, scostando il cappotto e infilando le mani nelle tasche dei pantaloni.
L'omino sorrise cordialmente e cominciò a verificare la prenotazione sul suo computer.
La targhetta che teneva appuntata al petto, scintillò.
"Giacomo?", lesse sorpresa lei. "Italiano forse?". Chiese nella sua lingua madre.
Anche il concierge le rispose in italiano. "Esattamente, nato e cresciuto in Toscana. Italiana pure lei? Cosa ci fà da queste parti?".
Lei sospirò voltandosi verso il suo tetro accompagnatore. "Sono stata trattenuta".
Giacomo ne rise divertito e afferrando la sua cartellina con la mappa dei tavoli, li precedette verso l'ascensore.
"Ah, l'amore".
Quando le porte dorate dell'ascensore si aprirono rivelando una cabina rivestita da specchi, Vittoria quasi si mise a ridere dei riflessi che vide.
Lei con un cipiglio che arrivava fino all'attaccatura dei capelli e Volkov, dietro, che non ci capiva un cazzo di cosa lei e il concierge si stavano dicendo.
Giacomo diede le istruzioni per raggiungere il ristorante all'attico panoramico e poi il tavolo assegnato, prima in russo a Volkov e poi in italiano per Vittoria.
La ragazza lo ringraziò ma Volkov pareva impaziente di premere il pulsante del trentesimo piano.
Per tutta la salita, i due rimasero soli e silenziosi. Dalle casse nascoste sul soffitto dell'ascensore usciva una canzone lenta e romantica che Vittoria riconobbe come "Gangsta" di Kehlani.
 
"Ho bisogno di un gangster
Che sappia amarmi meglio
Di quanto sanno fare gli altri
Che mi perdoni sempre
Che stia con me nonostante tutto
Voglio qualcuno con dei segreti
che nessuno, nessuno sà".
 

Dal riflesso degli specchi lui pareva un pappone che portava fuori la sua protetta preferita.
Erano ben assortiti però, lui agghiacciante come sempre con le mani in tasca e lei era un vero e proprio schianto con la sua pelliccia nuova.
L'attico era spettacolare, in penombra illuminato dalle candele ai tavoli rotondi e dal mozzafiato skyline di tutta Sanpietroburgo che brillava in milioni di luci notturne attraverso immense vetrate panoramiche.
Vittoria rimase a bocca aperta guardandosi attorno.
Alcuni dei commensali si girarono a guardare lei e Volkov con espressioni curiose e vagamente ammaliate. Lei e il suo accompagnatore avevano la particolare abilità di attirare gli sguardi, nel bene e nel male.
Il locale era lussuoso e raffinato. I clienti sedevano composti a coppie ai tavoli, scambiandosi convenevoli e baci rubati sopra ai deliziosi piatti italiani.
Vittoria riconobbe scampi e mazzancolle croccanti in tempura di ortaggi e radicchio, oppure fiorentine gigantesche mostrate prima a crudo dal cameriere e poi fatte cuocere in base a come le preferivano i commensali. Riconobbe poi i tradizionali dolci come il tiramisù e i cannoli siciliani, serviti con veri e sacrosanti caffè espresso.
Lo stomaco della ragazza, per la prima volta da giorni, brontolò euforico.
Come da istruzioni ricevute, si diressero verso una sala privata accanto al salone principale, dove ad accoglierli c'era una cameriera in look totalmente nero che aprì loro la porta.
La sala privata era stata prenotata da Volkov tutta per loro e Vittoria si rallegrò nel constatare che la vista sulla città illuminata si poteva godere anche da lì.
La tavola era stata imbandita con gusto, c'era un centro tavola floreale di tuberose e orchidee con candele color avorio. Il tutto accostato ad argenteria e porcellane scintillanti.
Due camerieri arrivarono, raccolsero i soprabiti e scostarono le sedie in attesa che vi si sedessero.
Volkov era infastidito, guardò il cameriere che gli reggeva la sedia come se lo avesse insultato a morte ma poi si decise ad accomodarsi.
Da quello che poté capire Vittoria, a quel punto uno dei camerieri propose in russo di servire un aperitivo ma Volkov lo interruppe alzando semplicemente una mano.
