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Autore: S iberia    27/11/2021    0 recensioni
Raccolta di one-shot anacronistiche che ruotano intorno al rapporto-non-rapporto tra i Giudici dell'Ade del Grifone e della Viverna, ed a come esso si sia trasformato, pur sempre vibrando sul filo d'un Sangue condiviso, nel corso di innumerevoli reincarnazioni e discese nell'Oltretomba.
Dal Capitolo I:
"Lui non era a suo agio nell’attesa contemplativa, non più. Non da quando era divenuto soldato.
Per questo sollevava lo sguardo solo in quei gironi in cui l’eccitazione degli Astri illusori si faceva più intensa e calava sui Cerchi ed i Gironi col lento vorticare d’un avvoltoio, tirandosi dietro un senso affamato di attesa. In quei momenti si scopriva spesso a sbirciare dagli squarci che le finestre dei palazzi aprivano sull’Oltremondo, tra gli squarci delle nubi dense e strascicate dell’imperituro crepuscolo e del suo brillare isterico.
Era dolce quel movimento, anche per lui che non era mai stato tipo da cedere alle commoventi impressioni delle Stelle. Dolce per lui, perché tra quei corpi celesti ed effimeri spirava finalmente un respiro di Guerra."
Genere: Generale, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Grifon Minos, Wyvern Rhadamanthys
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Sì. Nel caso qualcuno se lo stesse domandando, il titolo è chiaramete ispirato -se non proprio, sfacciatamente trapiantato- dai titoli della saga di Evangelion.
Questa sarà, spero, una raccolta di one-shot in cui ho intenzione di pubblicare tutti gli stracci che non trovano spazio nei cassetti delle altre storie.
Buona lettura, buon tutto!



 

XIII

Madama


Gli Astri del loro Cielo livido erano finalmente divenuti inquieti, specchio dell’irrequietezza che turbava l’infinito oltre il firmamento che soverchiava la dimora degli uomini.
Osservava la vuota conchiglia che il loro Signore aveva riempito di drappi tenebrosi e cosparso di schegge brillanti, disponendole ad immagine di quell’altezza radiante e fredda che per servirlo si erano lasciati tutti alle spalle quando erano dovuti ridiscendere, chiamati ognuno al proprio scranno di sotterra.
Un gesto d’una finezza sentimentale quasi materna quello di non voler privare i propri figli della bellezza siderea quando si conosce il loro periglioso cammino ed i recessi disperati in cui dovrà condurli. Rhadamanthys aveva sempre sospettato fosse stata la divina benevolenza della loro Regina ad aver elargito quel compassionevole dono.

Poi aveva compreso, coi secoli, notando la singolare azione di quel cielo.

Non voleva offrire l’infinito, ma, come una clessidra, palesare lo scadere del figlio terrestre e limitato del Tempo Eeterno.
Rifletteva il minuetto delle epoche, il tramandarsi delle preziose conoscenze umane, degli atti compassionevoli e pietosi così come delle corruzioni più abiette; mostrava l’aprirsi di porte troppo spesso ignorate, la circolazione compenetrante di piani, i doni e le privazioni, le cadute ed i risvegli; la Bilancia sempre all’opera dei lassi temporali.
Lasciava che gli Spettri, legati indissolubilmente alle profondità dell’Oltremondo, potessero scoprire le forze impresse sulla Terra prima che quell’impronta trasformante s’imprimesse nei loro domìni. Nelle volute purpuree e crepuscolari della loro volta cianotica, nella corsa prigioniera dei suoi astri, avevano sempre potuto scorgerle e prepararsi.
Vi erano, tra loro, di molto abili nel trarre previsioni da quei moti erranti e tracciare pronostici con largo anticipo.

Non lui. Lui non aveva mai prestato troppa attenzione al roteare di orbite contro il soffitto della loro perenne dimora – della loro amabile prigione.
Lui domandava e pretendeva una risposta, non aveva in sé la paziente attenzione per poter scorgere nell’occhieggiare tremulo di una Stella un messaggio.
Lui non era a suo agio nell’attesa contemplativa, non più. Non da quando era divenuto soldato.
Per questo sollevava lo sguardo solo in quei gironi in cui l’eccitazione degli astri illusori si faceva più intensa e calava sui Cerchi ed i Gironi col lento vorticare d’un avvoltoio, tirandosi dietro un senso affamato di attesa.
In quei momenti si scopriva spesso a sbirciare dagli squarci che le finestre dei palazzi aprivano sull’Oltremondo, tra gli squarci delle nubi dense e strascicate dell’imperituro crepuscolo e del suo brillare isterico.
Era dolce quel movimento, anche per lui che non era mai stato tipo da cedere alle commoventi impressioni delle Stelle. Dolce per lui, perché tra quei corpi celesti ed effimeri spirava finalmente un respiro di guerra.