"No. Porta vino e servi cibo, mangiamo subito".
Il cameriere parve vacillare un istante mentre fissava i simboli bluastri impressi sulle falangi di Volkov, ma subito si riprese con un sorriso affettato.
"Molto bene, Signore. Provvedo immediatamente". E scomparve insieme al suo collega come se in cucina stesse per andare a fuoco qualcosa.
La porta venne chiusa alle loro spalle.
"Funziona così, quindi?", inarcò un sopraciglio lei. "Mostri qualche simboletto e la gente scappa a gambe levate?".
Lui alzò entrambe le mani mostrandole i dorsi e tutte le dita.
"Loro essere storia, non 'simboletto'".
"Qual'é la loro storia?". Chiese ancora lei indicando prima la rosa tatuata alla mano sinistra e poi la pistola a quella destra.
Volkov le abbassò e cominciò a tamburellare ai lati del piatto vuoto, davanti a lui.
"Rosa fatta dopo dieci anni di carcere e Tokarev... quando io diventato uomo".
Lei ne rimase affascinata. "Ti prego", lo esortò. "Parlamene".
I camerieri entrarono con due piattini di insalata che posarono sul tavolo.
"Per il menù scelto questa sera consigliamo un vino classico Valpolicella oppure...".
Ancora Volkov tagliò corto. "Dà, dà. Va bene!".
Il cameriere schioccò le dita e i calici vennero riempiti, lasciarono la bottiglia accanto al centro tavola e se ne andarono.
"Sei sempre così sgarbato?", lo riprese lei per poi correggersi in "Odioso", quando vide l'espressione confusa di lui.
"Umpf, no odioso". La voce di Volkov suonava sardonica, quasi fosse annoiato da quella parola.
Lei infilzò una foglia di insalata. "Humm. Allora perché è da tutta la sera che sembri aver voglia di strangolarmi?".
"Tu minacciato me con coltello!".
"E tu mi hai caricato in spalla e richiusa. Mi sembra che siamo pari!".
Volkov piantò maleducatamente entrambi i gomiti sul tavolo e si ingozzò di insalata, manco stesse mangiando alla mensa dei poveri.
A dispetto del suo abbigliamento, non sembrava conoscere la ben che minima regola dell'etichetta.
Parlò con ancora la bocca piena. "Tu, donna. Tu a casa mentre io lavoro. Tutto questo...", e fece roteare la forchetta per aria indicando il locale intorno a loro. "... solo per fare piacere a te. Roba da froci, non per me".
"Allora potevi non invitarmi a cena, sempre se quello che hai fatto si possa definire un invito".
Lui deglutì in fretta il boccone di verdura. "Se non piace mangiare fuori con me, allora perché tu venuta?".
Vittoria fece una smorfia. "Perché me lo hai ordinato!".
"Oh, posso accettare rifiuto. Tranquilla". Come se non gli importasse un bel niente di lei.
"E' stato un errore". Vittoria posò il tovagliolo accanto al piatto e si alzò.
Lui imprecò. "Siedi!".
"Non dirmi cosa devo fare".
Lui batté una manata sul tavolo in un tintinnio di posate e Vittoria sussultò.
"Io rimedio, siedi e stai zitta".
Lei lo guardò allibita. "Brutto stronzo arrogante..."
Un cameriere entrò in azione proprio in quel momento con degli involtini caldi.
Vittoria si rimise lentamente a sedere e allungò lestamente la mano verso il calice di vino.
Non voleva andarsene davanti al cameriere che li serviva e poi, tutto d'un tratto, aveva cambiato idea.
Così poteva litigare ancora un po' con lo stronzo.
"Non ti permettere di parlarmi in questo modo. Mettiamo bene le cose in chiaro, tu hai bisogno di me. Quindi vedi di superare questa fase del 'ti devo per forza sposare oddio che schifo' perché è chiaro come il Sole che non é così. Tu mi vuoi da quella notte a New York che mi hai fatta scappare, ricordi? Eri ferito alla spalla e...".
Volkov la interruppe. "Io morto, tu non così importante". Fece le spallucce.
Vittoria venne presa in contro piede. "Cioè in quel momento, con il rischio concreto che tu stessi per morire... scegliesti di lasciarmi andare per casualità?".
Volkov posò la forchetta sul bordo del piatto, si scolò il suo calice di vino rosso come se fosse una pinta di birra e rispose semplicemente: "Dà".
Pareva sincero.
Che razza di stupida.
Calò il silenzio e Volkov si prodigò a riempire nuovamente i calici di entrambi.
"Detto qualcosa di sbagliato?". Si corrucciò lui, senza capire.
La ragazza lo squadrò a lungo cercando di penetrare in quelle iridi grigio cemento, cercando una qualche traccia di tenerezza da sfruttare. Qualcosa con cui stabilire un contatto.
Ma la stava tagliando completamente fuori, era un muro invalicabile. Era solo... freddo.
"Come può la vita significare così poco per te?". Si chiese ad alta voce.
Il sorriso che lui le rivolse, era quanto più falso potesse esistere. "Come può morte significare tanto per te?".
Vittoria si accasciò sulla sedia. "No, non la morte in generale. La mia. A me dovevi dare importanza, la mia vita vale molto più dei tuoi omicidi su commissione".
Toccò a lui rimanere sbigottito. "Allora é questo!". Capì improvvisamente. "A te no importa di quello che faccio, di chi faccio fuori. A te importa... di te!".
E rise, una risata simile a un latrato di un cane. Del tutto volgare, più adatta al bancone di una locanda che a un così raffinato contesto.
La ragazza si massaggiò il décolleté all'altezza dello sterno. "Ah, non considerarmi un angioletto. Tu sarai del Vory ma io sono cresciuta nella Onorata Società e so' come funziona il mondo. Non fingerò di disperarmi per le vittime collaterali al business".
Lui smise di ridere improvvisamente e la guardò con uno sguardo che la imbarazzò.
Il gelo era sparito, c'era calore sul suo volto. La stava guardando con bruciante curiosità.
Vittoria addentò uno degli involtini con movenze volutamente sensuali, per poi esortarlo:
"Parla apertamente, si capisce che stai pensando a qualcosa".
Seguì una lunga pausa e lei si scolò il secondo calice. Ed erano solo agli antipasti.
"Mai conosciuta donna come te, tutte paura di malavita ma tu... tu diversa".
Lei raccolse la palla al balzo, si curvò sopra al piatto facendo sfoggio della profonda scollatura a 'V'. Con le braccia si strizzò i lati del generoso seno, facendolo gonfiare ancora di più per lui.
Erano in ballo, il suo istinto le diceva di ballare.
Volkov calò subito lo sguardo sul suo seno e lì ci rimase mentre lei diceva ardentemente, scandendo parola per parola:
"Io non voglio essere la principessina da proteggere. Io voglio essere regina, voglio che la gente chini il capo al mio passaggio. Voglio essere chiamata Donna Vittoria e se dovrò io stessa tagliare qualche gola per diventarlo o..." Sospirò. "... sposarti. Così sia".
Le pupille dell'uomo guizzarono nuovamente sul volto di lei.
Dio, Vittoria quasi cadde dalla sedia.
Stava bruciando per lei, poteva leggergli nella mente.
"E andare a letto con me?", la stuzzicò lui.
La ragazza avvertì un piacevole nodo di tepore iniziare a addentrarsi nella pancia. Il suo sguardo la penetrò come il calore stesso, fisico e intimo.
"Non sei così raccapricciante come vuoi far credere", ghignò maliziosa lei.
Volkov la esortò a brindare e rimase in attesa con il calice sulle labbra, finché lei non ebbe finito di trincarsi anche il terzo calice della serata con lo stomaco quasi del tutto vuoto.
Cominciava a girarle la testa, lui era assolutamente lucido e la controllava in attesa.
Come una volpe in agguato fuori da un pollaio. Paziente.
All'improvviso nella mente appannata della ragazza si formò un'immagine, sarà stato l'alcol insieme alla presa di consapevolezza che avrebbe sposato uno degli uomini più pericolosi dell'Est. Un assassino.