Nessuno ora avrebbe potuto osare guardare estatico il Destino che ogni moto stava descrivendo con nere tracce di inchiostro, nere come il sipario che doveva chiudersi sul mondo a breve.
Ma lassù, in superficie, aveva pensato sorridendo, nessuno ne era al corrente.

“Ed è meglio così. Gli uomini sono tristemente superstiziosi, perduto come hanno il senso reale delle cose, dei simboli, dei codici ormai. Trarrebbero i peggiori presagi da una tale disposizione astrologica, non ne comprenderebbero l’infinita magnanimità.”
“Non la vedono? Com’è possibile?”
“Vede sommo Rhadamanthys” il bianco dito del Negromante si era sollevato indicando soavemente oltre l’ogiva di una delle finestre della Tolomea, il cielo, ”la nostra è ovviamente solo una replica, una sorta di mappa virtuale del reale Sistema Solare. Se gli astri si muovessero davvero a questo modo ed a questo passo, non vi sarebbe nemmeno bisogno dell’intervento del nostro divino Signore: l’umanità si estinguerebbe in un battito di ciglia, e questa guerra non sarebbe necessaria.” aveva riso, freddo, gli occhi di onice pericolosamente acuti: “Oltre al fatto che la Grande Eclissi pronosticata è fisicamente impossibile. E’ un fatto…un fatto di vibrazione, comprende sommo Rhadamanthys?”

Lui aveva annuito, distratto dalle orbite sempre più serrate tra loro che gli danzavano innanzi, e forse non aveva compreso fino in fondo nonostante non gli fosse sfuggita la cordiale semplicità con cui il Negromante aveva cominciato a rivolgerglisi, abbandonando ogni metaforica parabola, ma nemmeno gli interessava.
Nulla aveva interesse per lui, tranne quello che ormai appariva lampante: era tutto ridotto ad una questione di giorni, ore.

E qualche giorno era si era già sgretolato in polvere nell’ampolla del prima, quando aveva varcato ancora la soglia della Tolomea.
Questa volta non vi erano state le spiegazioni del Negromante a raccontargli la vita del cielo, giacché una disposizione singolarmente rettilinea si stava condensando sempre più chiaramente via via che gli istanti si consumavano l’uno sull’altro come ciottoli in un fiume.
Regnava agitazione tra le centootto Stelle buie, così come tra le anime che una volta avevano vestito il manto dorato delle creature custodi delle tappe dell’eclittica.
Le anime dei custodi dello Zodiaco, quelli giunti fuggendo imprendibili come sabbia dalle dita del secolo corrente, avevano chiesto di parlare con la sacerdotessa che inondava la Giudecca di sinfonie di funereo trionfo. Avevano piegato il ginocchio, chiedendo udienza, chiedendo accoglienza nelle schiere nemiche, amareggiati da una fine ingloriosa nel completo abbandono della loro onorevole Divinità. Le loro parole erano state ascoltate, le sue, quelle di un Giudice dell’Oltremondo, messe a tacere da una vibrante nota oscura pizzicata dalle dita di serpente di Pandora.
Ed ora, col marchio dell’umiliazione ancora bollente sotto la pelle, Rhadamanthys voleva parlare, srotolare le vaste pergamene della sua mente sondandone gli intricati progetti e fortificare gli animi, armare i nervi, mentre quel sospiro foriero di battaglia diventava ormai un rombo sordo che scuoteva e metteva a soqquadro l’Universo.
Qualche cosa di sinistro era giunto a tingere d’incerto la sua eccitazione.
E se le orecchie della sacerdotessa restavano sorde, i timpani del cuore di chi come lui stringeva in pugno le redini di un esercito non potevano non aver udito la traccia di quel sottile avvertimento.