Lei con il vestitino sollevato sui fianchi e avvinghiata con le gambe attorno al busto di lui. Lui in piedi, con i pantaloni calati alle caviglie che la sorreggeva e se la fotteva alla grande contro la vetrata panoramica della città.
Poteva sentire i muscoli sodi di lui sotto la punta delle dita, quel corpo saldo che si tendeva... il suo grosso membro che la colmava, la faceva contrarre, esplodendo in profondità dentro di lei.
Oh, sì. Pensò, praticamente agitandosi sul posto.
"Oh, Gesù bambino". Rantolò invece,  massaggiandosi le tempie. "Ho bisogno di mangiare".
Aveva finito anche gli involtini.
Lui batté il pugno sul tavolo e urlò un ordine nella sua lingua.
A quel punto entrarono i camerieri, servirono delle pappardelle al ragù di cervo e stapparono un'altra bottiglia.
"Quindi..." riprese lei per colmare il silenzio finché mangiavano. "Sei stato dieci anni in galera. La rosa alla mano, intendo".
Lui succhiò rumorosamente una pappardella. "Specie".
"Esistono varie speci di carceri?", si interessò lei.
"Quì si", annuì lui. "Addestramento e poi qualche altra volta", spiegò ancora indicando delle cupolette molto simili a quelle che aveva il suo galoppino Nicolaj.
Anche Volkov ne portava qualcuna  sulle falangi: solo due.
"Questa per carcere un anno a Mosca, questa per un anno a Praga". Lui ne indicò una e poi l'altra. "Rimasto poco, fatto catturare. Avevo lavoro da fare in gabbia. Quando fatto, Kozlov fatto uscire me".
"Chi é Kozlov?".
Volkov si riempì la bocca prima di rispondere. "Era ex capo".
Vittoria spazzolò l'intero piatto che aveva davanti, era squisito. "Non lavori più per lui?".
 L'uomo alzò le spalle con non curanza. "Io licenziato".
Rise poi di quella battuta, Vittoria invece non riuscì a cogliere.
"Si viene addestrati per diventare sicari dell'Organizacija?".
"Dà".
"E' stata molto dura?".
"Dà, io bambino quando iniziato".
Vittoria ci pensò su'. "Quale adulto manderebbe un bambino ad un addestramento del genere?".
Lui grugnì. "Uno di onore".
Vittoria esaminò a distanza la pistola tatuata al dorso della mano destra. "E la Tokarev? Che significato ha?".
Lui finì il suo piatto e si pulì la bocca con il tovagliolo. "Io non so' come funziona con tua Onorata Società...ma quì tradizione che rebenok, bambino diventa uomo prima di addestramento".
Cominciò ad accarezzarsi con la punta delle dita il tatuaggio, distrattamente. "Questa, prima arma data a me da mio nonno. Primo uomo ucciso con questa".
"Quanti anni avevi?".
La risposta la sconvolse.
"Undici. Mio nonno sorpreso ladro rubare bestiame, lui fatto inginocchiare ladro. Mio nonno dato a me Tokarev. Io diventato uomo quel giorno".
Vittoria si ritrovò suo malgrado a boccheggiare. Non era più tanto sicura di voler sapere altro su quell'oscuro uomo.
"Vuoi chiedere altro?", domandò lui in tono sarcastico. Quasi le avesse letto nel pensiero.
"Si... oh, quanti anni hai?".
Lui si rilassò sulla sedia, annoiato. "Trenta".
Vittoria ne rimase allibita.  "Te ne davo di più", commentò spietatamente.
Per davvero, la sua corporatura e l'intero aspetto generale gli davano un'aura oscura che lo invecchiava di almeno sei o sette anni.
"Tocca a me", esordì improvvisamente lui. Riprese a tamburellare le dita ai lati del piatto di fronte a sé, braccia tese.
"Vieni da Italia?".
"Sud", precisò Vittoria. "Ma ci sono solo nata, non ci torno da... beh, ero molto piccola".
Lui continuò a tamburellare, studiandola. "Perché non più tornata in sud Italia?".
"Non posso".
"Perché?".
Vittoria diede un altro sorso al suo vino. "Dio... è un interrogatorio?".
Lui si era fatto di nuovo glaciale. "Rispondi". La esortò.
I camerieri entrarono, portarono via i primi piatti e servirono il coniglio in umido con erbette.
Solo quando furono di nuovo soli, lei parlò:
"Mio padre è in esilio auto imposto, riesci a capire questa parola? Significa che è dovuto andarsene dal suo paese causa forza maggiore".
L'uomo storse la bocca guardandola. "Quale forza?".
Vittoria ridacchiò tetramente, allargando le braccia a mò di resa. "Mio zio in primis e i miei cugini... oh, quelli sono i peggiori. Faida familiare, mai sentito parlare? Basta aver visto un qualsiasi film mafioso ed ecco il ritratto della mia situazione in patria. Non ci é concesso tornare, io non ho nemmeno l'accento italiano ma mio padre insiste sempre col dirmi che un giorno faremo ritorno".
Ridacchiò ancora mentre Volkov le riempiva il bicchiere e la esortava a bere insieme a lui.
"Mi ha persino dato il nome Vittoria come se fossi una profezia", ne rise senza gioia e infilzò il primo boccone di coniglio. "Sono nata durante la guerra tra famiglie, mio padre credeva di avere la vittoria in tasca e prese la mia venuta al mondo come il segno piovuto dal cielo che Dio era dalla sua parte e tutto andava bene... col cazzo. Ci hanno annientati e io e la mia famiglia ce ne siamo scappati a Boston, ultima roccaforte dei De Stefano".
Perché gli stava raccontando tutto questo?
"Tua madre?". Chiese Volkov.
"Morta". Rispose velocemente lei. "Anni fa".
Sembrava che la lingua le si fosse sciolta. Esaminò quindi con cura l'etichetta della bottiglia di vino, quanti gradi aveva?
"Hai compagno?".
Vittoria si pietrificò con la bottiglia in mano. "Uh?".
"Uomo... all'hangar di aereo. Tuo compagno?"
Vittoria tenne lo sguardo sulla bottiglia. Era di nuovo incazzato nero, mentre si ingozzava di carne.
"Luca intendi? No, solo un idiota".
Ti da fastidio che ci sia un altro uomo?. Si domandò lei. Volkov fece trasparire un minimo fugace sollievo, anche se era chiaro cosa ne pensasse dei rapporti interpersonali con il genere femminile.
"E tu? Non c'é nessuna donna nella tua vita?", chiese in fretta. Tanto valeva tirare fuori tutto, lui era già sulla difensiva. Peggiorare ulteriormente la situazione, sembrava cosa ardua.
"No".
"Difficile credere che uno come te pratichi l'astensione".
Lungo silenzio. Per nulla incoraggiante.
"Qualcuno c'era".
"C'era?".
"C'era".
"E quando è finita?".
Lui la fissò a lungo. Poi, all'improvviso, cambiò espressione e l'atteggiamento da uomo d'acciaio parve fluire via come sangue dal suo volto.
Appoggiò la forchetta, si stropicciò gli occhi con il pollice e l'indice, poi borbottò una imprecazione nella sua lingua.
La tensione nell'aria parve tutt'altro che allentarsi.
All'inizio Vittoria non si fidò di quel repentino cambio d'umore ma poi lo vide espandere l'ampio petto, quasi stesse cercando di riaversi.
"Dio, pensavo di finire oggi. La cosa con altra donna. Io pensavo di venire da te, credo. Dopo sposati io non avere veramente obblighi con te ma se tu permetterai me... io verrò da te".
Lei batté le palpebre, pervasa da una sorta di eccitazione erotica al pensiero che Volkov decidesse di troncare qualsiasi altra relazione per lei.
Se lo immaginò cadere su delle lenzuola bianche con un altra donna fra le braccia.
Le tremarono le mani. Caspita.
Quella sera le sue emozioni stavano battendo ogni record di velocità.
Prima era stata terrorizzata, poi incavolata e in quel momento follemente gelosa.
C'era da chiedersi come si sarebbe sentita poco dopo.
Non felice, probabilmente.
Mentre i camerieri portarono via anche i secondi piatti, Vittoria rimpianse di non essere dotata di un maggiore autocontrollo.