Ma Aiacos aveva disertato la chiamata.
Il suo Cosmo aveva la quieta inarrivabilità d’una dama velata, celato in nubi di freddo incenso nell’intricato dedalo di mandala che sanguinavano dalle pareti dell’Antenora.
Aveva bisogno di raccoglimento, gli aveva detto, in vista dell’imminente battaglia. Per meditare sul proprio Cosmo, per domarne la fiamma selvaggia e piegarla al servizio del loro Signore.
Aveva bisogno di qualche istante col doloroso cilicio delle sue rimembranze, aveva capito insofferente Rhadamanthys, perché l’incendio della sua collera non lo disperdesse come cenere inservibile nella tempesta della battaglia.

Aveva schioccato la lingua, riflettendosi nel vetro.
Alle sue spalle il fedele manto delle spigolose ali della Viverna che prometteva di assisterlo in ogni passo avanzato per la gloria del suo Sovrano. Gustava il loro peso di piombo sulle spalle, leale. Eterno. Fedele: così era la sua attesa certa dopo la certa Morte che lo avrebbe riportato da lei, da Lui, a Casa.
Non poteva fidarsi di nessuno se non della Viverna dalle impenetrabili scaglie buie; Garuda era un’incognita pericolosa ed irascibile, che non aveva mai compreso con lo stesso amore tiepido con cui il Grifone aveva distinto in lui la malarica traccia dell'uomo dall'inossidabile tempra del giudice.
Mentre il Grifone…il suo riflesso bianco e fatuo sul vetro, alle sue spalle, gli aveva rapito l’attenzione.

Assiso alla sua imponente scrivania era ancora impegnato nel muto dialogo col complicato ritratto che dalle sue mani, lentamente, aveva preso forma: uno stuolo di carte dispiegato sibillino e sussurrante sotto alle sue dita. Un netto segno verticale alla radice del naso rivelava una condensa di pensieri inespressi dal suo sorriso vacante - un Re ieratico seduto davanti ad interminabili carte acquatiche flagellate di rotte filiformi, intessute attorno alle traiettorie di un nemico straniero. Sordo a tutto tranne al distillato rivelatore che dalla conoscenza del Divino colava, per lui ed i suoi figli, negli alambicchi delle cerimonie. Ritratto e solo di una solitudine cercata, afflitta da immaginate nemesi vicine ed intestine.

Lui, impaziente girava ora ferino intorno al desco, coi passi minacciosi contro il marmo bianco del pavimento che a volte affondavano assorbiti da qualche persiano intreccio disteso in terra, costretto tra le impervie mura di libri che l’esperienza aveva affidato alle cure del suo possessore - un Principe armigero la cui lealtà non scaldava i ventricoli di neve della somma autorità, il cui vibrante onore e l'intelletto scalpitante restavano inguainati nella fodera della subordinazione, e la favella imbavagliata in un ossequioso mutismo d'attesa. 

Il silenzio non pesava, ma come un denso fumo argenteo si librava a mezz’aria prendendo acre alla gola.
Rhadamanthys sbirciava il tessuto ordito delle carte, un muro di figure vuote che per lui non avevano chiaroveggenze da indicare in quell’attesa monolitica.

“E questa?” il suo dito si era abbattuto greve contro la carta appena disposta: “Dov’è il suo nome?” aveva domandato truce quasi fosse un affronto che quella carta non volesse rivelargli nemmeno il più chiaro indizio.

“Denominazione.” aveva precisato l’altro senza sollevare lo sguardo, scostando il suo dito pretenzioso dallo schema con soave fermezza, spazzando via il suo tentativo di penetrare l’inossidabile sfera della sua concentrazione.

Rhadamanthys aveva serrato la mascella: “E’ indifferente…allora, non ce l’ha?”

“La Lama Tredici?”

Le braccia conserte a schermarsi il petto, il mento sollevato, Rhadamanthys aveva annuito: “La Lama Tredici.”

Gli occhi del Grifone si erano concessi ancora una fugace impressione della figura, dell’azzurrina corda delle vertebre e della vuota orbita troneggiante nel teschio scarno, per sollevarsi, al fine. Mobili e stupefacenti avevano avuto un guizzo divertito prima che vi s’infondesse una morbida luce pietosa.
Minos aveva persino quasi sorriso con la medesima condiscendenza di quel riverbero danzante. E Rhadamanthys aveva serrato di più le braccia, chiudendo suo malgrado le spalle.
Il volto feroce e buio: “Non guardarmi a quel modo!”