"Non piace, dà?". Mormorò Volkov.
"Che cosa?".
"Che io vado con altra".
Lei se ne uscì con una risata cupa, odiando sé stessa. Lui. L'intera situazione di merda. "Vuoi forse farmene una colpa? Non ancora sposata e sono già cornuta".
Il dessert venne servito, fragole intere su un piattino dal bordo dorato. A parte, una specie di crema al cioccolato dove intingerle. E un biscottino.
In circostanze normali, Vittoria avrebbe ripulito di corsa tutto quanto, ma la testa le vorticava ed era troppo scossa per riuscire a mangiare ancora.
"Fragole, non piacciono?". Chiese Volkov infilandosene in bocca una. I denti, di un bianco scintillante, affondarono nella polpa rossa del frutto.
Lei si strinse nelle spalle, imponendosi di non guardarlo. "Si, mi piacciono".
"Ecco", disse lui prendendo un frutto dal proprio piatto e sporgendosi verso di lei.
Le lunghe dita stringevano sicure il gambo, il braccio a mezz'aria.
Vittoria moriva dalla voglia, eppure ribatté: "Posso mangiarla da sola".
"Lo so" disse piano lui.
"Hai fatto sesso con lei?", chiese Vittoria.
Lui inarcò le sopraciglia. "Quando?".
"Nei giorni che mi hai lasciata in casa e tu dormivi fuori".
"Dà, ma... è finita".
Era finita, certo crediamoci.
Oh, avanti cresci. Si impose lei, mica stavano insieme. Lei non voleva nemmeno sposarlo fino a qualche ora prima e adesso se lo immaginava nudo ogni tre minuti.
Colpa del vino... non c'erano dubbi in merito.
L'aveva fatta ubriacare, con tutti i suoi brindisi a casaccio. Lei ci era caduta come una cretina.
Lui fece per ritirare la mano e allora lei si diede una svegliata. Si protese in avanti, aprì la bocca e la chiuse attorno alla fragola. Volkov schiuse le labbra guardandola masticare.
Quando qualche goccia del succo zuccherino le colò sul mento, lui si lasciò sfuggire uno sbuffo dalle narici.
Afferrò il tovagliolo e le pulì le gocce con tocchi delicati.
Si chinò su di lei. Il respiro che le accarezzò la pelle e le labbra di lui incontrarono quelle di lei.
Una sorta di energia oscura li unì, diventando più potente secondo dopo secondo.
L'intero corpo di Vittoria rabbrividì in risposa e si guardarono, al chiarore delle candele tremolanti e delle luci dell'intera città notturna alla finestra.
Non era nemmeno sicura di che cosa fosse.
Si sentiva drogata.
Sembrava che l'intera stanza fosse calata nell'oblio, quell'incantesimo tra di loro qualunque cosa esso fosse, era più potente di lei o di lui.
In quel momento, Vittoria scorse il dubbio negli occhi di Volkov. In lotta con la selvaggia lussuria. La voleva, anche se sapeva che non doveva.
La mano di Vittoria si contrasse dalla necessità di allungarsi e tirarlo ancora verso di sé. Non gli sfuggì e questo fu il fattore determinante per lui.
Veloce come sempre, la afferrò per un braccio e la costrinse ad aggirare il tavolo attirandosela verso di sé.
La sbatté in malo modo con il culo sulle sue ginocchia e prese a leccarle i residui di succo di fragola dal mento, poi passò alle labbra in una bramosa maniera che spinse Vittoria a separarle per lui.
Aveva le mani fra i capelli dell'uomo, stringendolo e tirandolo, mentre la assaggiava con una abilità che la faceva sentire stordita e dolorante per averne di più.
Le abili mani del russo armeggiarono per qualche secondo con la scollatura di lei prima di riuscire nell'impresa di scoprire un capezzolo.
Quando spostò le labbra sulla gola di lei, Vittoria gemette per la protesta.
Ma poi la leccò contro la clavicola, assaporando una zona che non sapeva fosse così sensibile.
Quando arrivò al senno scoperto, Vittoria era una pozzanghera di bisogno e desiderio.
I suoi possenti muscoli erano tesi nel tentativo di tenerla stabile sulle sue gambe, i bicipiti erano gonfi sotto la giacca tirata fino al limite.
La lingua di Volkov turbinò intorno al capezzolo, stuzzicandolo, ma senza mai toccarlo del tutto. Proprio quando la ragazza pensò di non poterne più, lui la aggredì di nuovo.
La bocca calda era su di lei, succhiando, leccando e mordicchiando il seno. Vittoria non ricordava neanche più quando era stata l'ultima volta che era bruciata così tanto tra le braccia di un uomo.
Poi, tutto si fermò. La guardò, i suoi occhi in fiamme e lei sentì come se il cuore le stesse per esplodere.
Mentre con una mano continuò a sorreggerle la schiena, con l'altra Volkov andò a frugare rabbiosamente nella tasca della giacca.
Si udì un tintinnio e l'uomo sorrise come un bambino a un centimetro dalle labbra gonfie di lei, sbavate dal rossetto andato in malora.
"E questa, quando te la sei fatta dare?". Chiese scioccata lei, in un soffio.
Volkov esibiva trionfante una piccola chiave decorata con arabeschi e con appesa la targhetta identificativa di una stanza all'ultimo piano. Il piano dove si trovavano in quel momento.
Un attico.
Razza di presuntuoso figlio di puttana.
"Vuoi me?", chiese con voce greve lui. Il timbro reso roco dalla bramosia. "Decidi tu ora, perché io poi non mi fermo".
Vittoria stava ancora ansimando, quando le labbra di lui trovano il collo di lei. Leccandolo e succhiandolo, le avrebbe fatto presto un ematoma.
Volkov allungò una mano più in basso, proprio lì tra le gambe della ragazza.
"Apri gambe", ordina lui. Lei obbedì prontamente, lo fece cazzo. Non stava nemmeno ragionando minimamente.
Lui emise un basso ringhio, la libera espressione della soddisfazione maschile.
Era bagnata fradicia, poteva sentirlo sulle mutandine mentre lui le sfregava le dita impietosamente attraverso il tessuto.
"Sei così bagnata per me? Dimmi che mi vuoi dentro di te", grugnì lui contro le sue labbra. Più animale che uomo, completamente travolto.
Un lungo gemito lento uscì dalla gola di Vittoria. La stava facendo impazzire, con i suoi suoni gutturali e i suoi sospiri profondi da bisonte.
Sembrava troppo bello, doveva essere delirante. Niente era stato così bello.
Lei si allungò verso la cerniera dei pantaloni di lui, era teso. Turgido e enorme.
"Lo senti?", gracchiò Volkov. "Sono pronto, andiamo in camera?".
Era così difficile trattenersi, controllarsi. Nella vita c'era sempre bisogno di apparire perfette, educate, fini e a modo.
Era così stancante, lei voleva sentirsi viva e infondo... era molto più semplice cadere che resistergli.
Per una notte poteva non ragionare, lui non le avrebbe fatto del male perché il suo desiderio rifletteva assolutamente quello di lei.
L'attrazione c'era stata fin dall'inizio e il fatto che lui l'avesse salvata da un tentato stupro e morte certa, l'aveva arricchita di un'altra dimensione. Una intesa forgiata nella fornace del terrore e del dolore. Niente di tutto ciò era alla base di un rapporto solido, però questo era il bello.
Per una notte... poteva lasciarsi andare.
Lei sì che sapeva schivare la vita.
Gli rubò la chiave dalla mano, si coprì veloce il seno e scivolò giù dalle sue ginocchia.
"Andiamo?". Tubò sensuale favorendogli la visuale sul fondo schiena, mentre si dirigeva verso la porta. Le chiavi fatte ballonzolare in alto, come un campanellino a richiamo del servo ubbidiente.
Volkov, nell'alzarsi bruscamente, tirò la tovaglia e fece cadere le posate.
 
 
*AVVISO*
Il prossimo capitolo sarà da rating ROSSO. Non volevo penalizzare tutta la storia etichettandola totalmente come 'vietata ai minori' perciò avviso anticipatamente.
Vedo che sono tra autori preferiti di qualcuno e la storia è seguita.
Vi ringrazio!

 
  
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