“…non l’ha mai avuta.”

“Cosa?”

“Una denominazione.” Ed anche se tutto non era stato detto, abile nel riconoscere un’ offesa che fosse un colpo che s’imprimeva livido nella carne o una risata sommessa od omessa, Rhadamanthys aveva avuto un fremito di fredda ira. Perché lui non era paziente, e non aveva mai imparato ad Osservare invece che domandare e pretendere; non gli era mai interessato. Non aveva mai imparato a decifrare il verbo corale delle Lame, le loro allusioni a seconda della posizione; aveva sempre dubitato, in verità, che avessero alcunché da dirgli.
Aveva sempre dubitato che avessero qualche cosa da dire a chiunque, ma Minos camminava inseguito da uno strascico di logora follia, non avrebbe mai potuto trarlo al riparo dalle visionarie supposizioni di quel tedioso mosaico.
Supposizioni che ingoiavano sorsate di tempo, ingorde e spregevoli, consumando un vantaggio prezioso per coordinarsi a difesa de...“La Morte.”
Un sussurro liscio ed inscalfibile, di marmorea certezza improvvisa. Un fiotto caldo, in petto, di riconoscimento.

“La Morte.” aveva annuito Minos, pacatamente sorpreso. E poi: ”Il Maestro, la Maestra…il Disordine.” aveva soffiato, portando un dito alle labbra.

“Quanti epiteti per la stessa cosa!”
"Non è sempre la stessa cosa. Anche per questo la Lama Tredici è innominabile ed incerta.”

Una risata di sprezzante cortesia era stata la nota del sorriso incredulo di Rhadamanthys. “Ora non è più certa nemmeno Lei?” – nemmeno Lui?

“Le certezze sono il miraggio sperato di chi annega nei dubbi.” un lampeggiare sinistro e sentenziante di iridi dolcissime.

Ed allora non era più stato l’azzardo di un solo dito, l’intero pugno vergato con prepotenza si era scontrato con la muta rivelazione delle carte: “Dovresti smettere di giocare come un bambino, Minos! Non è il momento, ora! Dovremmo prepararci per quanto sta cominciando! Tu invece attendi che queste sei, inutili figure lusinghino le tue malate superstizioni e ti svelino dove, nel futuro, s’inscriverà l’arabesco lancinante del pugnale che calerà sulla nostra schiena, mentre ci sono sei guerrieri affamati di vita che quel pugnale lo stanno affilando nei bui anfratti delle loro anime di traditori, proprio qui, proprio adesso! Cercate tutti col naso per aria di prevedere pericoli che, se guardaste in basso, vi si parerebbero innanzi spogli delle parabole semantiche delle vostre Arti troppo ambigue per essere oneste!”

Minos aveva guardato la scheletrica mietitrice schiacciata sotto alle nocche frementi di Rhadamanthys, poi sollevando lo sguardo lo aveva pugnalato con una sentenza d’inaspettato oltraggio: “Sei così ottuso alle volte. Proprio come all’inizio.” Le carte gli si erano assiepate sotto alle mani protettrici, accalcandosi l’una sull’altra pigolando frammenti di colore, e volti, ed occhi distanti che si mescolavano in un unico e muto giudizio all’indirizzo della Viverna. Poi, il Grifone si era erto in un fruscio di toghe, nel gelo d'uno sguardo soppesante: “Se le tue intuizioni sono più vere di quelle che possono elargire magnanimamente le carte, non venire da me in cerca d’una goccia di conferma che aggiunga nuova linfa alle tue supposizioni. Quante volte sei passato per il soglio della trediesima Lama? Ed ancora in te riesco a scorgere la penombra del bambino che mi girava intorno, sperando che prestassi orecchio alle sue parole piuttosto che a quelle dei nostri Dei e della Famiglia. Sei davvero ottuso. Proprio come lo eri all’inizio.”

 
*

Note sul fondale:

Capitoletto molto semplice.
Probabilmente è una sensazione che ho solo io ma credo che, in senso involutivo, Rhadamanthys sarebbe una persona d'arido pragmatismo circoscritto mentre Minos un pazzo fulminato.

 
  
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